L'altra faccia della medaglia
Inviato: mercoledì 15 luglio 2020, 17:13
L'ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
L'inquadratura strinse sui due tecnici che assicuravano la rampa al terzo gradino del podio, ne saggiavano la tenuta e abbandonavano la scena il più in fretta possibile.
«Lo staff tecnico si allontana dal podio. Qualche inconveniente dell'ultimo minuto deve aver costretto l'organizzazione ad adottare misure di fortuna…»
La voce del cronista ruppe il silenzio altrimenti perfetto del Memorial Coliseum.
«Ecco gli atleti. Ed è chiaro, adesso, il motivo dell'intervento.»
Jason Stieglitz apriva la fila, spinto dall'allenatore. Caviglie, polsi e torace erano assicurati da bande elastiche alla sedia a rotelle, e il capo era fissato al poggiatesta con una fascia che gli stringeva la fronte. La camera zoomò brevemente sul volto inespressivo: occhi e labbra erano socchiusi, la mascella completamente abbandonata.
Seguivano Medvedev e Duplantis, che salutavano il pubblico muto sugli spalti.
Lo speaker olimpico annunciò il bronzo di Stieglitz. Mentre l'allenatore spingeva la sedia a rotelle su per la rampa, la regia staccò riproponendo il salto.
«Rivediamo intanto Stieglitz superare l'asticella a sei metri e tre. Un salto pulitissimo. Che eleganza…»
Una panoramica del Memorial Coliseum poi di nuovo il podio.
«A premiare gli atleti ecco Ivo Ferriani, membro del CIO, il Comitato Olimpico Internazionale; Ivo Ferriani, ricordiamolo, ex olimpionico di bob a Calgary, la bellezza di quarant'anni fa. Ed è probabilmente per omaggiare il connazionale Loaldi che ha voluto consegnare le medaglie di persona, ma di Angelo Loaldi al momento non ci sono notizie. Ecco: Ferriani passa la medaglia di bronzo attorno al collo di Stieglitz, completamente incosciente… E parte l'ovazione! La sentite, signore e signori. Il Memorial Coliseum di Los Angeles è letteralmente esploso! Tutti sono in piedi sulle gradinate, sembra che nessuno aspettasse altro che questo momento. Se Duplantis si consolerà con il record mondiale che detiene da otto anni, per Medvedev questo sarà un oro dolce amaro.»
Il giornalista serra il pugno e il cameraman zooma indietro, inquadrando l'enorme schermo piatto, il mobile TV che lo sostiene, due persone a mezzobusto che, rivolte verso il televisore, osservano la registrazione delle Olimpiadi di Los Angeles.
L'assistente di produzione, fuori scena e al riparo da ogni superficie riflettente, abbassa il volume col telecomando, riducendolo a un tappeto sonoro che regala la giusta atmosfera senza disturbare la conversazione.
Il giornalista è il primo a ruotare la poltroncina, tornando a occupare di tre quarti la sua metà dell'inquadratura. Con un ronzio di servomotori, anche l'ospite lo imita.
«Decisamente uno spartiacque della storia. Qualcosa che, forse, non si vedeva da Città del Messico. Che effetto le fa rivederla, signor Loaldi?»
«Angelo per favore» risponde la voce metallica e monocorde del computer, mentre Loaldi fa volare i bulbi oculari, monitorati dal sensore infrarosso, sullo schermo del terminale con sui seleziona le parole. «Non amo le formalità. Devo risparmiare su ogni lettera o facciamo notte.»
Affonda nella sedia a rotelle, il corpo ormai privo di forma, divorato dalla SLA. Un ventilatore respira per lui attraverso la tracheostomia. Del corpo fisico, resta padrone soltanto degli occhi.
«Certo» concede il giornalista, spostando il peso.
«Era una battuta» vocalizza il sintetizzatore.
Il giornalista sorride, annuisce e si rilassa.
«Che effetto mi fa» prosegue piatta la voce robotica. «Sempre lo stesso. È stata la prima medaglia olimpica. Credevo di vedermela passare attorno al collo. Invece l'ho vista in tivù. C'è rimasto male anche Ferriani temo. He. He. He.»
«Immagino di sì» risponde il giornalista. Poi cambia tono, come se la conversazione stesse già per concludersi. «Angelo, ci tenevo a conoscerla di persona e a presentarla al pubblico. Dopo questa partenza col botto, se per lei va bene, continuerei l'intervista dove si sente più a suo agio, è d'accordo?»
«Più che volentieri» scandisce il computer.
«Allora non mi resta che salutarla e andare a prendere l'aereo» dice il giornalista, alzandosi con un sorriso sornione. «Ci vediamo domani a Seattle.»
«Chiudi» aggiunge poi, rivolto al cameraman. «Signor… Angelo. Grazie per avermi concesso questo incontro. So che non ama le apparizioni pubbliche… in questa veste.»
«Nessun problema. Grazie a lei. Il mondo ha bisogno di chiarezza e anche io devo fare quello che posso.»
«Be', comunque grazie. Questo è un progetto in cui credo moltissimo. Allora, a domani. La lascio riposare.»
Con movimenti misurati, cameraman e assistente di produzione hanno già riposto l'attrezzatura, pronti a lasciare la casa di Loaldi.
«Se avete tempo fate un giro per il centro» consiglia la voce metallica. «Pavia è una città deliziosa. È uno spreco attraversare l'oceano per arrivare fin qui e non visitarla neppure.»
La piccola troupe saluta e si avvia all'uscita accompagnata dall'infermiera.
Loaldi chiude gli occhi e torna a volare sopra quell'asta di vetroresina a più di sei metri d'altezza, quando attorno a lui tutta Los Angeles tratteneva il fiato.
«Prego, questa è la stanza di Jason.» La signora bionda, sua mamma, entra e apre le tende sulla baia di Elliott.
«Sistematevi pure come preferite. Se avete bisogno di me, basta suonare il campanello.» Indica l'interruttore che pende dal cavo sopra la postazione da terapia intensiva. «Oppure mi chiamate a voce: sono al piano di sotto.»
Fa un gran sorriso e se ne va.
Stieglitz è steso sul letto, un vichingo biondo e massiccio profondamente addormentato. La maschera fissata sul viso permette al ventilatore di pompare aria nei polmoni.
Il cameraman si consulta con il giornalista e l'assistente di produzione. Decidono le inquadrature, poi imposta le luci.
È tutto pronto, la spia rossa sul muso della cinepresa si accende. «E… vai!»
«Ed eccoci a Seattle, a casa di Jason Stieglitz…»
La telecamera supera la spalla del giornalista, mette a fuoco Stieglitz, immobile, prosegue con una carrellata delle foto alla parete, in cui l'atleta è immortalato sul podio o all'apice dell'arco sopra l'asticella, e chiude con una fugace visione della baia attraverso la vetrata.
«Per voi sono passati pochi secondi ma per noi è già domani e sono le quattro del pomeriggio, orario della Costa Occidentale. Angelo Loaldi ci raggiungerà a momenti e continueremo a ripercorrere con lui l'incredibile cammino che ha lo ha visto, assieme a Stieglitz, protagonista di una delle più epocali svolte nella storia delle Olimpiadi. Ma facciamo un passo indietro fino al 2021, al 4 Marzo 2021, per l'esattezza…» Un respiro profondo e irregolare cattura l'attenzione. Il giornalista tace mentre l'inquadratura si sposta su Stieglitz che, scosso da tosse e spasmi muscolari, riprende con fatica conoscenza. Apre gli occhi, si toglie la maschera e si tira su a sedere. Sfila dall'indice il pulsossimetro e spegne il ventilatore con i movimenti intorpiditi ma sicuri di chi ha ripetuto quella procedura infinite volte.
Inspira a fondo, espira. «Buonasera. È un piacere rivedervi.» Tende la mano al giornalista.
«Il piacere è tutto mio» risponde l'uomo. Ha una bella stretta. «Angelo, Jason, non vedevo l'ora di potervi dare la mano. È un onore essere qui.»
«Non esageri» ride l'atleta. Si alza dal letto, poi, come turbato da un pensiero improvviso, abbassa lo sguardo su di sé. Indossa una tuta nera con tre righe bianche verticali lungo i fianchi. Appare sollevato.
«Allison, santa donna» dice.
«Temevo di essere in pigiama» spiega alla telecamera. «E hanno anche già sfilato il catetere. Che lusso. Non le dico ogni volta il fastidio…»
Si spostano vicino alla finestra, dove due poltrone con in mezzo un tavolino sono abilmente disposte per farli chiacchierare con il panorama del golfo come sfondo.
«Ho promesso al nostro pubblico una grande storia. Ci saranno alte aspettative» scherza il giornalista. «Vogliamo iniziare dal 4 Marzo del 2021?»
«Possiamo, volendo. Ma per me le cose iniziano molto prima.» L'atleta intercetta l'espressione dubbiosa dell'altro e precisa: «Per me Angelo.»
«Ogni buona storia inizia dal principio» commenta il giornalista lasciandogli la parola.
Angelo Loaldi stira i muscoli della schiena e delle braccia di Jason Stieglitz, accomoda meglio il suo corpo sulla poltrona e poi comincia a raccontare.
«Una data precisa a cui fare riferimento non ce l'ho, ma se la volessimo cercare, di sicuro è persa da qualche parte nel 1997. Ero in terza media. Un giorno stavamo prendendo il caffè dopo pranzo e, come se fosse la cosa più normale del mondo, un amico di famiglia mi racconta di essere capace di fare viaggi astrali. A comando, quando voleva, come voleva. Da allora è diventato il mio mito, e le proiezioni astrali la mia ossessione. Stavo ore a sentirlo raccontare e lo sommergevo di domande. Mi raccontava cose incredibili. Non so se fosse tutto vero, non mi è neanche mai passato per la mente di dubitarne. Quando hai tredici anni, gli adulti non dicono bugie. Non ho avuto molto tempo per approfondire, perché l'anno dopo è morto. Comunque credo fosse in buona fede, perché spesso, quando andava in posti mai visti prima, si muoveva come se ci fosse già stato e, in seguito, le cose di cui mi parlava ho finito per vederle quasi tutte, quindi…»
Fissa il vuoto per un attimo, ricordando, poi riparte.
«Ci ho provato per anni, a uscire dal corpo. Appena un po' più grande ho iniziato a leggere libri sull'argomento, a fare tentativi vari. Non ho mai provato con le droghe, però: volevo che fosse una capacità mia, volevo averne il controllo. Comunque, ci sarò riuscito due volte, a uscire, tre. Forse. Erano esperienze vaghe e rarefatte, poteva trattarsi anche di sogni lucidi.»
«Non ero il più diligente degli allievi, a dirla tutta. Diverso è stato quando è arrivata la SLA. Tante cose hanno cambiato prospettiva. E avevo sempre più tempo per stare immobile.»
«Quando le è stata diagnosticata?» chiede il giornalista.
«Nel 2008, in primavera. È una forma atipica, non galoppa come fa di solito. È un po' tipo quella che aveva Stephen Hawking; non così lenta, ma più lenta. Vivrò ancora qualche anno, se va bene.» Lo dice sorridendo.
«Non sembra spaventato.»
«No. Quando hai dato un occhiata di là, già sapere che c'è un di là ti fa stare tranquillo. Ma non mi spaventava neanche prima, in realtà. Sono fatalista, credo. Comunque, a quel punto mi ci misi seriamente, e iniziarono ad arrivare i risultati. All'inizio erano esperienze assurde. Bellissime, ma estremamente metafisiche, simboliche se vogliamo, un po' come descriveva Jung, ha presente?»
Il giornalista annuisce.
«Poi, con la pratica, riuscii ad avvicinarmi al piano fisico, a restare nei pressi, come si suol dire. È molto difficile, sa? Chi dice il contrario fa lo sbruffone. E poi arrivò il 2021.»
«I primi gemellanti» chiosa il giornalista.
«Esatto. Lucinda Lennon occupa e risveglia il corpo di Karan Sandeep, in coma da undici anni. La storia la sappiamo: viene dimostrata l'esistenza dei corpi astrali e di piani di esistenza contigui a quello fisico, con tutte le implicazioni etiche, mistiche e fisiche che tutti conoscono. Ma per me, che lo sapevo già, la rivelazione è un'altra: inizia l'era dei gemellanti.»
«Oggi ci sono al mondo centonovantasette coppie accreditate di gemellanti, se non sbaglio» osserva il giornalista.
«Centonovantasei. Vincent Perkins è deceduto la settimana scorsa» corregge Angelo-Jason.
«Ah, non lo sapevo. Mi dispiace.»
Un sorriso attraversa il viso del vichingo. Notando l'espressione dell'altro, Loaldi spiega: «Una battuta di Jason. Faceva presente che Perkins aveva novantun'anni.» Fa una smorfia, sembra riflettere. «Non fa ridere detta così. È difficile da spiegare. Faceva sorridere contestualizzata all'emozione, all'intenzione nel messaggio, ma a parole si perde.»
Il giornalista si illumina. «Come funziona la comunicazione tra gemellanti? Da profani verrebbe da pensare che non resti nulla della coscienza del donatore del corpo, ma invece non è affatto così, giusto?»
«Esatto» risponde Loaldi. «La persona è ancora lì. Solo che è staccata dal corpo. È come un marinaio su una barca senza remi e con il motore e il timone rotti. Solo che non può tuffarsi in acqua. Ma è lì.»
«Quindi le persone in coma sono consapevoli di quanto avviene attorno a loro?»
«Per la mia esperienza, no. Ma sono lì. E se un gemellante prende il controllo del loro corpo, riattivandone i sensi, allora tornano anche a percepire. Jason è sempre con me quando sono nel suo corpo. Adesso ci sta ascoltando, vede la stanza, vede lei, partecipa alla conversazione. Se ha dei commenti, li fa.» Sorride.
Il giornalista annuisce, metabolizzando le parole dell'atleta. Poi la professione riprende i comandi e lui si riprende. «Tornando a voi, cosa cambiò il 4 marzo del 2021?»
«Cambiò che da allora – qualche mese dopo, in realtà, quando vennero pubblicati gli studi e le notizie – sapevo che era tutto vero. Fisico, concreto, esterno alla mia realtà interiore. Sapevo che non ero più costretto a subire la prigione del mio corpo. È stata un'epifania. Sentivo di poter fare qualunque cosa. Mi ero messo in testa che sarei andato alle olimpiadi. Non ero mai stato sportivo, sa? Neanche prima. Per farla breve, ho trovato Jason. È stata un'armonia perfetta dal primo momento. E lui ha una famiglia meravigliosa, ci hanno appoggiato subito. Oh, Allison era così felice di vederlo in piedi… e io faccio da tramite, parlo per lui. Non è proprio la stessa cosa ma, diamine, è tanta roba, è di nuovo qui, con loro. Abbiamo iniziato ad allenarci. Jason era una promessa prima dell'incidente. Quando siamo stati in odore di Olimpiadi, mi hanno naturalizzato americano. Dovevamo esserlo entrambi. All'inizio tutti, anche noi, pensavamo alle paralimpiadi, ma l'IPC ci ha valutati a fondo e ha fatto presente che non presentavamo nessuna disabilità da un punto di vista sportivo e che non esisteva una categoria in cui farci competere, così il CIO, giocoforza, ci ha ammessi alle Olimpiadi con la squadra degli Stati Uniti. Il resto è storia.»
Il giornalista ha la bocca aperta. Sono cose che sa già, ma averli di fronte, sentirle raccontare dalla loro voce… non era preparato. Alla fine chiede: «Crede che potrei rivolgere una domanda a Jason?»
«Ma certo.»
«Dio, spero di non risultare offensivo. Jason, come vive lei il gemellaggio? Non le pesa avere contatti col mondo solo attraverso qualcuno che si appropria del suo corpo? Non è frustrante aver vinto un bronzo olimpico da passeggero?» Attende, sulle spine.
L'atleta sorride, annuisce, sorride ancora, immerso in un dialogo interiore.
«Che dice?» chiede il giornalista.
«Dice di no. Dice che quando lasci il volante non sei più obbligato a guardare la strada e puoi accarezzare con gli occhi ogni fiore e ogni stella fuori dal finestrino. Dice che "citius, altius, fortius" lo lascia a me; lui preferisce concentrarsi sul fatto che l'importante non è vincere ma partecipare.»
L'inquadratura strinse sui due tecnici che assicuravano la rampa al terzo gradino del podio, ne saggiavano la tenuta e abbandonavano la scena il più in fretta possibile.
«Lo staff tecnico si allontana dal podio. Qualche inconveniente dell'ultimo minuto deve aver costretto l'organizzazione ad adottare misure di fortuna…»
La voce del cronista ruppe il silenzio altrimenti perfetto del Memorial Coliseum.
«Ecco gli atleti. Ed è chiaro, adesso, il motivo dell'intervento.»
Jason Stieglitz apriva la fila, spinto dall'allenatore. Caviglie, polsi e torace erano assicurati da bande elastiche alla sedia a rotelle, e il capo era fissato al poggiatesta con una fascia che gli stringeva la fronte. La camera zoomò brevemente sul volto inespressivo: occhi e labbra erano socchiusi, la mascella completamente abbandonata.
Seguivano Medvedev e Duplantis, che salutavano il pubblico muto sugli spalti.
Lo speaker olimpico annunciò il bronzo di Stieglitz. Mentre l'allenatore spingeva la sedia a rotelle su per la rampa, la regia staccò riproponendo il salto.
«Rivediamo intanto Stieglitz superare l'asticella a sei metri e tre. Un salto pulitissimo. Che eleganza…»
Una panoramica del Memorial Coliseum poi di nuovo il podio.
«A premiare gli atleti ecco Ivo Ferriani, membro del CIO, il Comitato Olimpico Internazionale; Ivo Ferriani, ricordiamolo, ex olimpionico di bob a Calgary, la bellezza di quarant'anni fa. Ed è probabilmente per omaggiare il connazionale Loaldi che ha voluto consegnare le medaglie di persona, ma di Angelo Loaldi al momento non ci sono notizie. Ecco: Ferriani passa la medaglia di bronzo attorno al collo di Stieglitz, completamente incosciente… E parte l'ovazione! La sentite, signore e signori. Il Memorial Coliseum di Los Angeles è letteralmente esploso! Tutti sono in piedi sulle gradinate, sembra che nessuno aspettasse altro che questo momento. Se Duplantis si consolerà con il record mondiale che detiene da otto anni, per Medvedev questo sarà un oro dolce amaro.»
Il giornalista serra il pugno e il cameraman zooma indietro, inquadrando l'enorme schermo piatto, il mobile TV che lo sostiene, due persone a mezzobusto che, rivolte verso il televisore, osservano la registrazione delle Olimpiadi di Los Angeles.
L'assistente di produzione, fuori scena e al riparo da ogni superficie riflettente, abbassa il volume col telecomando, riducendolo a un tappeto sonoro che regala la giusta atmosfera senza disturbare la conversazione.
Il giornalista è il primo a ruotare la poltroncina, tornando a occupare di tre quarti la sua metà dell'inquadratura. Con un ronzio di servomotori, anche l'ospite lo imita.
«Decisamente uno spartiacque della storia. Qualcosa che, forse, non si vedeva da Città del Messico. Che effetto le fa rivederla, signor Loaldi?»
«Angelo per favore» risponde la voce metallica e monocorde del computer, mentre Loaldi fa volare i bulbi oculari, monitorati dal sensore infrarosso, sullo schermo del terminale con sui seleziona le parole. «Non amo le formalità. Devo risparmiare su ogni lettera o facciamo notte.»
Affonda nella sedia a rotelle, il corpo ormai privo di forma, divorato dalla SLA. Un ventilatore respira per lui attraverso la tracheostomia. Del corpo fisico, resta padrone soltanto degli occhi.
«Certo» concede il giornalista, spostando il peso.
«Era una battuta» vocalizza il sintetizzatore.
Il giornalista sorride, annuisce e si rilassa.
«Che effetto mi fa» prosegue piatta la voce robotica. «Sempre lo stesso. È stata la prima medaglia olimpica. Credevo di vedermela passare attorno al collo. Invece l'ho vista in tivù. C'è rimasto male anche Ferriani temo. He. He. He.»
«Immagino di sì» risponde il giornalista. Poi cambia tono, come se la conversazione stesse già per concludersi. «Angelo, ci tenevo a conoscerla di persona e a presentarla al pubblico. Dopo questa partenza col botto, se per lei va bene, continuerei l'intervista dove si sente più a suo agio, è d'accordo?»
«Più che volentieri» scandisce il computer.
«Allora non mi resta che salutarla e andare a prendere l'aereo» dice il giornalista, alzandosi con un sorriso sornione. «Ci vediamo domani a Seattle.»
«Chiudi» aggiunge poi, rivolto al cameraman. «Signor… Angelo. Grazie per avermi concesso questo incontro. So che non ama le apparizioni pubbliche… in questa veste.»
«Nessun problema. Grazie a lei. Il mondo ha bisogno di chiarezza e anche io devo fare quello che posso.»
«Be', comunque grazie. Questo è un progetto in cui credo moltissimo. Allora, a domani. La lascio riposare.»
Con movimenti misurati, cameraman e assistente di produzione hanno già riposto l'attrezzatura, pronti a lasciare la casa di Loaldi.
«Se avete tempo fate un giro per il centro» consiglia la voce metallica. «Pavia è una città deliziosa. È uno spreco attraversare l'oceano per arrivare fin qui e non visitarla neppure.»
La piccola troupe saluta e si avvia all'uscita accompagnata dall'infermiera.
Loaldi chiude gli occhi e torna a volare sopra quell'asta di vetroresina a più di sei metri d'altezza, quando attorno a lui tutta Los Angeles tratteneva il fiato.
«Prego, questa è la stanza di Jason.» La signora bionda, sua mamma, entra e apre le tende sulla baia di Elliott.
«Sistematevi pure come preferite. Se avete bisogno di me, basta suonare il campanello.» Indica l'interruttore che pende dal cavo sopra la postazione da terapia intensiva. «Oppure mi chiamate a voce: sono al piano di sotto.»
Fa un gran sorriso e se ne va.
Stieglitz è steso sul letto, un vichingo biondo e massiccio profondamente addormentato. La maschera fissata sul viso permette al ventilatore di pompare aria nei polmoni.
Il cameraman si consulta con il giornalista e l'assistente di produzione. Decidono le inquadrature, poi imposta le luci.
È tutto pronto, la spia rossa sul muso della cinepresa si accende. «E… vai!»
«Ed eccoci a Seattle, a casa di Jason Stieglitz…»
La telecamera supera la spalla del giornalista, mette a fuoco Stieglitz, immobile, prosegue con una carrellata delle foto alla parete, in cui l'atleta è immortalato sul podio o all'apice dell'arco sopra l'asticella, e chiude con una fugace visione della baia attraverso la vetrata.
«Per voi sono passati pochi secondi ma per noi è già domani e sono le quattro del pomeriggio, orario della Costa Occidentale. Angelo Loaldi ci raggiungerà a momenti e continueremo a ripercorrere con lui l'incredibile cammino che ha lo ha visto, assieme a Stieglitz, protagonista di una delle più epocali svolte nella storia delle Olimpiadi. Ma facciamo un passo indietro fino al 2021, al 4 Marzo 2021, per l'esattezza…» Un respiro profondo e irregolare cattura l'attenzione. Il giornalista tace mentre l'inquadratura si sposta su Stieglitz che, scosso da tosse e spasmi muscolari, riprende con fatica conoscenza. Apre gli occhi, si toglie la maschera e si tira su a sedere. Sfila dall'indice il pulsossimetro e spegne il ventilatore con i movimenti intorpiditi ma sicuri di chi ha ripetuto quella procedura infinite volte.
Inspira a fondo, espira. «Buonasera. È un piacere rivedervi.» Tende la mano al giornalista.
«Il piacere è tutto mio» risponde l'uomo. Ha una bella stretta. «Angelo, Jason, non vedevo l'ora di potervi dare la mano. È un onore essere qui.»
«Non esageri» ride l'atleta. Si alza dal letto, poi, come turbato da un pensiero improvviso, abbassa lo sguardo su di sé. Indossa una tuta nera con tre righe bianche verticali lungo i fianchi. Appare sollevato.
«Allison, santa donna» dice.
«Temevo di essere in pigiama» spiega alla telecamera. «E hanno anche già sfilato il catetere. Che lusso. Non le dico ogni volta il fastidio…»
Si spostano vicino alla finestra, dove due poltrone con in mezzo un tavolino sono abilmente disposte per farli chiacchierare con il panorama del golfo come sfondo.
«Ho promesso al nostro pubblico una grande storia. Ci saranno alte aspettative» scherza il giornalista. «Vogliamo iniziare dal 4 Marzo del 2021?»
«Possiamo, volendo. Ma per me le cose iniziano molto prima.» L'atleta intercetta l'espressione dubbiosa dell'altro e precisa: «Per me Angelo.»
«Ogni buona storia inizia dal principio» commenta il giornalista lasciandogli la parola.
Angelo Loaldi stira i muscoli della schiena e delle braccia di Jason Stieglitz, accomoda meglio il suo corpo sulla poltrona e poi comincia a raccontare.
«Una data precisa a cui fare riferimento non ce l'ho, ma se la volessimo cercare, di sicuro è persa da qualche parte nel 1997. Ero in terza media. Un giorno stavamo prendendo il caffè dopo pranzo e, come se fosse la cosa più normale del mondo, un amico di famiglia mi racconta di essere capace di fare viaggi astrali. A comando, quando voleva, come voleva. Da allora è diventato il mio mito, e le proiezioni astrali la mia ossessione. Stavo ore a sentirlo raccontare e lo sommergevo di domande. Mi raccontava cose incredibili. Non so se fosse tutto vero, non mi è neanche mai passato per la mente di dubitarne. Quando hai tredici anni, gli adulti non dicono bugie. Non ho avuto molto tempo per approfondire, perché l'anno dopo è morto. Comunque credo fosse in buona fede, perché spesso, quando andava in posti mai visti prima, si muoveva come se ci fosse già stato e, in seguito, le cose di cui mi parlava ho finito per vederle quasi tutte, quindi…»
Fissa il vuoto per un attimo, ricordando, poi riparte.
«Ci ho provato per anni, a uscire dal corpo. Appena un po' più grande ho iniziato a leggere libri sull'argomento, a fare tentativi vari. Non ho mai provato con le droghe, però: volevo che fosse una capacità mia, volevo averne il controllo. Comunque, ci sarò riuscito due volte, a uscire, tre. Forse. Erano esperienze vaghe e rarefatte, poteva trattarsi anche di sogni lucidi.»
«Non ero il più diligente degli allievi, a dirla tutta. Diverso è stato quando è arrivata la SLA. Tante cose hanno cambiato prospettiva. E avevo sempre più tempo per stare immobile.»
«Quando le è stata diagnosticata?» chiede il giornalista.
«Nel 2008, in primavera. È una forma atipica, non galoppa come fa di solito. È un po' tipo quella che aveva Stephen Hawking; non così lenta, ma più lenta. Vivrò ancora qualche anno, se va bene.» Lo dice sorridendo.
«Non sembra spaventato.»
«No. Quando hai dato un occhiata di là, già sapere che c'è un di là ti fa stare tranquillo. Ma non mi spaventava neanche prima, in realtà. Sono fatalista, credo. Comunque, a quel punto mi ci misi seriamente, e iniziarono ad arrivare i risultati. All'inizio erano esperienze assurde. Bellissime, ma estremamente metafisiche, simboliche se vogliamo, un po' come descriveva Jung, ha presente?»
Il giornalista annuisce.
«Poi, con la pratica, riuscii ad avvicinarmi al piano fisico, a restare nei pressi, come si suol dire. È molto difficile, sa? Chi dice il contrario fa lo sbruffone. E poi arrivò il 2021.»
«I primi gemellanti» chiosa il giornalista.
«Esatto. Lucinda Lennon occupa e risveglia il corpo di Karan Sandeep, in coma da undici anni. La storia la sappiamo: viene dimostrata l'esistenza dei corpi astrali e di piani di esistenza contigui a quello fisico, con tutte le implicazioni etiche, mistiche e fisiche che tutti conoscono. Ma per me, che lo sapevo già, la rivelazione è un'altra: inizia l'era dei gemellanti.»
«Oggi ci sono al mondo centonovantasette coppie accreditate di gemellanti, se non sbaglio» osserva il giornalista.
«Centonovantasei. Vincent Perkins è deceduto la settimana scorsa» corregge Angelo-Jason.
«Ah, non lo sapevo. Mi dispiace.»
Un sorriso attraversa il viso del vichingo. Notando l'espressione dell'altro, Loaldi spiega: «Una battuta di Jason. Faceva presente che Perkins aveva novantun'anni.» Fa una smorfia, sembra riflettere. «Non fa ridere detta così. È difficile da spiegare. Faceva sorridere contestualizzata all'emozione, all'intenzione nel messaggio, ma a parole si perde.»
Il giornalista si illumina. «Come funziona la comunicazione tra gemellanti? Da profani verrebbe da pensare che non resti nulla della coscienza del donatore del corpo, ma invece non è affatto così, giusto?»
«Esatto» risponde Loaldi. «La persona è ancora lì. Solo che è staccata dal corpo. È come un marinaio su una barca senza remi e con il motore e il timone rotti. Solo che non può tuffarsi in acqua. Ma è lì.»
«Quindi le persone in coma sono consapevoli di quanto avviene attorno a loro?»
«Per la mia esperienza, no. Ma sono lì. E se un gemellante prende il controllo del loro corpo, riattivandone i sensi, allora tornano anche a percepire. Jason è sempre con me quando sono nel suo corpo. Adesso ci sta ascoltando, vede la stanza, vede lei, partecipa alla conversazione. Se ha dei commenti, li fa.» Sorride.
Il giornalista annuisce, metabolizzando le parole dell'atleta. Poi la professione riprende i comandi e lui si riprende. «Tornando a voi, cosa cambiò il 4 marzo del 2021?»
«Cambiò che da allora – qualche mese dopo, in realtà, quando vennero pubblicati gli studi e le notizie – sapevo che era tutto vero. Fisico, concreto, esterno alla mia realtà interiore. Sapevo che non ero più costretto a subire la prigione del mio corpo. È stata un'epifania. Sentivo di poter fare qualunque cosa. Mi ero messo in testa che sarei andato alle olimpiadi. Non ero mai stato sportivo, sa? Neanche prima. Per farla breve, ho trovato Jason. È stata un'armonia perfetta dal primo momento. E lui ha una famiglia meravigliosa, ci hanno appoggiato subito. Oh, Allison era così felice di vederlo in piedi… e io faccio da tramite, parlo per lui. Non è proprio la stessa cosa ma, diamine, è tanta roba, è di nuovo qui, con loro. Abbiamo iniziato ad allenarci. Jason era una promessa prima dell'incidente. Quando siamo stati in odore di Olimpiadi, mi hanno naturalizzato americano. Dovevamo esserlo entrambi. All'inizio tutti, anche noi, pensavamo alle paralimpiadi, ma l'IPC ci ha valutati a fondo e ha fatto presente che non presentavamo nessuna disabilità da un punto di vista sportivo e che non esisteva una categoria in cui farci competere, così il CIO, giocoforza, ci ha ammessi alle Olimpiadi con la squadra degli Stati Uniti. Il resto è storia.»
Il giornalista ha la bocca aperta. Sono cose che sa già, ma averli di fronte, sentirle raccontare dalla loro voce… non era preparato. Alla fine chiede: «Crede che potrei rivolgere una domanda a Jason?»
«Ma certo.»
«Dio, spero di non risultare offensivo. Jason, come vive lei il gemellaggio? Non le pesa avere contatti col mondo solo attraverso qualcuno che si appropria del suo corpo? Non è frustrante aver vinto un bronzo olimpico da passeggero?» Attende, sulle spine.
L'atleta sorride, annuisce, sorride ancora, immerso in un dialogo interiore.
«Che dice?» chiede il giornalista.
«Dice di no. Dice che quando lasci il volante non sei più obbligato a guardare la strada e puoi accarezzare con gli occhi ogni fiore e ogni stella fuori dal finestrino. Dice che "citius, altius, fortius" lo lascia a me; lui preferisce concentrarsi sul fatto che l'importante non è vincere ma partecipare.»