I cazzi tuoi, Adelmo
Inviato: lunedì 13 luglio 2020, 23:36
Preambolo per la situazione di merda.
Facciamo che mi chiamo Adelmo. Un nome altisonante, di qualcuno che un giorno farà qualcosa di importante. La gente si inventa queste stronzate, dare ai figli dei nomi di classe e sperare che basti a rendere il futuro migliore.
Beh, io non sono diventato migliore. Non sono nessuno e questo va ricordato.
L’unica cosa che sono bravo a fare? I cazzi miei.
Via Oberdan, la palestra.
Caio dice di avere un lavoretto facile facile, sto andando da lui.
Caio si allena in via Oberdan, un buco nelle fondamenta di un condominio. Ci vuol coraggio a chiamarla palestra, diciamo piuttosto un ritrovo per disgraziati: disgraziati che staccano da un turno massacrante in fabbrica e hanno ancora voglia di menare le mani.
La porta si staccherà, una volta o l’altra: mi cadrà addosso come nei cartoni animati. La volta non è questa. Dentro, il puzzo di ascelle ti ubriaca: non ho idea del perché le palestre di merda stiano sotto tonnellate di cemento e senza ricambi d’aria.
Che si fa in queste situazioni? Sali su un tram e il tizio vicino a te ha appena munto una pecora. Ti concentri e mandi la mente affanculo altrove, come fanno i monaci Shaolin di stocazzo. Stronzate. La zaffata persiste e ti riporta giù in quello scantinato.
Colpi sui sacchi, corde che schiaffano il terreno tra un salto e l’altro, grugniti. Eccolo, Caio: saltella sul ring e studia l’amichetto di sparring, il coach si tiene alla corda e sbraita, si incazza e muove la mano. Vorrebbe entrare lui, a dare una mossa al teatrino da film muto che sta guardando.
Caio è convinto di fare le Olimpiadi a Montreal, tra due anni. Quel coglione, andare in Canada a ghiacciarsi il culo. Non credo ci andrà: l’ho vista, la sua ferocia. Ci sono quelli che combattono per vincere, e ci sono quelli che combattono per poter azzoppare il prossimo. Lui è uno di loro.
«Sotto col jab, sotto!» grida il coach incazzato. «Cos’è, l’hai appena conosciuto? Ci vuoi scopare?»
Caio incassa, finta e poi entra col jab. Merda, l’altro finisce a terra, gli è andato addosso un muro.
Chissà perché Caio non combatte nei club clandestini. Farebbe soldi a palate, se solo ascoltasse i bookmaker e mandasse al tappeto quando glielo dicono. E invece continua a tentare la strada pulita. Sarà legato a questa storia delle Olimpiadi, vorrà mantenere l’etica di un atleta. Ed è un peccato, perché la sua testa pensa come una vera macchina da pugni.
Resta il fatto che non sono cazzi miei. Il bello, nelle cose che faccio, è che tengo un profilo basso. Minimo coinvolgimento, massima resa. Per Caio non è così, lui ci mette la faccia e spesso ci casca, in questo vaso di merda.
Gira intorno all’avversario, lo aiuta, alza la testa e mi vede. Il paradenti mi sorride.
Una volta ha staccato a morsi l’orecchio all’avversario. Chi lo farebbe? Se vuoi rimanere nel giro eviti le stronzate. Il bello è che nemmeno lo ha fatto sul ring. No, ha aspettato che il tizio tornasse in spogliatoio, dopo l’incontro. Ha aspettato che uscissero tutti e lo lasciassero solo. È entrato, l’altro riposava a faccia in giù sul lettino. Cazzo, gli ha tenuto ferma la testa e glielo ha mangiato. Fottuto animale.
«Adelmo!» Passa sotto le corde, scende.
Eccolo, gli faccio.
Il coach gli si piazza davanti, un mastino a due zampe che arriva alla cintura. «Ehi, Montreal, dove pensi di andare?»
Lo prende pure per il culo.
«Oggi stacco, coach.»
«Stacchi quando lo dico io.» Gli mette la mano sul petto. Ragazzi, per un gesto così devi avere pelo sullo stomaco. Gente come il mastino ce l’ha.
Il bisonte prova a spingere, il piccoletto insiste con lo sfottò. «È così che ti alleni, gioia? E dimmi un po’, che programma segui? Il metodo scritto di pugno da De Coubertin?»
«Chi?» chiede Caio.
Chi, faccio io.
Lui si volta e mi squadra, ho pisciato fuori dal secchio e non lo dovevo fare. Congiungo indice e pollice e li passo in orizzontale, sulla bocca. Ho tirato la zip, finisci pure il predicozzo.
Ma deve aver capito che non ha davanti due sapientoni che traboccano di scienza, perché scuote la testa, toglie la mano dal campione e lo manda affanculo. Chi stava a guardare torna a saltare, torna a picchiare, insomma torna a farsi i cazzi propri.
È un buon insegnamento.
Sempre via Oberdan, lo spogliatoio della palestra.
A Brescia esistono poche palestre di merda come questa. E fra tutte, lo spogliatoio peggiore sta in via Oberdan.
Caio ha calpestato una pozza e anch’io ci son finito dentro. Che sia piscio o acqua poco importa, il tanfo della palestra è niente a confronto. Mi pizzico il naso tra indice e pollice: un attimo e mi ci abituo, giuro.
Sulla nuca di Caio si aprono dei bozzi che fanno spavento. Si è tolto i guantoni, apre le mani bendate al soffitto di cemento e mi spiega il concetto.
«Fafile fafile.» Si volta e fa una cazzo di espressione da invasato. Un paziente psichiatrico che ha capito una battuta.
Togli il paradenti, gli dico.
Se lo sputa in mano. «Facile facile. Così tanto che nemmeno te lo immagini.»
Ora, ci sarà un motivo se un coglione come lui trova un lavoretto. Vedo poche alternative: sarà un lavoro di merda. Non glielo dico ma lo penso, lo penso eccome.
Sentiamo, gli dico.
«Una consegna. Martedì mattina. Ritiriamo, ci spostiamo e consegnamo.»
Detta così, tutto sembra facile. Ma il diavolo va a pisciare nei dettagli. Mio nonno, pace all’anima sua, faceva il predicatore a tempo perso. Mi si avvicinava col dito puntato: Adelmo, i cazzi tuoi, aggiungeva. E così ho fatto.
Caio mi dice quanta grana c’è in ballo: troppa. La storia puzza sempre di più, siamo in un letamaio.
Non so, gli dico. Com’è che li hai trovati, questi tizi?
«Si sono fatti vivi loro. Gliel’ha detto l’Arturo, che avevo bisogno di soldi.»
Solita storia, gentaglia che conosce altra gentaglia.
Rifletti, gli dico. Non ti conoscono, e ti offrono una consegna. Non mi fiderei.
«Ma io ho bisogno di quei soldi. Devo allenarmi.»
È davvero convinto di andare a Montreal.
Sospiro. Va bene, che devo fare?
Ha aperto l’armadietto. Tira fuori la borsa e la butta sulla panca, si mette a frugare. «Tu mi accompagni. Tu sei esperto in questi traffici, no?» Quando dice “esperto” calca sulla esse e si guarda intorno. Metti che ci siano delle spie naziste nascoste nel tubo della doccia.
Mi gratto la nuca. «Diciamo che mi faccio i cazzi miei.» Riposa in pace, nonno.
Trova il sapone e l’asciugamano, rimette via la borsa e sbatte lo sportello. Sul muro dietro, qualcuno ha disegnato la doppia ascia e una scritta, Ordine Nuovo. Qualcun altro ha fatto un’aggiunta, “succhia i cazzi”.
Stronzate che trovi ovunque, in questi anni di merda. Neri, rossi, mi fanno tutti schifo. Con i loro atti insulsi di rappresaglie e violenza. Mi chiedo se Caio faccia parte di qualcosa. No è troppo stupido.
La gente stupida non va bene. Fa casino, è un fanatismo senza cervello che nessuno vorrebbe dalla propria parte. Caio sta nel mezzo come tanti altri, come me. Con la differenza che ho del sale, nella zucca. Mi faccio la mia vita.
«Adelmo.»
Dimmi.
«Tu l’hai capito chi è De Coubertin?»
Che cazzo ne so.
Via San Faustino.
Camminiamo sotto un cielo di piombo. Altro che fine maggio, cazzo, su via San Faustino è sceso l’autunno. Non ci sono più le mezze e via dicendo.
Caio c’ha sta camminata che proprio non ci siamo. La brutta copia di un gangster da pellicola anni cinquanta. Sarebbe dovuto rimanere a casa.
Lascia fare a me che poi dividiamo, gli ho detto.
Niente da fare. Non è che non si fidi, il fatto è che gli piace l’idea di fare il duro. Sei un fottuto treno di pugni sul ring e pensi di portare l’esperienza in strada. Faglielo capire, che non è lo stesso match. Non è nemmeno lo stesso sport, cazzo.
La chiesa di San Faustino mi osserva, mi dice vacci piano. Non sono credente, ma hai visto mai. Però odio i cattolici convinti, nei miei traffici li evito come la peste. Ci ho avuto a che fare e per me è stato abbastanza. Ragazzi, le cose che non ti chiedono. Quando vedo che c’è di mezzo Dio, getto la spugna.
Comincio a farmi un’idea del perché lo scambio avvenga oggi. C’è una manifestazione importante, in piazza Loggia, dicono che saranno presenti pure un paio di Onorevoli. Se devi smerciare qualcosa, scegli la folla. I polotti ci sono, certo, ma non sanno cosa cercare, c’è troppa gente, tengono d’occhio tutto e niente. Dieci a uno che si va in piazza Loggia.
Caio svolta in un vicolo, la puzza di pesce ci investe. Infilo le mani nel giubbotto.
Bussa alla porta, un mosaico di schegge che sta in piedi per miracolo. Cigolio di chiavistello, si apre uno spiraglio; Caio annuisce a qualcuno che sta dentro. Lo spiraglio diventa un rettangolo nero.
Caio mi manda un cenno. «Vieni.»
Incasso la testa nel colletto, lo seguo. La porta mi si chiude contro il piede.
Ma che cazzo, dico.
«Lui chi è?» sento.
«Uno dritto», risponde Caio.
Si può dire “uno dritto”? Restiamo nel film anni cinquanta, il magico mondo di Caio. La porta allenta la presa sulla scarpa, mi infilo.
Una scala si arrampica al primo piano, ma il tizio ha voglia di tenerci in quell’ingresso, nella semioscurità. Baffetti, capelli corti, un giubbotto di pelle.
Le palle mi si fanno piccole. Non so in che pasticcio si sta cacciando il mio socio, ma sarà bene uscirne in fretta. La mano esce dall’ombra, il tizio ci allunga una borsa. Il giubbotto puzza di sigaretta, l’odore è forte. Quando te la fai sotto, i sensi sono all’erta.
Che c’è nella borsa, chiedo.
«Non sono cazzi tuoi.» Accento veneto, direi. Non saprei dire da quale zona, quelli si esprimono tutti uguale. Un po’ come se mi dicessero che parlo bergamasco. Puoi incazzarti, certo. Ma visti da fuori, bresciani e bergamaschi hanno la stessa fottuta parlata.
Cosa ci fanno se ci beccano, chiedo.
«Non vi beccano. Andate in piazza Loggia, trovate i comunisti che se la cantano e se la suonano. Cercate il lampione vicino alla statua. Alle dieci meno un quarto, un tipo vi chiederà la strada per la stazione. Dategli la borsa.»
Di solito non faccio domande, in fondo è una filosofia di vita. Questo perché sono abituato a sapere con chi tratto. Qui invece non si sa un cazzo, il mio socio sa ancora meno e la faccenda mi stona di brutto.
Cosa c’entrano i comunisti, chiedo. Chi è il tipo che andiamo a incontrare, un comunista ricercato?
Domani ripenserò a questa domanda idiota.
Scopre gli incisivi sotto quei baffetti del cazzo. «Non c’entrano niente i comunisti. Cos’è, hai paura dei comunisti?»
Non ci voglio avere a che fare, rispondo.
Il giubbotto si sposta e arriva un’altra ondata di tabacco. «E tu non c’avrai a che fare.»
Caio si tortura le mani. Mi lascia parlare ma è agitato, tira su col naso.
Sollevo la borsa, la soppeso. Droga, forse. Un’arma. Non si capisce.
Penso a Caio e mi chiedo se non sia meglio mollare. In fondo è una buona anima, mi spiace che si sia fatto tirare in mezzo.
Baffetto pesca dal giubbotto una mazzetta, gliela dà. Caio la prende e fa una faccia da ebete. Si mette a contarli, il novellino. Nel mio lavoro, impari a pesare i soldi con un’occhiata.
Finisce di spulciarli. Spinge fuori le labbra, aggrotta la fronte. «Dove sono gli altri?»
Baffetto alza un sopracciglio, come a dire un’ovvietà. «Cinquanta ora, cinquanta alla consegna?»
Caio stringe gli occhi. «Ma io li voglio adesso.»
«Certo, come no. Vattene, bestione, fuori dai coglioni.»
In un attimo realizzo: questa storia è una porcata. L’organizzazione fa cagare, Baffetto sa di pericoloso. E Caio è il meno adatto per questo lavoro.
Non puoi fare domande simili. Soprattutto, non prendi gli insulti sul personale. È il gioco delle parti, perdio. Sto per dire che l’affare è saltato, che si cerchino qualcun altro. Senza saperlo, è probabile che io stia per evitare una strage.
Il pugno di Caio mi passa davanti agli occhi e giuro, l’aria si sposta. Baffetto rimbalza sul muro e va giù, secco.
Gesù, che cazzo hai fatto?
Caio non risponde, dilata e contrae le narici.
Che cazzo era quello?
Mi guarda. «Ma lui mi ha… mi ha detto—»
Andiamo, gli dico. Ce li hai i soldi?
Li strizza nella sinistra.
Prendo la borsa.
Usciamo e mi tiro dietro la porta.
Di male in peggio, Adelmo, di male in peggio.
Piazza Loggia.
Il cielo sta pisciando.
Il cielo è un vecchio che si tiene l’uccello con mano malferma, il getto saltella e tutta ‘sta gente si copre la testa con ciò che ha. Il lastricato è lucido, slitto se non sto attento.
«C’ho caga, Adelmo.»
Potevi pensarci prima di mandarlo al tappeto.
«Andiamo via.» I suoi occhi implorano.
Se ci tiriamo indietro, gli dico, ci verranno a cercare. E ci faranno il culo, stanne certo.
La maniglia della borsa scivola avanti e indietro nella mano, ci imbuchiamo nella folla. Sotto gli ombrelli è facile nascondersi allo sguardo dei polotti. Anche se Caio svetta come la Madonnina di Milano. Saranno pure cazzi suoi e di sua madre che l’ha partorito con quel bel testone. Povera donna. Deve essergli rimasto metà fuori e metà dentro per troppo, sennò non sarebbe così stupido.
Allungo la mano davanti gli occhi, la manica scivola indietro. Nove e trentacinque.
«Che facciamo, Adelmo?»
Buono, sta’ buono e guarda il palco.
Alzo la testa e butto un occhio alla statua, al lampione della consegna.
Dio quanta gente. Comunisti e sindacalisti. Non quelli che stanno a casa e escono solo per votare: questi non si fanno i cazzi loro. Vedo cartelli, ce l’hanno con quegli altri stronzi dei fasci. E in tutto questo, entrambe le parti prosperano. Si accoltellano, giocano a farsi saltare in aria.
È una fottuta legge del branco. Prendi una posizione, il resto vien da sé: di qua gli alleati, di là quelli da ammazzare. E allora penso, si ammazzino pure. Rossi, neri, ultravioletti del cazzo. Si trovino in un campo, si facciano a fette, vince l’ultimo che resta in piedi. A me e al mio socio, qui, interessa solo di consegnare.
Prendere la grana e levarci dai coglioni.
Sollevo la mano, nove e quarantatrè. Andiamo, gli faccio, è ora.
Arrivo al lampione.
Le nove e quarantacinque. Caio pesta i piedi.
Le nove e cinquanta. Il tizio non viene, dico.
Mi guardo intorno. La maniglia scivola, cambio mano.
«Dove è, Adelmo?»
Non lo so, cazzo. Non lo so.
Ancora cinque minuti, non uno di più. La lascio qui, ‘sta borsa di merda. Si fottano tutti: il tizio coi baffetti, le brigate rosse, gli ordinovisti, i cattolici e l’Italia tutta.
Mi volto. Sulla campana, le statue dei Macc de le Ure mi guardano e ridono. Adelmo, ti guardiamo da quando sei nato, ora lasciatelo dire: sembri un coglione.
Le voci agli altoparlanti si incazzano, parlano di democrazia e libertà violate. La folla attorno a me risponde.
Una voce alle mia spalle. «La strada per la stazione, per favore.»
Caio si volta, io no. Non voglio vederlo. Poggio la borsa, mollo la maniglia. Nella mano aperta mi allunga la busta. Intasco.
Andiamo, Caio.
Navighiamo in quella folla adorante votata alla falce e martello. Mi faccio strada tra gli ombrelli.
«Hai la grana?» chiede Caio.
Tranquillo, gli dico. Passiamo di qua, stiamo coperti.
Meglio allungare il giro, prima di uscire dalla marmaglia. Confondiamoci, scegliamo la via lunga. Avrò pure imparato qualcosa, in tutti questi anni.
Sollevo la mano. Dieci e cinque. Bene, nessun polotto si è avvicinato.
Andiamo, Caio.
Passiamo sotto l’altoparlante. Una voce forte, chiara. «Eppure, il Movimento Sociale Italiano vive e vegeta. Almirante, che coi suoi lugubri proclami...»
Ecco, siamo fuori.
Imbocco l’androne verso piazza Vittoria.
Ce l’abbiamo fatta.
La voce al microfono arriva che sembra ovattata.
«A Milano...»
E l’aria rimane immobile per un istante, appesa a quelle due parole.
Ed ecco che scoppia il casino infernale.
Uscita di scena.
Non ho mai saputo cosa ci fosse in quella borsa, preferisco non pensarci.
Ma non pensarci è difficile, allora ipotizzo che contenesse merce di contrabbando, documenti falsi, roba del genere insomma. Roba che il tizio è riuscito a portare via prima della strage.
Caio si è ammazzato. Non era fatto per questo genere di lavoro. Avrebbe dovuto continuare con l’allenamento e basta. A Montreal non ci sarebbe andato comunque, ma almeno sarebbe vivo.
Non provo rimorsi, nemmeno da lontano. Se ti dicono di fare un lavoro, tu lo fai e basta. Se non sai nulla, se ti fai i cazzi tuoi, non puoi avere rimorsi, è matematico. Ciò che non sai, non ti uccide.
Caio si è buttato dal tetto del condominio di via Oberdan. Sì, quello della palestra, per intenderci. Quando l’hanno trovato, aveva le mani legate dietro la schiena, un suicidio abbastanza singolare, se mi è permesso. Forse era salito in bilico sul cornicione, e aspettava la fottuta folata di vento del destino. Quando cadi, volente o nolente, cerchi un appiglio. Forse Caio se le era legate perché voleva evitare questo gesto istintivo. Nobile da parte sua, un po’ come i giapponesi quando decidono di sbudellarsi: si tengono vicino il tizio con la lama. Si sa mai.
O forse è andata come dicono i polotti: che qualcuno ce lo ha buttato, da quel balcone. È una versione che mi interessa tanto quanto l’altra, cioè zero.
Sono vivo. Non penso che Caio abbia mai fatto il mio nome, se è vero che sono andati a trovarlo prima che saltasse.
A pensarci bene, nulla vieta di pensare che io abbia fatto il suo. Ma è un punto sul quale non intendo esprimermi: il giorno in cui verrà fatta chiarezza su tutta la vicenda, con un po’ di fortuna sarò morto e sepolto.
Mi piacerebbe dare un messaggio a quelli che continuano a chiedere spiegazioni. Quelli che vorrebbero saperne di più, quelli per cui “non è ben chiaro”. Beh, il mio messaggio è che allora non han capito un cazzo. Non è che nuove domande portano per forza a nuove risposte.
Provino a guardarla da un altro punto di vista: i troppi perché ti fanno impazzire. Fottitene delle risposte, non è difficile: la gente lo fa ogni giorno per le stronzate. Devi solo applicarlo anche alle cose che ritieni grandi. È un buon modo per restare vivi.
E quando ogni altra cosa è stata detta, aggiungo un pensiero che mi preme, qui, dritto nelle budella.
Mi sono sempre fatto i cazzi miei.
Facciamo che mi chiamo Adelmo. Un nome altisonante, di qualcuno che un giorno farà qualcosa di importante. La gente si inventa queste stronzate, dare ai figli dei nomi di classe e sperare che basti a rendere il futuro migliore.
Beh, io non sono diventato migliore. Non sono nessuno e questo va ricordato.
L’unica cosa che sono bravo a fare? I cazzi miei.
Via Oberdan, la palestra.
Caio dice di avere un lavoretto facile facile, sto andando da lui.
Caio si allena in via Oberdan, un buco nelle fondamenta di un condominio. Ci vuol coraggio a chiamarla palestra, diciamo piuttosto un ritrovo per disgraziati: disgraziati che staccano da un turno massacrante in fabbrica e hanno ancora voglia di menare le mani.
La porta si staccherà, una volta o l’altra: mi cadrà addosso come nei cartoni animati. La volta non è questa. Dentro, il puzzo di ascelle ti ubriaca: non ho idea del perché le palestre di merda stiano sotto tonnellate di cemento e senza ricambi d’aria.
Che si fa in queste situazioni? Sali su un tram e il tizio vicino a te ha appena munto una pecora. Ti concentri e mandi la mente affanculo altrove, come fanno i monaci Shaolin di stocazzo. Stronzate. La zaffata persiste e ti riporta giù in quello scantinato.
Colpi sui sacchi, corde che schiaffano il terreno tra un salto e l’altro, grugniti. Eccolo, Caio: saltella sul ring e studia l’amichetto di sparring, il coach si tiene alla corda e sbraita, si incazza e muove la mano. Vorrebbe entrare lui, a dare una mossa al teatrino da film muto che sta guardando.
Caio è convinto di fare le Olimpiadi a Montreal, tra due anni. Quel coglione, andare in Canada a ghiacciarsi il culo. Non credo ci andrà: l’ho vista, la sua ferocia. Ci sono quelli che combattono per vincere, e ci sono quelli che combattono per poter azzoppare il prossimo. Lui è uno di loro.
«Sotto col jab, sotto!» grida il coach incazzato. «Cos’è, l’hai appena conosciuto? Ci vuoi scopare?»
Caio incassa, finta e poi entra col jab. Merda, l’altro finisce a terra, gli è andato addosso un muro.
Chissà perché Caio non combatte nei club clandestini. Farebbe soldi a palate, se solo ascoltasse i bookmaker e mandasse al tappeto quando glielo dicono. E invece continua a tentare la strada pulita. Sarà legato a questa storia delle Olimpiadi, vorrà mantenere l’etica di un atleta. Ed è un peccato, perché la sua testa pensa come una vera macchina da pugni.
Resta il fatto che non sono cazzi miei. Il bello, nelle cose che faccio, è che tengo un profilo basso. Minimo coinvolgimento, massima resa. Per Caio non è così, lui ci mette la faccia e spesso ci casca, in questo vaso di merda.
Gira intorno all’avversario, lo aiuta, alza la testa e mi vede. Il paradenti mi sorride.
Una volta ha staccato a morsi l’orecchio all’avversario. Chi lo farebbe? Se vuoi rimanere nel giro eviti le stronzate. Il bello è che nemmeno lo ha fatto sul ring. No, ha aspettato che il tizio tornasse in spogliatoio, dopo l’incontro. Ha aspettato che uscissero tutti e lo lasciassero solo. È entrato, l’altro riposava a faccia in giù sul lettino. Cazzo, gli ha tenuto ferma la testa e glielo ha mangiato. Fottuto animale.
«Adelmo!» Passa sotto le corde, scende.
Eccolo, gli faccio.
Il coach gli si piazza davanti, un mastino a due zampe che arriva alla cintura. «Ehi, Montreal, dove pensi di andare?»
Lo prende pure per il culo.
«Oggi stacco, coach.»
«Stacchi quando lo dico io.» Gli mette la mano sul petto. Ragazzi, per un gesto così devi avere pelo sullo stomaco. Gente come il mastino ce l’ha.
Il bisonte prova a spingere, il piccoletto insiste con lo sfottò. «È così che ti alleni, gioia? E dimmi un po’, che programma segui? Il metodo scritto di pugno da De Coubertin?»
«Chi?» chiede Caio.
Chi, faccio io.
Lui si volta e mi squadra, ho pisciato fuori dal secchio e non lo dovevo fare. Congiungo indice e pollice e li passo in orizzontale, sulla bocca. Ho tirato la zip, finisci pure il predicozzo.
Ma deve aver capito che non ha davanti due sapientoni che traboccano di scienza, perché scuote la testa, toglie la mano dal campione e lo manda affanculo. Chi stava a guardare torna a saltare, torna a picchiare, insomma torna a farsi i cazzi propri.
È un buon insegnamento.
Sempre via Oberdan, lo spogliatoio della palestra.
A Brescia esistono poche palestre di merda come questa. E fra tutte, lo spogliatoio peggiore sta in via Oberdan.
Caio ha calpestato una pozza e anch’io ci son finito dentro. Che sia piscio o acqua poco importa, il tanfo della palestra è niente a confronto. Mi pizzico il naso tra indice e pollice: un attimo e mi ci abituo, giuro.
Sulla nuca di Caio si aprono dei bozzi che fanno spavento. Si è tolto i guantoni, apre le mani bendate al soffitto di cemento e mi spiega il concetto.
«Fafile fafile.» Si volta e fa una cazzo di espressione da invasato. Un paziente psichiatrico che ha capito una battuta.
Togli il paradenti, gli dico.
Se lo sputa in mano. «Facile facile. Così tanto che nemmeno te lo immagini.»
Ora, ci sarà un motivo se un coglione come lui trova un lavoretto. Vedo poche alternative: sarà un lavoro di merda. Non glielo dico ma lo penso, lo penso eccome.
Sentiamo, gli dico.
«Una consegna. Martedì mattina. Ritiriamo, ci spostiamo e consegnamo.»
Detta così, tutto sembra facile. Ma il diavolo va a pisciare nei dettagli. Mio nonno, pace all’anima sua, faceva il predicatore a tempo perso. Mi si avvicinava col dito puntato: Adelmo, i cazzi tuoi, aggiungeva. E così ho fatto.
Caio mi dice quanta grana c’è in ballo: troppa. La storia puzza sempre di più, siamo in un letamaio.
Non so, gli dico. Com’è che li hai trovati, questi tizi?
«Si sono fatti vivi loro. Gliel’ha detto l’Arturo, che avevo bisogno di soldi.»
Solita storia, gentaglia che conosce altra gentaglia.
Rifletti, gli dico. Non ti conoscono, e ti offrono una consegna. Non mi fiderei.
«Ma io ho bisogno di quei soldi. Devo allenarmi.»
È davvero convinto di andare a Montreal.
Sospiro. Va bene, che devo fare?
Ha aperto l’armadietto. Tira fuori la borsa e la butta sulla panca, si mette a frugare. «Tu mi accompagni. Tu sei esperto in questi traffici, no?» Quando dice “esperto” calca sulla esse e si guarda intorno. Metti che ci siano delle spie naziste nascoste nel tubo della doccia.
Mi gratto la nuca. «Diciamo che mi faccio i cazzi miei.» Riposa in pace, nonno.
Trova il sapone e l’asciugamano, rimette via la borsa e sbatte lo sportello. Sul muro dietro, qualcuno ha disegnato la doppia ascia e una scritta, Ordine Nuovo. Qualcun altro ha fatto un’aggiunta, “succhia i cazzi”.
Stronzate che trovi ovunque, in questi anni di merda. Neri, rossi, mi fanno tutti schifo. Con i loro atti insulsi di rappresaglie e violenza. Mi chiedo se Caio faccia parte di qualcosa. No è troppo stupido.
La gente stupida non va bene. Fa casino, è un fanatismo senza cervello che nessuno vorrebbe dalla propria parte. Caio sta nel mezzo come tanti altri, come me. Con la differenza che ho del sale, nella zucca. Mi faccio la mia vita.
«Adelmo.»
Dimmi.
«Tu l’hai capito chi è De Coubertin?»
Che cazzo ne so.
Via San Faustino.
Camminiamo sotto un cielo di piombo. Altro che fine maggio, cazzo, su via San Faustino è sceso l’autunno. Non ci sono più le mezze e via dicendo.
Caio c’ha sta camminata che proprio non ci siamo. La brutta copia di un gangster da pellicola anni cinquanta. Sarebbe dovuto rimanere a casa.
Lascia fare a me che poi dividiamo, gli ho detto.
Niente da fare. Non è che non si fidi, il fatto è che gli piace l’idea di fare il duro. Sei un fottuto treno di pugni sul ring e pensi di portare l’esperienza in strada. Faglielo capire, che non è lo stesso match. Non è nemmeno lo stesso sport, cazzo.
La chiesa di San Faustino mi osserva, mi dice vacci piano. Non sono credente, ma hai visto mai. Però odio i cattolici convinti, nei miei traffici li evito come la peste. Ci ho avuto a che fare e per me è stato abbastanza. Ragazzi, le cose che non ti chiedono. Quando vedo che c’è di mezzo Dio, getto la spugna.
Comincio a farmi un’idea del perché lo scambio avvenga oggi. C’è una manifestazione importante, in piazza Loggia, dicono che saranno presenti pure un paio di Onorevoli. Se devi smerciare qualcosa, scegli la folla. I polotti ci sono, certo, ma non sanno cosa cercare, c’è troppa gente, tengono d’occhio tutto e niente. Dieci a uno che si va in piazza Loggia.
Caio svolta in un vicolo, la puzza di pesce ci investe. Infilo le mani nel giubbotto.
Bussa alla porta, un mosaico di schegge che sta in piedi per miracolo. Cigolio di chiavistello, si apre uno spiraglio; Caio annuisce a qualcuno che sta dentro. Lo spiraglio diventa un rettangolo nero.
Caio mi manda un cenno. «Vieni.»
Incasso la testa nel colletto, lo seguo. La porta mi si chiude contro il piede.
Ma che cazzo, dico.
«Lui chi è?» sento.
«Uno dritto», risponde Caio.
Si può dire “uno dritto”? Restiamo nel film anni cinquanta, il magico mondo di Caio. La porta allenta la presa sulla scarpa, mi infilo.
Una scala si arrampica al primo piano, ma il tizio ha voglia di tenerci in quell’ingresso, nella semioscurità. Baffetti, capelli corti, un giubbotto di pelle.
Le palle mi si fanno piccole. Non so in che pasticcio si sta cacciando il mio socio, ma sarà bene uscirne in fretta. La mano esce dall’ombra, il tizio ci allunga una borsa. Il giubbotto puzza di sigaretta, l’odore è forte. Quando te la fai sotto, i sensi sono all’erta.
Che c’è nella borsa, chiedo.
«Non sono cazzi tuoi.» Accento veneto, direi. Non saprei dire da quale zona, quelli si esprimono tutti uguale. Un po’ come se mi dicessero che parlo bergamasco. Puoi incazzarti, certo. Ma visti da fuori, bresciani e bergamaschi hanno la stessa fottuta parlata.
Cosa ci fanno se ci beccano, chiedo.
«Non vi beccano. Andate in piazza Loggia, trovate i comunisti che se la cantano e se la suonano. Cercate il lampione vicino alla statua. Alle dieci meno un quarto, un tipo vi chiederà la strada per la stazione. Dategli la borsa.»
Di solito non faccio domande, in fondo è una filosofia di vita. Questo perché sono abituato a sapere con chi tratto. Qui invece non si sa un cazzo, il mio socio sa ancora meno e la faccenda mi stona di brutto.
Cosa c’entrano i comunisti, chiedo. Chi è il tipo che andiamo a incontrare, un comunista ricercato?
Domani ripenserò a questa domanda idiota.
Scopre gli incisivi sotto quei baffetti del cazzo. «Non c’entrano niente i comunisti. Cos’è, hai paura dei comunisti?»
Non ci voglio avere a che fare, rispondo.
Il giubbotto si sposta e arriva un’altra ondata di tabacco. «E tu non c’avrai a che fare.»
Caio si tortura le mani. Mi lascia parlare ma è agitato, tira su col naso.
Sollevo la borsa, la soppeso. Droga, forse. Un’arma. Non si capisce.
Penso a Caio e mi chiedo se non sia meglio mollare. In fondo è una buona anima, mi spiace che si sia fatto tirare in mezzo.
Baffetto pesca dal giubbotto una mazzetta, gliela dà. Caio la prende e fa una faccia da ebete. Si mette a contarli, il novellino. Nel mio lavoro, impari a pesare i soldi con un’occhiata.
Finisce di spulciarli. Spinge fuori le labbra, aggrotta la fronte. «Dove sono gli altri?»
Baffetto alza un sopracciglio, come a dire un’ovvietà. «Cinquanta ora, cinquanta alla consegna?»
Caio stringe gli occhi. «Ma io li voglio adesso.»
«Certo, come no. Vattene, bestione, fuori dai coglioni.»
In un attimo realizzo: questa storia è una porcata. L’organizzazione fa cagare, Baffetto sa di pericoloso. E Caio è il meno adatto per questo lavoro.
Non puoi fare domande simili. Soprattutto, non prendi gli insulti sul personale. È il gioco delle parti, perdio. Sto per dire che l’affare è saltato, che si cerchino qualcun altro. Senza saperlo, è probabile che io stia per evitare una strage.
Il pugno di Caio mi passa davanti agli occhi e giuro, l’aria si sposta. Baffetto rimbalza sul muro e va giù, secco.
Gesù, che cazzo hai fatto?
Caio non risponde, dilata e contrae le narici.
Che cazzo era quello?
Mi guarda. «Ma lui mi ha… mi ha detto—»
Andiamo, gli dico. Ce li hai i soldi?
Li strizza nella sinistra.
Prendo la borsa.
Usciamo e mi tiro dietro la porta.
Di male in peggio, Adelmo, di male in peggio.
Piazza Loggia.
Il cielo sta pisciando.
Il cielo è un vecchio che si tiene l’uccello con mano malferma, il getto saltella e tutta ‘sta gente si copre la testa con ciò che ha. Il lastricato è lucido, slitto se non sto attento.
«C’ho caga, Adelmo.»
Potevi pensarci prima di mandarlo al tappeto.
«Andiamo via.» I suoi occhi implorano.
Se ci tiriamo indietro, gli dico, ci verranno a cercare. E ci faranno il culo, stanne certo.
La maniglia della borsa scivola avanti e indietro nella mano, ci imbuchiamo nella folla. Sotto gli ombrelli è facile nascondersi allo sguardo dei polotti. Anche se Caio svetta come la Madonnina di Milano. Saranno pure cazzi suoi e di sua madre che l’ha partorito con quel bel testone. Povera donna. Deve essergli rimasto metà fuori e metà dentro per troppo, sennò non sarebbe così stupido.
Allungo la mano davanti gli occhi, la manica scivola indietro. Nove e trentacinque.
«Che facciamo, Adelmo?»
Buono, sta’ buono e guarda il palco.
Alzo la testa e butto un occhio alla statua, al lampione della consegna.
Dio quanta gente. Comunisti e sindacalisti. Non quelli che stanno a casa e escono solo per votare: questi non si fanno i cazzi loro. Vedo cartelli, ce l’hanno con quegli altri stronzi dei fasci. E in tutto questo, entrambe le parti prosperano. Si accoltellano, giocano a farsi saltare in aria.
È una fottuta legge del branco. Prendi una posizione, il resto vien da sé: di qua gli alleati, di là quelli da ammazzare. E allora penso, si ammazzino pure. Rossi, neri, ultravioletti del cazzo. Si trovino in un campo, si facciano a fette, vince l’ultimo che resta in piedi. A me e al mio socio, qui, interessa solo di consegnare.
Prendere la grana e levarci dai coglioni.
Sollevo la mano, nove e quarantatrè. Andiamo, gli faccio, è ora.
Arrivo al lampione.
Le nove e quarantacinque. Caio pesta i piedi.
Le nove e cinquanta. Il tizio non viene, dico.
Mi guardo intorno. La maniglia scivola, cambio mano.
«Dove è, Adelmo?»
Non lo so, cazzo. Non lo so.
Ancora cinque minuti, non uno di più. La lascio qui, ‘sta borsa di merda. Si fottano tutti: il tizio coi baffetti, le brigate rosse, gli ordinovisti, i cattolici e l’Italia tutta.
Mi volto. Sulla campana, le statue dei Macc de le Ure mi guardano e ridono. Adelmo, ti guardiamo da quando sei nato, ora lasciatelo dire: sembri un coglione.
Le voci agli altoparlanti si incazzano, parlano di democrazia e libertà violate. La folla attorno a me risponde.
Una voce alle mia spalle. «La strada per la stazione, per favore.»
Caio si volta, io no. Non voglio vederlo. Poggio la borsa, mollo la maniglia. Nella mano aperta mi allunga la busta. Intasco.
Andiamo, Caio.
Navighiamo in quella folla adorante votata alla falce e martello. Mi faccio strada tra gli ombrelli.
«Hai la grana?» chiede Caio.
Tranquillo, gli dico. Passiamo di qua, stiamo coperti.
Meglio allungare il giro, prima di uscire dalla marmaglia. Confondiamoci, scegliamo la via lunga. Avrò pure imparato qualcosa, in tutti questi anni.
Sollevo la mano. Dieci e cinque. Bene, nessun polotto si è avvicinato.
Andiamo, Caio.
Passiamo sotto l’altoparlante. Una voce forte, chiara. «Eppure, il Movimento Sociale Italiano vive e vegeta. Almirante, che coi suoi lugubri proclami...»
Ecco, siamo fuori.
Imbocco l’androne verso piazza Vittoria.
Ce l’abbiamo fatta.
La voce al microfono arriva che sembra ovattata.
«A Milano...»
E l’aria rimane immobile per un istante, appesa a quelle due parole.
Ed ecco che scoppia il casino infernale.
Uscita di scena.
Non ho mai saputo cosa ci fosse in quella borsa, preferisco non pensarci.
Ma non pensarci è difficile, allora ipotizzo che contenesse merce di contrabbando, documenti falsi, roba del genere insomma. Roba che il tizio è riuscito a portare via prima della strage.
Caio si è ammazzato. Non era fatto per questo genere di lavoro. Avrebbe dovuto continuare con l’allenamento e basta. A Montreal non ci sarebbe andato comunque, ma almeno sarebbe vivo.
Non provo rimorsi, nemmeno da lontano. Se ti dicono di fare un lavoro, tu lo fai e basta. Se non sai nulla, se ti fai i cazzi tuoi, non puoi avere rimorsi, è matematico. Ciò che non sai, non ti uccide.
Caio si è buttato dal tetto del condominio di via Oberdan. Sì, quello della palestra, per intenderci. Quando l’hanno trovato, aveva le mani legate dietro la schiena, un suicidio abbastanza singolare, se mi è permesso. Forse era salito in bilico sul cornicione, e aspettava la fottuta folata di vento del destino. Quando cadi, volente o nolente, cerchi un appiglio. Forse Caio se le era legate perché voleva evitare questo gesto istintivo. Nobile da parte sua, un po’ come i giapponesi quando decidono di sbudellarsi: si tengono vicino il tizio con la lama. Si sa mai.
O forse è andata come dicono i polotti: che qualcuno ce lo ha buttato, da quel balcone. È una versione che mi interessa tanto quanto l’altra, cioè zero.
Sono vivo. Non penso che Caio abbia mai fatto il mio nome, se è vero che sono andati a trovarlo prima che saltasse.
A pensarci bene, nulla vieta di pensare che io abbia fatto il suo. Ma è un punto sul quale non intendo esprimermi: il giorno in cui verrà fatta chiarezza su tutta la vicenda, con un po’ di fortuna sarò morto e sepolto.
Mi piacerebbe dare un messaggio a quelli che continuano a chiedere spiegazioni. Quelli che vorrebbero saperne di più, quelli per cui “non è ben chiaro”. Beh, il mio messaggio è che allora non han capito un cazzo. Non è che nuove domande portano per forza a nuove risposte.
Provino a guardarla da un altro punto di vista: i troppi perché ti fanno impazzire. Fottitene delle risposte, non è difficile: la gente lo fa ogni giorno per le stronzate. Devi solo applicarlo anche alle cose che ritieni grandi. È un buon modo per restare vivi.
E quando ogni altra cosa è stata detta, aggiungo un pensiero che mi preme, qui, dritto nelle budella.
Mi sono sempre fatto i cazzi miei.