Lello scordato
Inviato: martedì 14 luglio 2020, 11:17
Hanno fatto allo sputo lungo, al rutto del tuono, alla trona delle sberle. Enzo a sorpresa ha vinto il triathlon speciale (bevi corri nuota, tutto senza vomitare), mentre Battista l’hanno portato in ospedale, giù a fondo valle, che lui non è mai stato un tipo sportivo ma quest’anno ha voluto provare il salto del bancone, che diceva di sentirsi in forma: non ha fatto una grande prestazione. Beppe invece ha fatto il pieno di medaglie alla corsa ad ostacoli e ai trecento con secchiello, come al solito. Se c’è uno meglio di me alla corsa ad ostacoli, dice sempre Beppe, io non l’ho mai visto, probabilmente perché mi stava dietro. Quest’anno poi è stata aggiunta una nuova disciplina, l’hanno chiamata prova a farti offrire un amaro da Lello. Io sono Lello, e a questa nuova disciplina nessuno ha vinto niente: l’anno prossimo, hanno detto, andrà meglio.
Il mio bar si chiama Da Lello. Si chiama così perché mio nonno si chiamava Lello. Poi il bar è passato a mio padre, Lello pure lui. E adesso lo mando avanti io, che non mi chiamo mica Lello, ma mi chiamano tutti così per via di mio nonno, di mio padre e del bar. Il mio bar sta in un paesino di 300 cristiani, all’ombra di una gran montagna, al confine con la Svizzera. Io sono nato qua, come mio padre e mio nonno. Loro hanno fatto la guerra, mio nonno la prima, mio padre la seconda. Io dico sempre che spero non ce ne sia una terza, che se no quella tocca sicuramente a me. Però ormai sono vecchio, magari la terza tocca a mio figlio. Mio figlio è un cretino. Sta a Milano, si chiama Lorenzo: studia. Che cazzo ti studi, gli dico sempre io, che c’è il bar da mandare avanti. Lui dice che non capisco. Alla malora tu e il bar, mi dice. Io gli dico sempre che è un cretino.
Quando ogni quattro anni fanno le Olimpiadi, noi al bar facciamo le Olimpiadi da Lello. Che sono molto più divertenti. A quelle vere non ci puoi partecipare così, bisogna che ti alleni tutta la vita, che fatichi per anni. Alle nostre invece può partecipare chiunque. Certo, è meglio se uno si allena, che se no rischia di fare la figura dello scemo. Contro il Beppe, ad esempio, o il Nino, che loro sono professionisti e fanno le nostre Olimpiadi da tutta la vita.
Certi anni partecipano pure alcuni turisti che vanno per montagne e che sono in paese quando noi gareggiamo. Un paio di volte abbiamo invitato anche qualche alpino che si trovava in zona, che gli alpini non deludono mai e c’è sempre da divertirsi.
In verità, sono anni ormai che almeno un pugno di turisti c’è sempre in mezzo alle nostre Olimpiadi: i crucchi, bisogna dirlo, tutti nazisti e mangiacrauti, però sono bravini. Lo dicono tutti in paese, a bassa voce. Gli spagnoli invece tutti vigliacchi, i francesi troppo fragili. Di russi invece se ne vedono pochi, ma quando se ne vedono sono tutti da ricordare. Un anno ad esempio c’è stato un russo che alla trona delle sberle era un campione, aveva preso l’argento: Conni, lo chiamavamo. Il suo nome vero era un nome strano in russo, ma noi lo chiamavamo Conni perché era il rumore che faceva quando gli veniva il singhiozzo: conni conni conni, quando beveva troppo partiva e non la finiva più. Conni quell’anno ha preso l’argento, ma l’oro è rimasto del Tenente Maresciallo Minuccio Pedotti, che è l’inventore in persona della disciplina della trona: anche il russo era spacciato contro il Tenente.
Io le chiamo sempre Olimpiadi, ma insomma, ormai le facciamo tutti gli anni. Ci piacciono così tanto che farle ogni quattro anni ci pareva un peccato. Una volta ho pensato come mai le Olimpiadi le fanno solo ogni quattro anni, quelle vere intendo, e anche i mondiali. Sono le cose più belle e si fanno solo ogni quattro anni. Magari è perché se uno vince gli dispiace di rimanere campione solo per un anno, così hanno allungato a quattro, che due era da pidocchi e tre è un numero infame, come il cinque. Poi ho pensato ai Greci e al fatto che le Olimpiadi le hanno inventate loro, e mi sono detto che lo stesso discorso degli anni di sicuro valeva anche per loro e che saranno stati i Greci a decidere di farle così. I Greci erano gente sveglia.
La trona delle sberle funziona così: tutti gli atleti, a coppie, si siedono uno di fronte all’altro lungo una tavolata che allestisco io per l’occasione nel bar. Le coppie le sorteggio io. Così disposti, gli uni in fronte agli altri, gli atleti che si dovranno sfidare pranzano insieme. Il pranzo dura un’ora esatta ed è estremamente impegnativo, si tratta di polenta e cinghiale, o di spezzatino e gorgonzola, di pizzoccheri, o di trippa. Ogni atleta deve accompagnare il pasto con un litro e mezzo di rosso della casa. Terminato il pranzo, che è parte della competizione (esistono varie tecniche per affrontarlo), si leva tutto dalla tavola e si fa spazio, e gli atleti cominciano a gareggiare scambiandosi degli schiaffoni spaventosi. Il regolamento è chiaro. Se sposti la testa sei eliminato, se da sotto il tavolo fai cose strane con le gambe sei eliminato, se quando ricevi il colpo dell’avversario chiudi gli occhi sei eliminato. Gli atleti devono essere preparati e capaci di usar sia la destra che la sinistra e a ricever sia da destra che da sinistra, perché si fa prima da una parte e poi dall’altra, finché uno non cede e allora viene eliminato. Alla fine rimangono gli ultimi due sfidanti. Uno dei due è invariabilmente il Tenente Maresciallo Minuccio Pedotti. Arrivati a questo punto si fa una pausa di quindici minuti.
Le tempistiche sono state affinate negli anni: abbiamo fatto vari esperimenti e siamo arrivati alla formula attuale, che è perfetta. Nei quindici minuti di pausa, i finalisti fanno tutto quello che è in loro potere per disputare la finale nelle migliori condizioni psicofisiche possibili. C’è chi sostiene che questo sia il momento fatale. Alcuni si sforzano di vomitare il pranzo e il vino per alleggerirsi, altri bevono ancora un goccio o mangiano un boccone per rinfrancarsi e recuperare le forze perdute a suon di sberle, altri corrono per far ripartire la circolazione, alcuni vanno a casa a far l’amore per rilassarsi e far scorrer tutto il sangue da una parte che non sia la faccia o le mani, altri vanno in chiesa a farsi confessare da Don Mario che l’aiuto del Signore, dicono, non guasta mai.
L’anno che Conni il russo è arrivato in finale, nei suoi quindici minuti di pausa è venuto da me e mi ha chiesto della vodka. Io però di vodka al bar non ne ho mai avuta e allora Conni si è disperato in un russo stretto che non ho capito e ha detto che avrebbe perso e che era tutta colpa mia. E infatti Conni è subito crollato come un povero russo percosso e ancora una volta ha vinto il Tenente.
Il Tenente Maresciallo Minuccio Pedotti dice di avere un segreto, e io gli credo. Non è più grosso degli altri, o più forte, il Tenente, ma in qualche modo riesce sempre ad arrivare in finale. Nei suoi quindici minuti di pausa si chiude in bagno e nessuno sa che cosa fa. E qui viene il bello: quando esce dal bagno è calmo calmo, serenissimo, e allo scoccar dell’ora della finale, quando ogni anno si siede di fronte a un muso arrossato e gonfio, lui è placido e roseo come un pupo felice. Il Tenente allora chiede di posizionare un grosso cuscino sul tavolo, alla destra o alla sinistra dello sfidante in base al lato in cui si disputerà la finale, e quando viene il suo turno, che può essere subito o dopo aver ricevuto pacificamente un gran colpo degno di un finalista, esplode una cannonata difficile anche da vedere, che fende l’aria e come una valanga si abbatte sullo sfidante che stramazza svenuto esattamente lì dove il Tenente aveva fatto posizionare il cuscino. La fine di Conni il russo non è stata diversa.
A parte la trona, comunque, che forse è la più spettacolare, abbiamo un sacco di altre discipline. Ma voglio raccontarvi come sono andati i trecento con secchiello di quest’anno.
I trecento con secchiello sono la prova più dura delle Olimpiadi. Sono una prova di resistenza, di cervello e di strategia, e una delle poche che si svolge fuori dal bar. Gli atleti devono riempire ognuno il proprio secchiello con le acque del fiume che scorre giù a valle, risalire la costa del monte per i trecento metri che danno il nome alla gara ed arrivare a un pianoro dove sono poste tante botti quanti sono gli atleti: vince chi riempie per primo la propria botte con le acque del fiume che scorre a valle.
Immaginate l’impresa: riempire una botte del tipo barrique bordolese da centonovanta litri – è la misura più piccola che abbiamo – con un secchiello che ne tiene al massimo tre. La matematica non ha mai avuto rispetto per me, ma se fate il calcolo capite da voi che bisogna fare su e giù parecchie volte. In più i trecento metri sono in gran dislivello e se anche uno empie il secchiello fino all’orlo alla fine arriva in cima che è vuoto per metà.
Tempo fa si era discusso di dimezzare la distanza da percorrere, o di procurarsi botti meno capienti, ma i circa quindici “eroi con secchiello” che ogni anno resistono e si sfidano per il podio si sono sempre opposti ad ogni modifica al regolamento in nome del ricordo del buon Guerrino Felice Bovisi, per tutti lo stambecco con secchiello, che ideò la disciplina e finché fu in vita rimase il campione bestiale dei trecento.
Ai trecento nessun turista ha mai raggiunto il podio. Anzi, capita spesso che il podio rimanga mezzo vuoto, cioè che alla fine arrivino solo in due, a volte anche solo uno. La gara inizia alle otto del mattino e solitamente va avanti fino a sera, ma può anche continuare di notte e fino al giorno dopo: gli atleti sono liberi di fare come credono. Possono andar su di corsa, camminare, fare pause, fermarsi e poi riprendere, allontanarsi e ricominciare dopo un’ora, dopo quattro. I trecento si vincono così: con la strategia. Ognuno fa come crede e qualcuno vince, qualcun altro no.
Quest’anno i turisti erano tre e hanno mollato tutti fra la quarta e la sesta tornata, sfiniti, dopo aver portato meno di una decina di litri d’acqua a testa, ed è andata avanti solo la quindicina degli “eroi”.
Uno dopo l’altro, lungo l’arco della giornata, gli sfavoriti sono caduti tutti e intorno alle sei del pomeriggio, sotto il sole infame di giugno ancora alto, a sfidarsi erano rimasti in cinque: Beppe, che poi vinse, detto sciupacime, che alla scomparsa dello stambecco con secchiello prese su di sé la sua grande eredità; Manolo, l’unico ad essere mai arrivato sul podio (secondo) alla sua prima volta ai trecento con secchiello; Marcello, che ha fatto una grande gara ma l’età gli ha giocato un brutto scherzo (all’ultima tornata, prima di empire completamente la sua botte, quando era già molto vicino al pianoro ed era in testa al gruppo che risaliva la costa, un colpo di sole l’ha colto e lui s’è sentito mancare, e per non svenire ha pensato bene di gettarsi in viso l’acqua che aveva portato fin lassù. Seduto a terra ha intravisto con gli occhi appannati il Beppe che gli soffiava il gradino più alto del podio e la corsa disperata di Manolo, subito dietro, che imitava il Beppe e gli fregava anche il secondo posto). Il quarto che ha resistito era il Trainini, il fornaio dalle mani enormi, che quando ha visto Marcello in quelle condizioni (nei trecento con secchiello non esiste pietà) è schizzato su di corsa da fondo valle e gli ha soffiato anche il terzo posto. L’altro era il Dinoia, che quando ha visto tutto e ha visto che non c’era più speranza si è accasciato e ha dormito.
Le premiazioni le facciamo tutte insieme l’ultima sera al bar da me, e spesso c’è anche Lorenzo, mio figlio, che per venire a vedere le Olimpiadi ogni anno torna apposta da Milano. Questa cosa mi fa sperare che un giorno il bar lo prenderà lui. Poi però alle premiazioni, quando si congratula con questo e quello, dice sempre un sacco di stupidaggini e io ogni volta mi ricredo e mi dico che quando sarà, meglio che il bar prenda fuoco. Lorenzo stringe la mano micidiale del Tenente Pedotti, ad esempio, e tutto ubriaco che dovrebbe vergognarsi, che non si capisce neanche una parola, dice: «Citius!, Altius!, Fortius!» e batte un pacca sulla spalla del Tenente. E il Tenente Maresciallo, che è di cuore buono, invece di dargli uno sberlone con quelle sue mani terribili che lo faccia tornare sobrio, dice: «Che hai detto, piccolo Lello?»
«Pierre de Frédy» dice lui.
Che vergogna! Il sorriso idiota che ha in faccia potrebbe anche essere quello di uno che sa che cosa sta dicendo, se solo non fosse così ubriaco da dire tutte le parole per il verso sbagliato. Sembra che parli un’altra lingua.
Il Tenente, buono oltre ogni apparenza, avvicinando l’orecchio dice ancora: «Che hai detto, piccolo Lello?»
«De Coubertin!» sbotta Lorenzo, adesso tutto accigliato. E anche il Tenente allora non ce la fa più e prorompe in una grande risata e urla verso di me, che sto dietro il bancone: «Lello! Non dar da bere più niente a tuo figlio, è ubriaco che non si capisce neanche cosa dice.»
A questo punto mio figlio, che la scusa sia questa o sia un’altra, se ne esce furibondo dal bar e se ne torna di filato a Milano, dicendo che non ci metterà mai più piede in questo posto di ignoranti. Ho sempre paura che si schianti in auto sui tornanti. Ma non è mai successo. Ogni anno è sempre tornato, per le Olimpiadi.
Le premiazioni finiscono e tutti vanno a casa. Io rimango solo. Mi guardo intorno, nell’antico bar di mio nonno e di mio padre, vuoto. Pulisco i tavoli. Sono tavoli vecchi. Spazzo per terra. Spengo le luci.
Abito al piano di sopra. Una volta c’era mia moglie, con me. Una volta c’era mio figlio, ora non vuole passare nemmeno una notte nella casa paterna, preferisce scappare, guidare quattro ore, di notte, ubriaco, pur di scappare.
Salgo al piano di sopra e apro la porta. Accendo la luce e sul muro davanti, appese, ci sono le foto di mia moglie, da una parte, e le mie, dall’altra. Era bellissima. In tutte le foto lo è. Anche le mie foto sono belle: la maglia del mio paese non mi è mai stata così bene. Città del Messico, 1968. Non mi è mai più stata così bene. Lei era bellissima.
Spengo la luce. Penso a mio figlio.
Il mio bar si chiama Da Lello. Si chiama così perché mio nonno si chiamava Lello. Poi il bar è passato a mio padre, Lello pure lui. E adesso lo mando avanti io, che non mi chiamo mica Lello, ma mi chiamano tutti così per via di mio nonno, di mio padre e del bar. Il mio bar sta in un paesino di 300 cristiani, all’ombra di una gran montagna, al confine con la Svizzera. Io sono nato qua, come mio padre e mio nonno. Loro hanno fatto la guerra, mio nonno la prima, mio padre la seconda. Io dico sempre che spero non ce ne sia una terza, che se no quella tocca sicuramente a me. Però ormai sono vecchio, magari la terza tocca a mio figlio. Mio figlio è un cretino. Sta a Milano, si chiama Lorenzo: studia. Che cazzo ti studi, gli dico sempre io, che c’è il bar da mandare avanti. Lui dice che non capisco. Alla malora tu e il bar, mi dice. Io gli dico sempre che è un cretino.
Quando ogni quattro anni fanno le Olimpiadi, noi al bar facciamo le Olimpiadi da Lello. Che sono molto più divertenti. A quelle vere non ci puoi partecipare così, bisogna che ti alleni tutta la vita, che fatichi per anni. Alle nostre invece può partecipare chiunque. Certo, è meglio se uno si allena, che se no rischia di fare la figura dello scemo. Contro il Beppe, ad esempio, o il Nino, che loro sono professionisti e fanno le nostre Olimpiadi da tutta la vita.
Certi anni partecipano pure alcuni turisti che vanno per montagne e che sono in paese quando noi gareggiamo. Un paio di volte abbiamo invitato anche qualche alpino che si trovava in zona, che gli alpini non deludono mai e c’è sempre da divertirsi.
In verità, sono anni ormai che almeno un pugno di turisti c’è sempre in mezzo alle nostre Olimpiadi: i crucchi, bisogna dirlo, tutti nazisti e mangiacrauti, però sono bravini. Lo dicono tutti in paese, a bassa voce. Gli spagnoli invece tutti vigliacchi, i francesi troppo fragili. Di russi invece se ne vedono pochi, ma quando se ne vedono sono tutti da ricordare. Un anno ad esempio c’è stato un russo che alla trona delle sberle era un campione, aveva preso l’argento: Conni, lo chiamavamo. Il suo nome vero era un nome strano in russo, ma noi lo chiamavamo Conni perché era il rumore che faceva quando gli veniva il singhiozzo: conni conni conni, quando beveva troppo partiva e non la finiva più. Conni quell’anno ha preso l’argento, ma l’oro è rimasto del Tenente Maresciallo Minuccio Pedotti, che è l’inventore in persona della disciplina della trona: anche il russo era spacciato contro il Tenente.
Io le chiamo sempre Olimpiadi, ma insomma, ormai le facciamo tutti gli anni. Ci piacciono così tanto che farle ogni quattro anni ci pareva un peccato. Una volta ho pensato come mai le Olimpiadi le fanno solo ogni quattro anni, quelle vere intendo, e anche i mondiali. Sono le cose più belle e si fanno solo ogni quattro anni. Magari è perché se uno vince gli dispiace di rimanere campione solo per un anno, così hanno allungato a quattro, che due era da pidocchi e tre è un numero infame, come il cinque. Poi ho pensato ai Greci e al fatto che le Olimpiadi le hanno inventate loro, e mi sono detto che lo stesso discorso degli anni di sicuro valeva anche per loro e che saranno stati i Greci a decidere di farle così. I Greci erano gente sveglia.
La trona delle sberle funziona così: tutti gli atleti, a coppie, si siedono uno di fronte all’altro lungo una tavolata che allestisco io per l’occasione nel bar. Le coppie le sorteggio io. Così disposti, gli uni in fronte agli altri, gli atleti che si dovranno sfidare pranzano insieme. Il pranzo dura un’ora esatta ed è estremamente impegnativo, si tratta di polenta e cinghiale, o di spezzatino e gorgonzola, di pizzoccheri, o di trippa. Ogni atleta deve accompagnare il pasto con un litro e mezzo di rosso della casa. Terminato il pranzo, che è parte della competizione (esistono varie tecniche per affrontarlo), si leva tutto dalla tavola e si fa spazio, e gli atleti cominciano a gareggiare scambiandosi degli schiaffoni spaventosi. Il regolamento è chiaro. Se sposti la testa sei eliminato, se da sotto il tavolo fai cose strane con le gambe sei eliminato, se quando ricevi il colpo dell’avversario chiudi gli occhi sei eliminato. Gli atleti devono essere preparati e capaci di usar sia la destra che la sinistra e a ricever sia da destra che da sinistra, perché si fa prima da una parte e poi dall’altra, finché uno non cede e allora viene eliminato. Alla fine rimangono gli ultimi due sfidanti. Uno dei due è invariabilmente il Tenente Maresciallo Minuccio Pedotti. Arrivati a questo punto si fa una pausa di quindici minuti.
Le tempistiche sono state affinate negli anni: abbiamo fatto vari esperimenti e siamo arrivati alla formula attuale, che è perfetta. Nei quindici minuti di pausa, i finalisti fanno tutto quello che è in loro potere per disputare la finale nelle migliori condizioni psicofisiche possibili. C’è chi sostiene che questo sia il momento fatale. Alcuni si sforzano di vomitare il pranzo e il vino per alleggerirsi, altri bevono ancora un goccio o mangiano un boccone per rinfrancarsi e recuperare le forze perdute a suon di sberle, altri corrono per far ripartire la circolazione, alcuni vanno a casa a far l’amore per rilassarsi e far scorrer tutto il sangue da una parte che non sia la faccia o le mani, altri vanno in chiesa a farsi confessare da Don Mario che l’aiuto del Signore, dicono, non guasta mai.
L’anno che Conni il russo è arrivato in finale, nei suoi quindici minuti di pausa è venuto da me e mi ha chiesto della vodka. Io però di vodka al bar non ne ho mai avuta e allora Conni si è disperato in un russo stretto che non ho capito e ha detto che avrebbe perso e che era tutta colpa mia. E infatti Conni è subito crollato come un povero russo percosso e ancora una volta ha vinto il Tenente.
Il Tenente Maresciallo Minuccio Pedotti dice di avere un segreto, e io gli credo. Non è più grosso degli altri, o più forte, il Tenente, ma in qualche modo riesce sempre ad arrivare in finale. Nei suoi quindici minuti di pausa si chiude in bagno e nessuno sa che cosa fa. E qui viene il bello: quando esce dal bagno è calmo calmo, serenissimo, e allo scoccar dell’ora della finale, quando ogni anno si siede di fronte a un muso arrossato e gonfio, lui è placido e roseo come un pupo felice. Il Tenente allora chiede di posizionare un grosso cuscino sul tavolo, alla destra o alla sinistra dello sfidante in base al lato in cui si disputerà la finale, e quando viene il suo turno, che può essere subito o dopo aver ricevuto pacificamente un gran colpo degno di un finalista, esplode una cannonata difficile anche da vedere, che fende l’aria e come una valanga si abbatte sullo sfidante che stramazza svenuto esattamente lì dove il Tenente aveva fatto posizionare il cuscino. La fine di Conni il russo non è stata diversa.
A parte la trona, comunque, che forse è la più spettacolare, abbiamo un sacco di altre discipline. Ma voglio raccontarvi come sono andati i trecento con secchiello di quest’anno.
I trecento con secchiello sono la prova più dura delle Olimpiadi. Sono una prova di resistenza, di cervello e di strategia, e una delle poche che si svolge fuori dal bar. Gli atleti devono riempire ognuno il proprio secchiello con le acque del fiume che scorre giù a valle, risalire la costa del monte per i trecento metri che danno il nome alla gara ed arrivare a un pianoro dove sono poste tante botti quanti sono gli atleti: vince chi riempie per primo la propria botte con le acque del fiume che scorre a valle.
Immaginate l’impresa: riempire una botte del tipo barrique bordolese da centonovanta litri – è la misura più piccola che abbiamo – con un secchiello che ne tiene al massimo tre. La matematica non ha mai avuto rispetto per me, ma se fate il calcolo capite da voi che bisogna fare su e giù parecchie volte. In più i trecento metri sono in gran dislivello e se anche uno empie il secchiello fino all’orlo alla fine arriva in cima che è vuoto per metà.
Tempo fa si era discusso di dimezzare la distanza da percorrere, o di procurarsi botti meno capienti, ma i circa quindici “eroi con secchiello” che ogni anno resistono e si sfidano per il podio si sono sempre opposti ad ogni modifica al regolamento in nome del ricordo del buon Guerrino Felice Bovisi, per tutti lo stambecco con secchiello, che ideò la disciplina e finché fu in vita rimase il campione bestiale dei trecento.
Ai trecento nessun turista ha mai raggiunto il podio. Anzi, capita spesso che il podio rimanga mezzo vuoto, cioè che alla fine arrivino solo in due, a volte anche solo uno. La gara inizia alle otto del mattino e solitamente va avanti fino a sera, ma può anche continuare di notte e fino al giorno dopo: gli atleti sono liberi di fare come credono. Possono andar su di corsa, camminare, fare pause, fermarsi e poi riprendere, allontanarsi e ricominciare dopo un’ora, dopo quattro. I trecento si vincono così: con la strategia. Ognuno fa come crede e qualcuno vince, qualcun altro no.
Quest’anno i turisti erano tre e hanno mollato tutti fra la quarta e la sesta tornata, sfiniti, dopo aver portato meno di una decina di litri d’acqua a testa, ed è andata avanti solo la quindicina degli “eroi”.
Uno dopo l’altro, lungo l’arco della giornata, gli sfavoriti sono caduti tutti e intorno alle sei del pomeriggio, sotto il sole infame di giugno ancora alto, a sfidarsi erano rimasti in cinque: Beppe, che poi vinse, detto sciupacime, che alla scomparsa dello stambecco con secchiello prese su di sé la sua grande eredità; Manolo, l’unico ad essere mai arrivato sul podio (secondo) alla sua prima volta ai trecento con secchiello; Marcello, che ha fatto una grande gara ma l’età gli ha giocato un brutto scherzo (all’ultima tornata, prima di empire completamente la sua botte, quando era già molto vicino al pianoro ed era in testa al gruppo che risaliva la costa, un colpo di sole l’ha colto e lui s’è sentito mancare, e per non svenire ha pensato bene di gettarsi in viso l’acqua che aveva portato fin lassù. Seduto a terra ha intravisto con gli occhi appannati il Beppe che gli soffiava il gradino più alto del podio e la corsa disperata di Manolo, subito dietro, che imitava il Beppe e gli fregava anche il secondo posto). Il quarto che ha resistito era il Trainini, il fornaio dalle mani enormi, che quando ha visto Marcello in quelle condizioni (nei trecento con secchiello non esiste pietà) è schizzato su di corsa da fondo valle e gli ha soffiato anche il terzo posto. L’altro era il Dinoia, che quando ha visto tutto e ha visto che non c’era più speranza si è accasciato e ha dormito.
Le premiazioni le facciamo tutte insieme l’ultima sera al bar da me, e spesso c’è anche Lorenzo, mio figlio, che per venire a vedere le Olimpiadi ogni anno torna apposta da Milano. Questa cosa mi fa sperare che un giorno il bar lo prenderà lui. Poi però alle premiazioni, quando si congratula con questo e quello, dice sempre un sacco di stupidaggini e io ogni volta mi ricredo e mi dico che quando sarà, meglio che il bar prenda fuoco. Lorenzo stringe la mano micidiale del Tenente Pedotti, ad esempio, e tutto ubriaco che dovrebbe vergognarsi, che non si capisce neanche una parola, dice: «Citius!, Altius!, Fortius!» e batte un pacca sulla spalla del Tenente. E il Tenente Maresciallo, che è di cuore buono, invece di dargli uno sberlone con quelle sue mani terribili che lo faccia tornare sobrio, dice: «Che hai detto, piccolo Lello?»
«Pierre de Frédy» dice lui.
Che vergogna! Il sorriso idiota che ha in faccia potrebbe anche essere quello di uno che sa che cosa sta dicendo, se solo non fosse così ubriaco da dire tutte le parole per il verso sbagliato. Sembra che parli un’altra lingua.
Il Tenente, buono oltre ogni apparenza, avvicinando l’orecchio dice ancora: «Che hai detto, piccolo Lello?»
«De Coubertin!» sbotta Lorenzo, adesso tutto accigliato. E anche il Tenente allora non ce la fa più e prorompe in una grande risata e urla verso di me, che sto dietro il bancone: «Lello! Non dar da bere più niente a tuo figlio, è ubriaco che non si capisce neanche cosa dice.»
A questo punto mio figlio, che la scusa sia questa o sia un’altra, se ne esce furibondo dal bar e se ne torna di filato a Milano, dicendo che non ci metterà mai più piede in questo posto di ignoranti. Ho sempre paura che si schianti in auto sui tornanti. Ma non è mai successo. Ogni anno è sempre tornato, per le Olimpiadi.
Le premiazioni finiscono e tutti vanno a casa. Io rimango solo. Mi guardo intorno, nell’antico bar di mio nonno e di mio padre, vuoto. Pulisco i tavoli. Sono tavoli vecchi. Spazzo per terra. Spengo le luci.
Abito al piano di sopra. Una volta c’era mia moglie, con me. Una volta c’era mio figlio, ora non vuole passare nemmeno una notte nella casa paterna, preferisce scappare, guidare quattro ore, di notte, ubriaco, pur di scappare.
Salgo al piano di sopra e apro la porta. Accendo la luce e sul muro davanti, appese, ci sono le foto di mia moglie, da una parte, e le mie, dall’altra. Era bellissima. In tutte le foto lo è. Anche le mie foto sono belle: la maglia del mio paese non mi è mai stata così bene. Città del Messico, 1968. Non mi è mai più stata così bene. Lei era bellissima.
Spengo la luce. Penso a mio figlio.