Il mito di Androgeo
Inviato: mercoledì 15 luglio 2020, 23:50
Il mito di Androgeo
Di Giorgia D'Aversa
Le colonne rosse del palazzo erano già roventi al tatto. Androgeo ritrasse la mano e rivolse l’attenzione a Minosse, il cui chitone chiaro era illuminato dalla luce screziata di arancio. Lo raggiunse, mantenendosi un passo indietro.
«Padre, volevate parlarmi di qualcosa?»
Il re incedeva lento all’ombra del muro affrescato. «In quanto mio primogenito, parteciperai alle Grandi Panatenee indette dal re Egeo. Ci saranno atleti da ogni città, e mi aspetto che tu possa rendere onore a Creta e alla stirpe del Sole.»
Androgeo rilassò le spalle contratte e soffiò con sollievo l’aria dalle narici: il volto impassibile del padre gli aveva fatto temere un rimprovero o una notizia nefasta.
«Non vi deluderò, mio re. La mia preparazione ginnica è superiore a qualsiasi uomo dell’isola.» Si concesse un sorriso compiaciuto.
Minosse si arrestò alla fine del colonnato, lo sguardo fisso sugli edifici sottostanti.
«Questo non basta, e dovresti esserne consapevole. La tua abilità nei giochi dovrà essere tale da portarti alla vittoria su tutti gli altri greci… in particolare gli ateniesi.»
La sconfitta non era contemplata. Androgeo aprì i palmi e ne sfiorò la superficie callosa. La vittoria gli interessava fino a un certo punto: partecipare ai giochi in onore di Atena, lontano da quelle mura opprimenti e dai segreti che celava, questo sì che era importante.
Il cielo andava schiarendosi. Un muggito rancoroso riverberò per tutto il palazzo con un’eco che gli si ancorò al cervello: un monito, una rabbiosa promessa di vendetta. Deglutì a vuoto, la salivazione ridotta al minimo. Minosse si limitò ad arricciare le labbra.
«Il Minotauro… Tuo fratello Asterione e tua madre hanno condannato l’intera discendenza alla vergogna; fuori da Creta già si inizia a vociferare della presenza di un’aberrazione a palazzo.» Una risata amara gli proruppe dalla gola. «Siamo stati puniti dagli Dei, dobbiamo ottenere di nuovo il loro favore gareggiando per Pallade. Vincerai, figlio.»
Il suo tono non ammetteva repliche, e Androgeo annuì in silenzio. Non avrebbe certo contraddetto il volere di Minosse, né tantomeno avrebbe vanificato le lunghe ore di allenamento. Non poteva permettersi di indugiare sul dubbio della sconfitta, sul terrore di non essere abbastanza capace.
Da me dipende la reputazione della famiglia, dell’intera isola. Dea dagli occhi scintillanti, ti onorerò.
Atena. La dea che combatte come un uomo e dona la vittoria. Prima della partenza avrebbero dovuto offrirle libagioni in quantità. Tanti buoi, le bestie più belle di cui disponessero, per glorificarla e ottenerne il favore. Sarebbe andato ad Atene, a gareggiare contro i figli prediletti della dea: aveva bisogno di pregare, e tanto.
Chinò il capo verso il padre e si congedò.
***
Il corridoio che portava all’ingresso del Labirinto era illuminato solo da un paio di torce fissate alle pareti. L’ombra che Androgeo proiettava sul portone si univa in figure deformi alle grottesche raffigurazioni del Minotauro presenti su entrambe le ante. Rimase immobile, la fiaccola ben salda in mano, affascinato dall’ambiguo intrecciarsi della sua estensione con le incisioni dedicate alla bestia.
Il mio fratellastro.
Sfiorò la superficie fresca del bronzo, seguendo il profilo delle corna e del muso animale. Da anni Pasifae non faceva che giustificarsi con il re menzionando l’influenza di Poseidone sulle sue pulsioni mostruose, ma lui aveva ben altra opinione in merito: sua madre si era solo voluta scopare quel toro bianchissimo e non c’era giustificazione divina che reggesse.
«Qualcuno sull’Olimpo ha voluto che le nostre vite si intrecciassero, resta da capire quale sia il motivo.»
La terra dei sotterranei tremò. Passi pesanti ma misurati scossero le fondamenta del palazzo di Cnosso. Androgeo appoggiò i palmi e l’orecchio sinistro sulle ante del portone, in ascolto. La creatura sapeva che era lì.
L’aveva visto poche volte, quando ancora i soldati erano in grado di contenere quel corpo ibrido dotato di una forza spaventosa. Lo tenevano in una gabbia con sbarre spesse quanto il bicipite di un guerriero, alle quali si aggrappava per scuotere la sua prigione e reclamare sempre più cibo.
Lo immaginò dall’altro lato, all’interno del Labirinto, con gli occhi feroci iniettati di sangue come alla sua nascita. Un verso animalesco e sofferente si abbatté contro la superficie spessa del portone: si allontanò di scatto, come se il Minotauro potesse trovare la strada d’uscita e abbattere con un colpo di corna le pesanti ante.
Ma forse non desidera fuggire, forse accetta il suo destino e il ruolo scelto dagli Dei. Quale che sia, quando sarò re lo capirò.
Batté piano il pugno sulla testa del toro in rilievo. Colpì altre due volte la superficie liscia, con maggior convinzione.
Lo prometto.
***
Rivoli di sudore si univano all’olio di cui Androgeo si era cosparso il corpo. Il sole del pomeriggio non accennava a voler diminuire di intensità e rendeva gli atleti simili a statue di cera in procinto di sciogliersi. Tanto meglio, perché il giorno seguente la presa dei suoi sfidanti sarebbe stata meno efficace nella lotta; il problema dell’afa estiva non prometteva nulla di buono per lo svolgersi di quel primo giorno si giochi.
Prese le fasce che gli porgeva lo schiavo di suo padre e le avvolse con attenzione intorno alle nocche, passando attorno ai polsi e stringendo infine sugli avambracci. Aprì e chiuse le mani per testare la flessibilità del cuoio. Annuì, fece un passo avanti e sciolse le gambe rigide: la fascia di lana attorno alla vita gli sfregava sui genitali accaldati.
Gli spettatori circondavano lui e il suo avversario, formando un’area all’interno della quale avrebbero combattuto.
Stando a quel che gli aveva detto lo schiavo il suo avversario era Clito, uno dei cinquanta figli di Pallante, nonché fratello del re. Un ateniese borioso con diritti al trono che lo guardava con scherno dall’altro lato del cerchio: alto e massiccio, fletteva i muscoli delle braccia per dar prova della propria prestanza. Le vene erano in rilievo sul corpo glabro. L’idea che esistessero altri quarantanove fratelli nerboruti senza che si fossero ammazzati a vicenda gli parve paradossale.
Androgeo allungò in avanti il piede sinistro e la terra calda gli si infilò tra le dita. Alzò le mani davanti al volto, il braccio sinistro di poco disteso in direzione dello sfidante.
«Che il combattimento inizi!», urlò un membro della giuria.
L’avversario gli si gettò addosso, proiettando un colpo di destro con tutto il peso del suo corpo. Androgeo fece appena in tempo a chiudere la guardia e il colpo, secco e potente, gli si abbatté sul dorso delle mani. Digrignò i denti per il dolore. Sfruttò la distanza ravvicinata e replicò con un montante rapido che si infilò nella guardia aperta di Clito: gli colpì la mascella e assestò un fulmineo sinistro per prendere le distanze dalla sua mole. Il Pallantide si portò una mano al volto e sputò un grumo di sangue per terra; gli spettatori dimenavano le braccia e urlavano, ma le orecchie ovattate impedivano ad Androgeo di capire le loro parole. Irrilevante, visto che nessuno avrebbe tifato per uno straniero.
I polsi gli dolevano già per il pugno parato. Le fasciature non erano riuscite ad attutire del tutto il diretto dello sfidante, la cui forza fisica era il principale pericolo. Androgeo era più veloce.
Clito tornò alla carica, l’espressione sfigurata dallo sforzo. Il suo montante destro giunse lento e Androgeo lo schivò abbassandosi e spostando il corpo a sinistra. Fece perno sul piede dietro e allungò il corpo in un diretto, ma l’ateniese alzò le braccia a coprire il volto.
Si studiarono cauti, girando in tondo e molleggiando sulle gambe. L’aria calda e il sudore rendevano meno fluidi i movimenti. Ancora una volta il suo avversario si protese per colpirlo: sinistro, destro, sinistro, gancio. Androgeo si difese con gli avambracci e schivò l’ultimo pugno abbassandosi. Giunse l’ennesimo diretto di Clito, parato con un movimento della mano destra e seguito da una scivolata per allontanarsi da quel corpo massiccio. Il montante colpì il figlio di Pallante dritto nello stomaco. Un grugnito di dolore sommesso e cadde in ginocchio, le mani premute sul ventre.
Androgeo si protese su di lui e gli centrò il naso con un destro. Suono di ossa che scricchiolano: Clito sbatté la testa sulla terra dura, il naso rotto e rosso. Urla estasiate provennero dagli spettatori. Clito artigliò il terreno con le dita nel tentativo di rialzarsi e riuscì a puntellarsi sui gomiti per guardarlo in faccia. Il sangue gli colava su labbra e mento, coprendo con una maschera da guerra l’espressione di disprezzo.
Il secondo pugno di Androgeo lo rispedì sdraiato con un’esclamazione di dolore. L’indice dell’ateniese si alzò tremolante verso il cielo e la folla proruppe in fischi e grida.
***
I cavalli erano stremati, il manto scuro si tendeva rapido sui respiri affannati. Androgeo diede un’ultima pacca agli animali e scese dal carro alzando un misto di polvere e terra; allungò le redini a uno schiavo e si avvicinò al premio della sua vittoria: centocinquanta anfore ricolme di olio di oliva ordinate accanto alla linea di arrivo, troppe per essere disposte su un tavolo. Si concesse un sorriso al pensiero di caricare sulla nave tutti quei vasi, insieme alle decorazioni in oro e ai pregiati scudi vinti i giorni precedenti.
Aveva reso onore a Creta, a suo padre e alla dea, quella figura altera posta a decorazione delle sue nuove anfore. L’acropoli di Atene svettava sullo sfondo di un cielo blu scuro, pronta a essere raggiunta alla conclusione dei giochi: Androgeo avrebbe guidato il corteo sul carro destinato ai vincitori per portare in vetta il peplo sacro destinato ad Atena. Gonfiò il petto e accarezzò con dolcezza una delle anfore. Lui, il vincitore di tutte le prove aperte agli stranieri, affiancato da qualche altro diffidente ateniese: se ne avesse avuta la possibilità, senza dubbio sarebbero riuscito ad avere la meglio anche nelle prove a loro riservate.
Non aspettava altro che rifocillarsi a dovere al sacrificio dei cento buoi. Prima di addentare le vittime sacrificali, avrebbe onorato ancora una volta il potere di Pallade che gli aveva concesso così tanta gloria.
Corrugò la fronte. I suoi festeggiamenti tardavano arrivare. Il carro era sparito, portato via dallo schiavo; volti astiosi lo fissavano con malcelata soddisfazione.
Il colpo sulla nuca lo fece crollare a terra, la faccia sul terreno sabbioso. Aprì e chiuse la bocca, sulla lingua un sapore ferroso. Una presa salda lo girò supino: socchiuse gli occhi e distinse a stento un corpo che lo sovrastava nel buio; nella mano destra qualcosa di grosso e irregolare.
«La ripugnante prole di Pasifae non avrà nessuno dei premi che spettano a uomini più degni.»
Altre figure affiancarono l’aggressore e coprirono ogni porzione del cielo. Ateniesi, i Pallanti, armati di enormi pietre. Uno di loro gli abbatté un colpo in fronte: Androgeo urlò, un dolore lancinante gli si irradiò dalle tempie. Niente più volti davanti a sé, solo sagome scure a incombere come presagi. Una di queste gli parve Atena, armata di tutto punto ma non intenzionata a difenderlo; vide Minosse, seduto immobile sul suo scranno dorato; infine il Minotauro, l’unico che danzasse insieme alle pulsazioni della sua testa. Quelle movenze gli ricordarono la danza delle gru in cui erano solite esibirsi le sue sorelle, Arianna e Fedra. La testa taurina ondeggiava al ritmo dei passi e la bocca si spalancava lenta.
Ma certo, un sacrificio.
Androgeo spalancò gli occhi sulla volta celeste. Le stelle si mossero a formare una promessa firmata sul blu della notte: cento buoi che non avrebbe potuto consacrare alla dea, cento giovani che sarebbero stati sacrificati in suo nome. Ci avrebbe pensato Asteriore.
Di Giorgia D'Aversa
Le colonne rosse del palazzo erano già roventi al tatto. Androgeo ritrasse la mano e rivolse l’attenzione a Minosse, il cui chitone chiaro era illuminato dalla luce screziata di arancio. Lo raggiunse, mantenendosi un passo indietro.
«Padre, volevate parlarmi di qualcosa?»
Il re incedeva lento all’ombra del muro affrescato. «In quanto mio primogenito, parteciperai alle Grandi Panatenee indette dal re Egeo. Ci saranno atleti da ogni città, e mi aspetto che tu possa rendere onore a Creta e alla stirpe del Sole.»
Androgeo rilassò le spalle contratte e soffiò con sollievo l’aria dalle narici: il volto impassibile del padre gli aveva fatto temere un rimprovero o una notizia nefasta.
«Non vi deluderò, mio re. La mia preparazione ginnica è superiore a qualsiasi uomo dell’isola.» Si concesse un sorriso compiaciuto.
Minosse si arrestò alla fine del colonnato, lo sguardo fisso sugli edifici sottostanti.
«Questo non basta, e dovresti esserne consapevole. La tua abilità nei giochi dovrà essere tale da portarti alla vittoria su tutti gli altri greci… in particolare gli ateniesi.»
La sconfitta non era contemplata. Androgeo aprì i palmi e ne sfiorò la superficie callosa. La vittoria gli interessava fino a un certo punto: partecipare ai giochi in onore di Atena, lontano da quelle mura opprimenti e dai segreti che celava, questo sì che era importante.
Il cielo andava schiarendosi. Un muggito rancoroso riverberò per tutto il palazzo con un’eco che gli si ancorò al cervello: un monito, una rabbiosa promessa di vendetta. Deglutì a vuoto, la salivazione ridotta al minimo. Minosse si limitò ad arricciare le labbra.
«Il Minotauro… Tuo fratello Asterione e tua madre hanno condannato l’intera discendenza alla vergogna; fuori da Creta già si inizia a vociferare della presenza di un’aberrazione a palazzo.» Una risata amara gli proruppe dalla gola. «Siamo stati puniti dagli Dei, dobbiamo ottenere di nuovo il loro favore gareggiando per Pallade. Vincerai, figlio.»
Il suo tono non ammetteva repliche, e Androgeo annuì in silenzio. Non avrebbe certo contraddetto il volere di Minosse, né tantomeno avrebbe vanificato le lunghe ore di allenamento. Non poteva permettersi di indugiare sul dubbio della sconfitta, sul terrore di non essere abbastanza capace.
Da me dipende la reputazione della famiglia, dell’intera isola. Dea dagli occhi scintillanti, ti onorerò.
Atena. La dea che combatte come un uomo e dona la vittoria. Prima della partenza avrebbero dovuto offrirle libagioni in quantità. Tanti buoi, le bestie più belle di cui disponessero, per glorificarla e ottenerne il favore. Sarebbe andato ad Atene, a gareggiare contro i figli prediletti della dea: aveva bisogno di pregare, e tanto.
Chinò il capo verso il padre e si congedò.
***
Il corridoio che portava all’ingresso del Labirinto era illuminato solo da un paio di torce fissate alle pareti. L’ombra che Androgeo proiettava sul portone si univa in figure deformi alle grottesche raffigurazioni del Minotauro presenti su entrambe le ante. Rimase immobile, la fiaccola ben salda in mano, affascinato dall’ambiguo intrecciarsi della sua estensione con le incisioni dedicate alla bestia.
Il mio fratellastro.
Sfiorò la superficie fresca del bronzo, seguendo il profilo delle corna e del muso animale. Da anni Pasifae non faceva che giustificarsi con il re menzionando l’influenza di Poseidone sulle sue pulsioni mostruose, ma lui aveva ben altra opinione in merito: sua madre si era solo voluta scopare quel toro bianchissimo e non c’era giustificazione divina che reggesse.
«Qualcuno sull’Olimpo ha voluto che le nostre vite si intrecciassero, resta da capire quale sia il motivo.»
La terra dei sotterranei tremò. Passi pesanti ma misurati scossero le fondamenta del palazzo di Cnosso. Androgeo appoggiò i palmi e l’orecchio sinistro sulle ante del portone, in ascolto. La creatura sapeva che era lì.
L’aveva visto poche volte, quando ancora i soldati erano in grado di contenere quel corpo ibrido dotato di una forza spaventosa. Lo tenevano in una gabbia con sbarre spesse quanto il bicipite di un guerriero, alle quali si aggrappava per scuotere la sua prigione e reclamare sempre più cibo.
Lo immaginò dall’altro lato, all’interno del Labirinto, con gli occhi feroci iniettati di sangue come alla sua nascita. Un verso animalesco e sofferente si abbatté contro la superficie spessa del portone: si allontanò di scatto, come se il Minotauro potesse trovare la strada d’uscita e abbattere con un colpo di corna le pesanti ante.
Ma forse non desidera fuggire, forse accetta il suo destino e il ruolo scelto dagli Dei. Quale che sia, quando sarò re lo capirò.
Batté piano il pugno sulla testa del toro in rilievo. Colpì altre due volte la superficie liscia, con maggior convinzione.
Lo prometto.
***
Rivoli di sudore si univano all’olio di cui Androgeo si era cosparso il corpo. Il sole del pomeriggio non accennava a voler diminuire di intensità e rendeva gli atleti simili a statue di cera in procinto di sciogliersi. Tanto meglio, perché il giorno seguente la presa dei suoi sfidanti sarebbe stata meno efficace nella lotta; il problema dell’afa estiva non prometteva nulla di buono per lo svolgersi di quel primo giorno si giochi.
Prese le fasce che gli porgeva lo schiavo di suo padre e le avvolse con attenzione intorno alle nocche, passando attorno ai polsi e stringendo infine sugli avambracci. Aprì e chiuse le mani per testare la flessibilità del cuoio. Annuì, fece un passo avanti e sciolse le gambe rigide: la fascia di lana attorno alla vita gli sfregava sui genitali accaldati.
Gli spettatori circondavano lui e il suo avversario, formando un’area all’interno della quale avrebbero combattuto.
Stando a quel che gli aveva detto lo schiavo il suo avversario era Clito, uno dei cinquanta figli di Pallante, nonché fratello del re. Un ateniese borioso con diritti al trono che lo guardava con scherno dall’altro lato del cerchio: alto e massiccio, fletteva i muscoli delle braccia per dar prova della propria prestanza. Le vene erano in rilievo sul corpo glabro. L’idea che esistessero altri quarantanove fratelli nerboruti senza che si fossero ammazzati a vicenda gli parve paradossale.
Androgeo allungò in avanti il piede sinistro e la terra calda gli si infilò tra le dita. Alzò le mani davanti al volto, il braccio sinistro di poco disteso in direzione dello sfidante.
«Che il combattimento inizi!», urlò un membro della giuria.
L’avversario gli si gettò addosso, proiettando un colpo di destro con tutto il peso del suo corpo. Androgeo fece appena in tempo a chiudere la guardia e il colpo, secco e potente, gli si abbatté sul dorso delle mani. Digrignò i denti per il dolore. Sfruttò la distanza ravvicinata e replicò con un montante rapido che si infilò nella guardia aperta di Clito: gli colpì la mascella e assestò un fulmineo sinistro per prendere le distanze dalla sua mole. Il Pallantide si portò una mano al volto e sputò un grumo di sangue per terra; gli spettatori dimenavano le braccia e urlavano, ma le orecchie ovattate impedivano ad Androgeo di capire le loro parole. Irrilevante, visto che nessuno avrebbe tifato per uno straniero.
I polsi gli dolevano già per il pugno parato. Le fasciature non erano riuscite ad attutire del tutto il diretto dello sfidante, la cui forza fisica era il principale pericolo. Androgeo era più veloce.
Clito tornò alla carica, l’espressione sfigurata dallo sforzo. Il suo montante destro giunse lento e Androgeo lo schivò abbassandosi e spostando il corpo a sinistra. Fece perno sul piede dietro e allungò il corpo in un diretto, ma l’ateniese alzò le braccia a coprire il volto.
Si studiarono cauti, girando in tondo e molleggiando sulle gambe. L’aria calda e il sudore rendevano meno fluidi i movimenti. Ancora una volta il suo avversario si protese per colpirlo: sinistro, destro, sinistro, gancio. Androgeo si difese con gli avambracci e schivò l’ultimo pugno abbassandosi. Giunse l’ennesimo diretto di Clito, parato con un movimento della mano destra e seguito da una scivolata per allontanarsi da quel corpo massiccio. Il montante colpì il figlio di Pallante dritto nello stomaco. Un grugnito di dolore sommesso e cadde in ginocchio, le mani premute sul ventre.
Androgeo si protese su di lui e gli centrò il naso con un destro. Suono di ossa che scricchiolano: Clito sbatté la testa sulla terra dura, il naso rotto e rosso. Urla estasiate provennero dagli spettatori. Clito artigliò il terreno con le dita nel tentativo di rialzarsi e riuscì a puntellarsi sui gomiti per guardarlo in faccia. Il sangue gli colava su labbra e mento, coprendo con una maschera da guerra l’espressione di disprezzo.
Il secondo pugno di Androgeo lo rispedì sdraiato con un’esclamazione di dolore. L’indice dell’ateniese si alzò tremolante verso il cielo e la folla proruppe in fischi e grida.
***
I cavalli erano stremati, il manto scuro si tendeva rapido sui respiri affannati. Androgeo diede un’ultima pacca agli animali e scese dal carro alzando un misto di polvere e terra; allungò le redini a uno schiavo e si avvicinò al premio della sua vittoria: centocinquanta anfore ricolme di olio di oliva ordinate accanto alla linea di arrivo, troppe per essere disposte su un tavolo. Si concesse un sorriso al pensiero di caricare sulla nave tutti quei vasi, insieme alle decorazioni in oro e ai pregiati scudi vinti i giorni precedenti.
Aveva reso onore a Creta, a suo padre e alla dea, quella figura altera posta a decorazione delle sue nuove anfore. L’acropoli di Atene svettava sullo sfondo di un cielo blu scuro, pronta a essere raggiunta alla conclusione dei giochi: Androgeo avrebbe guidato il corteo sul carro destinato ai vincitori per portare in vetta il peplo sacro destinato ad Atena. Gonfiò il petto e accarezzò con dolcezza una delle anfore. Lui, il vincitore di tutte le prove aperte agli stranieri, affiancato da qualche altro diffidente ateniese: se ne avesse avuta la possibilità, senza dubbio sarebbero riuscito ad avere la meglio anche nelle prove a loro riservate.
Non aspettava altro che rifocillarsi a dovere al sacrificio dei cento buoi. Prima di addentare le vittime sacrificali, avrebbe onorato ancora una volta il potere di Pallade che gli aveva concesso così tanta gloria.
Corrugò la fronte. I suoi festeggiamenti tardavano arrivare. Il carro era sparito, portato via dallo schiavo; volti astiosi lo fissavano con malcelata soddisfazione.
Il colpo sulla nuca lo fece crollare a terra, la faccia sul terreno sabbioso. Aprì e chiuse la bocca, sulla lingua un sapore ferroso. Una presa salda lo girò supino: socchiuse gli occhi e distinse a stento un corpo che lo sovrastava nel buio; nella mano destra qualcosa di grosso e irregolare.
«La ripugnante prole di Pasifae non avrà nessuno dei premi che spettano a uomini più degni.»
Altre figure affiancarono l’aggressore e coprirono ogni porzione del cielo. Ateniesi, i Pallanti, armati di enormi pietre. Uno di loro gli abbatté un colpo in fronte: Androgeo urlò, un dolore lancinante gli si irradiò dalle tempie. Niente più volti davanti a sé, solo sagome scure a incombere come presagi. Una di queste gli parve Atena, armata di tutto punto ma non intenzionata a difenderlo; vide Minosse, seduto immobile sul suo scranno dorato; infine il Minotauro, l’unico che danzasse insieme alle pulsazioni della sua testa. Quelle movenze gli ricordarono la danza delle gru in cui erano solite esibirsi le sue sorelle, Arianna e Fedra. La testa taurina ondeggiava al ritmo dei passi e la bocca si spalancava lenta.
Ma certo, un sacrificio.
Androgeo spalancò gli occhi sulla volta celeste. Le stelle si mossero a formare una promessa firmata sul blu della notte: cento buoi che non avrebbe potuto consacrare alla dea, cento giovani che sarebbero stati sacrificati in suo nome. Ci avrebbe pensato Asteriore.