Argento
Inviato: mercoledì 15 luglio 2020, 23:57
Prologo
Il sole mi abbacina tra le foglie del vitigno.
Punto il tallone destro sul terreno e spingo. La mia schiena striscia sul palo; salgo di qualche centimetro, guadagno un po’ d’ombra.
Ho caldo. Respiro a fatica. Devo aprire la divisa. Uno, due… al terzo bottone mi arrendo: la mano trema troppo.
La gola è asciutta, mi fa male persino a deglutire: sembra di ingoiare sabbia ferrosa. Se potessi raggiungere quei grappoli piccoli e verdi, potrei spremerli. Allungo il braccio. Troppo lontani. Sul loro profilo si delineano piccole onde di luce dorata. Presto il sole riprenderà a tormentarmi. Anche lui mi da la caccia.
Fiuto l’aria: odora di sangue.
Chiudo gli occhi. Sotto il mio palmo sento la carezza ruvida della terra.
I ricordi mi assalgono.
Berlino, 1936
L’aria è densa di silenzio. L’americano ha balzato: vola! Pianta le gambe d’ebano nella sabbia e fa una mezza capriola in avanti.
Il giudice alza la bandiera bianca. Valido.
Le urla della folla scuotono lo stadio. Che impeto! Per un istante, temo che lo possano sradicare.
Riprendo a respirare e mi unisco all’applauso per il mio avversario.
Viene verso di me.
Gli sorrido. Mi piace parlare inglese, ma è anche lui a ispirarmi simpatia. “Era facile per te, visto? Un semplice salto di qualificazione.”
“Ma non l’avrei passata senza il tuo suggerimento. Grazie.”
Mi tende la mano.
Gliela prendo: la mia sta tremando, per la tensione.
O perché su di noi c’è lo sguardo dei gerarchi?
Mi schiarisco la gola. “Ci vediamo in finale…”
“Jesse. Anche se il mio vero nome sarebbe James.”
“Carl Ludwig Herman. Chiamami Luz.”
Amburgo, 1942
Hans si tiene le ginocchia con le mani paffute, piegato su se stesso alla ricerca di fiato. Una goccia di sudore gli scende dalla guancia avvampata e sparisce nella pappagorgia.
È già troppo grasso, considerata la sua età. Ma se saprò motivarlo, rimedieremo.
Gli metto una mano sulla spalla. “Grazie di avermi accompagnato.”
Boccheggia un “prego”. Mi scruta da sotto le palpebre semichiuse. Le sgrana. Avrà notato che non ho neppure il fiato grosso.
“Sii tenace: tra qualche giorno questa corsetta ti sembrerà facile.”
Abbozza un sorriso.
“Allora ti assegnerò un percorso più impegnativo.”
Il sorriso si spegne.
“Coraggio, Hans. Presto sarai al passo con gli altri della squadra.”
Inspira e si tira su. “Grazie, si-signore.” Tende il braccio: “Heil Hitler!”
“Heil Hitler.”
Sorrido: allenare la Libera Gioventù Tedesca mi dà soddisfazione, devo ammetterlo.
Gli volto le spalle e raggiungo il portone di casa. Dallo stomaco mi sale un languore: chissà cosa ha preparato Gis-”
“Mi-mister Long!”
Che vuole ancora Hans? E perché mi parla in inglese?
Se ne sta impalato, il mento paffuto gli trema. “Lei... è un vero campione. Io la ammiro. Profondamente.”
Capisco cosa vuoi dirmi, Hans.
Nei paraggi non c’è nessuno: sull’altro lato della strada, un signore ben vestito legge il giornale. Un cavallo passa tra noi, lento; tira un carro pieno di sacchi di tela.
Raggiungo Hans con due falcate.
Mi chino verso di lui. “Grazie” sussurro. “Ma nel tuo interesse, non devi farne parola. Siamo intesi?”
Nel soggiorno Gisele mi da le spalle, incurante degli strilli di Kai in camera da letto.
“Perché piange?” chiedo. “Ha fame?”
Le giro attorno. Gisele abbassa il capo, e una lacrima le cade sul documento che ha tra le mani.
Me lo porge. Un tremito le scuote le braccia sottili.
Una cartolina di precetto.
Devo presentarmi all’ufficio di reclutamento. Domani.
Gisele manda un lungo sospiro. “Alla fine, te l’hanno fatta pagare…”
Berlino, 1936
Il corridoio degli spogliatoi ci inghiotte, ma l’ovazione del pubblico ancora rimbomba alle nostre spalle, e non accenna a calare. Solo, è più ovattata, via via che avanziamo, tutti e quattro. Maffei si volta e ci lancia un’occhiata stranita da sopra le spalle; cerca lo sguardo di Tajima, ma il giapponese è imperturbabile. Io e Jesse siamo ancora abbracciati, così stretti che le nostre medaglie cozzano una contro l’altra. C’è una nota allegra nel tintinnio di oro e argento.
Jesse finge di strapparmi la mia. “Dai qua! Non vorrei rovinartela!”
“Guarda che è la tua, quella più preziosa!”
Ridiamo. È stato un grande giorno per lo sport. Jesse ha infranto i record; e lo spirito che ora c’è tra noi incarna il meglio dell’uomo.
Jesse rafforza la stretta sulla mia spalla. “Luz… aldilà di quello che faranno le nostre nazioni… mi piacerebbe che la nostra amicizia continuasse.”
Stringo più forte, a mia volta. “Contaci!”
Giriamo un angolo: dall’altra parte del corridoio ci viene incontro un drappello in divisa militare. Due ufficiali SS. Dietro di loro giacche kaki: al braccio sinistro fasce rosse con la svastica.
Non saranno…
Il capannello si apre.
Il Führer guarda me, Jesse. Rallenta appena. Alza il braccio teso nel saluto nazionalsocialista.
Ci sciogliamo dall’abbraccio: mi fermo e rispondo.
Jesse gli va incontro e gli porge la mano. Ma che fai, pazzo!
Il Führer corruga la fronte. Ruota il polso per stringergli la mano, ma Jesse si impettisce in un saluto militare: deve aver capito. Le mani non si incontrano, Hitler fa un cenno rigido col capo, il drappello è già oltre.
Recupero il respiro.
Alle nostre spalle, i passi si fermano.
Un uomo sta confabulando con Hitler.
Poche parole sussurrate: il Führer annuisce, e riparte, seguito dal codazzo degli altri.
Solo il suo interlocutore è rimasto fermo nel corridoio. Si gira verso di noi.
Rudolph Hess. Il Vice di Hitler.
“Signor Long. Permette una parola in privato?”
Hess appoggia la schiena alla parete del corridoio. In mano ha un portasigarette d’oro decorato da una svastica. Lo apre e mi offre una sigaretta.
Ho paura a opporre un diniego. Scuoto appena la testa.
Sul suo mento squadrato guizza un sorrisetto. “Immaginavo, ma volevo comunque mostrarglielo. È un dono del Führer. E senza offesa, è di un metallo più nobile di quello che lei porta al collo.”
Resta calmo Luz, umile.
“Mi spiace se ho deluso le aspettative del popolo tedesco, Vice Führer...”
Agita la mano. “I negri sono selvaggi, la loro forza muscolare è ineguagliabile anche per la razza ariana… che lei rappresenta. Suggerendogli come passare la qualificazione, gli ha permesso di arrivare alla finale.”
Si mette la sigaretta in bocca.
“Il che dimostra che sono mentalmente inferiori... “ Fruga nella tasca della divisa. “Ricorda cosa altro è stato detto? Mi aiuti, la prego.”
“Che…” Ingoio saliva che non ho. “Che gli americani dovrebbero vergognarsi di lasciare che siano i negri a vincere le medaglie per loro.”
Quelle parole mi escono a fatica. Spero che Jesse non possa sentirmi.
I piccoli occhi di Hess si strizzano di gusto. “Giusto. Tanto vale che la prossima volta facciano gareggiare dei cavalli, dico bene?”
Non muovo un muscolo.
Hess smette di tormentare la tasca della divisa e prende tra le dita la sigaretta spenta. Me la punta addosso come la canna di una pistola. “Signor Long. Se teme che la paternale che le ho fatto a bordo pista compaia nel film celebrativo, la posso rassicurare: sarà tagliata.”
Una sfuriata. Per aver abbracciato Jesse dopo la sua vittoria…
Hess spezza la sigaretta tra le dita. “Come le sue pubbliche effusioni con il negro. Ma glielo ripeto: che non accada più.”
Scaglia i due tronconi sulla mia medaglia d’argento. Mi cadono sulle scarpe, le sporcano di tabacco.
“Oggi ha già umiliato a sufficienza la Grande Germania.”
Amburgo, 1943
Mi inginocchio e spalanco le braccia. Kai sorride e trotterella verso di me. Gli metto le mani sotto le ascelle e lo sollevo sopra la mia testa: grida deliziato.
Non basterà. Non si ricorderà di me solo per gesti come questo. Ci sarebbe voluto più tempo, ma non ve n’è più.
Gisele mi sistema la divisa. Dà un’ultima passata sulla mostrina da caporale col fazzoletto bianco e umido. I suoi occhi arrossati fuggono i miei. Ogni parola è stata spesa, ogni lacrima versata. Kai gioca col mio orecchio. La cingo con il braccio libero e respiro il profumo dei suoi capelli. Le faccio scivolare Kai in braccio, come se così facendo potessi ingannare me e lui.
Mi fermo sulla porta di casa.
Kai protende le manine verso di me. Gisele si carezza il ventre.
Lo so da pochi giorni, e già mi sembra tanto. Mi riaffiorano alla mente le sue parole.
Se sarà una femmina, la chiamerò Gerta. In onore di Gerda Taro.
Darle il nome di una rivoluzionaria non è prudente, ma resterà il nostro piccolo segreto.
Chiudo la porta di casa e corro via, lungo la strada.
Campagne di Caltagirone, Sicilia, 1943
Zingsheim si siede sulla postazione di tiro. Fa girare la manovella, il cannone del Flak punta in alto. La volta celeste è bellissima. Qui, vicino all’Africa, le stelle brillano come diamanti.
“E infine il Führer, nella sua magnanimità, assegna il caporale Luz Long alla gloriosa Divisione Hermann Göring, affinché possa ritrovare il suo amico negro, quando sbarcherà qui. Ti senti emozionato, Luz?”
Và al diavolo. “Da quanto ne so, non è neppure arruolato.”
“Ah sì? Beh, si vede che lui conta qualcosa per il suo paese.”
“Ma piantala”. Robert Stadler raccoglie una pietruzza e la lancia ad arco sulla testa di Zingsheim. Rimbalza invece sul Flak, che si lamenta con un clangore.
“Purtroppo ti sbagli” dico.
Si voltano a guardarmi. Bene, mi piace parlare di Jesse, voglio che si sappia cosa ha passato.
“A New York ha presenziato a una grande parata. E gli hanno dato una camera in un hotel di lusso, ma è dovuto entrare dalla porta posteriore… l’ingresso centrale era solo per i bianchi.”
Zingsheim alza le spalle. “Che c’è di strano?”
“Ipocriti” borbotta Robert. “Noi non festeggeremmo un ebreo.”
“Il Presidente degli Stati Uniti doveva riceverlo, ma ha annullato l’incontro per non onorare il figlio di uno schiavo: temeva di perdere voti.”
“Perché sono uno stato debole.” Robert si passa il pollice sulla lingua e lucida l’aquila sulla divisa. “Da noi il Führer può dire le cose giuste senza preoccuparsi di quel che pensano i borghesi.”
Jesse si è ritrovato a correre contro cani, cavalli e biciclette, per racimolare un po’ di denaro, poveretto. Ma questo non lo dirò. Non capirebbero. Meglio chiudere il discorso.
“Non si tratta così un campione.”
Zingsheim ridacchia: “Almeno il negro ha vinto la medaglia d’oro. Se no, sarebbe anche lui in prima linea.”
Si sporge verso di me: “Ci hai mai pensato, Lutz? Se solo ti fossi fatto i cazzi tuoi, avresti la medaglia d’oro, saresti un eroe nazionale. Non ti avrebbero sbattuto nel buco del culo del mediterraneo. Ora saresti con tua moglie e...”
Robert Stadler si avvicina a Zingsheim. Pianta lo stivale sulla ruota del Flak: la gomma scricchiola.
“Parli troppo.”
“Ehi, guarda che il nostro quasi-campione è dottore in legge, sa difendersi da solo.”
Lei ha già umiliato a sufficienza la Grande Germania.
Raccolgo una manciata di terra. Chissà se domani sarà rossa di sangue.
Il sangue di chi, poi?
“Qui non c’è legge dell’uomo” mormoro.
Zingsheim posa la mano sul cannone, lo accarezza come se fosse un gatto. “Questa è la legge. Sono curioso di vedere i loro negri contro i nostri italiani.”
Robert sputa a terra. “A me non piacciono. Gli italiani, dico. Sono inaffidabili.”
Un rumore di stivali: lo conosciamo tutti, quel passo rapido e secco.
“Questo vale per la maggior parte dei loro comandanti.” Il capitano Hartmann compare alle spalle di Zingsheim, le mani dietro la schiena. “In Africa i loro soldati hanno dato buone prove di coraggio. Voi, piuttosto: conservate la vostra combattività per qualcosa di utile.”
“Sissignor-”
“Alle vostre tende.” Mi indica col mento affilato. “Tu no, Long.”
Wolfgang Hartmann. Lo stesso nome del nostro secondo figlio, che non ho ancora visto.
Non riesco a figurarmelo. Kai invece non potrà ricordarsi di suo padre, non l’ha vissuto abbastanza.
“Caporale.”
Hartmann mi sta fissando.
“Signore?”
“Mi è stato riferito che pronunci frasi disfattiste.”
Cosa? Le membra mi si irrigidiscono.
“N-negativo, signore... Non capisco.”
“La conquista è inutile. Qualcosa del genere.”
Espiro. E io che avevo pensato chissà cosa. Scommetto che è stato Zingsheim, ma me ne occuperò dopo. Vorrei sciogliere la tensione in una risata.
Meglio di no.
“È solo un motto sportivo, signore. Nella vita l’essenziale non è conquistare, ma a-”
“Già inizia male, Long. Non possiamo permetterci queste cose, in questa fase della guerra.”
Mi si avvicina, protende il collo.
“Lo sbarco alleato è previsto per domattina” dice, a bassa voce. “Cercheranno di prendere questo aeroporto, e noi glielo impediremo.”
Kai… Gisele. Mi sento una pietra nel petto.
***
Sferzate di dolore mi salgono dalla gamba.
Respira, respira. Come sulla pista...
Robert Stadler spazza via le mie mani lorde di sangue, mi fa passare la cinghia sulla coscia e stringe.
Le raffiche di mitra sono cessate. L’aria torrida è pregna dell’odore acre della polvere da sparo, ruota in mulinelli di terra sabbiosa. Non si vede niente.
BOM! Scoppia una granata. Schegge ticchettano sullo scudo del Flak.
“Sono troppi! Siamo fottuti!”
È la voce di Zingsheim. Striscia a terra, fuori dalla cortina polverosa. Pare illeso. Sulla sua faccia sporca, gli occhi sgranati sembrano due palle d’avorio.
“Calmati...” Non ho fiato per aggiungere altro.
“Tu sei fottuto più di tutti, Long.” Ride. Ha perso il senno. “Non c’è gloria per i perd-”
BOM!
Sputa sangue e si accascia. Il suo orecchio destro è un grumo rosso da cui spunta un frammento di metallo lungo un dito. La mano protesa gli si contrae in piccoli scatti.
La polvere si è diradata. Zing ha smesso di muoversi.
Aveva ragione, maledetto diavolo. Non ho avuto onore in patria, né me lo concederanno i vincitori, per via di quella Svastica che avevo nel petto quando correvo.
Mi aspetta l’oblio.
Ma che scelta ho, ormai?
Allungo la mano verso Stadler. “Robert… rimettimi su.”
Mi guarda, con la bocca spalancata. Annuisce. Mi cinge con un braccio e mi solleva. La gamba sinistra mi urta contro la ruota del Flak.
Signore, che dolore! Mi sfugge un gemito.
“Stadler!” Il capitano Hartmann ci corre incontro, la testa bassa. Un filo di sangue gli cola da uno zigomo. Si butta a sedere sulla postazione di tiro, al mio posto. “Portalo via!”
Robert grugnisce. Mi posa sulla gamba buona e mi riprende in spalla come un agnellino.
Il Capitano chiude un occhio, scruta nel cilindro del puntatore. Posa lo stivale sul pedale di sparo.
“Long! Come finiva il motto di quel francese? Nella vita l’essenziale non è conquistare, ma…?”
Robert inizia a correre, io gli ballonzolo in spalla: la gamba mi manda fitte di dolore. “Aver combattuto bene!” grido.
Gli occhi mi pizzicano: ma credo di aver visto Wolfgang Hartmann, Capitano della divisione Göring, sorridere.
Il vento che porta con sé l’odore del mare, ma non attenua la calura. I passi di Robert rallentano. Attorno a noi è un frinire di cicale… diventa più forte, poi si interrompe.
“Luz, devo metterti giù” ansima. “Solo per un po’...”
Sposta il suo peso, scivolo su un fianco, tra le sue braccia. Mi posa seduto contro qualcosa di rigido… sembra un palo.
“È meglio se tieni la testa su…” dice.
Apro gli occhi. Siamo in un campo, tra filari di viti.
Ovattato, arriva un crepitio di spari. Distinguo quello sordo del Flak. Non siamo così distanti come pensavo.
Ricomincia il frinire delle cicale. Insistente, copre i rumori più lontani. Si devono essere abituate a noi.
Tacciono di colpo.
Stadler mette mano alla fondina.
“Camerati!” sussurra una voce rotta, alla mia destra.
Una sagoma umana. Socchiudo le palpebre, metto a fuoco.
Un uomo in mutande. Si getta carponi davanti a noi e ci fissa, stravolto. I ricci neri sono impiastricciati di terra e sudore. Il volto è stravolto, sporco. Puzza di urina.
Parla in frasi sconnesse.
Stadler sputa per terra. “Non capiamo l’italiano, idiota!”
Inspiro. Le fitte di dolore tornano a farsi sentire. Non forti quanto prima.
“Parli inglese?”
Fa sì con la testa. “Un po’...”
“Cosa… Cosa è successo?”
“Noi...Noi…“ Rotea gli occhi, incerto. Fa il cenno di sventolare qualcosa, alza le braccia e incrocia le dita sopra la testa. “Capire?"
“Che diavolo dice” sbotta Robert.
“Che si sono arresi.”
“Bah! Strano!”
“Ma Americani...” Trema. “Americani uccidere tutti. Solo io scappa…”
Si rimette in piedi. “Americani viene qui. Scappare paese…” Si blocca. Alza le mani lerce di terra.
Stadler gli sta puntando contro la P38. Ansima, è paonazzo e madido di sudore.
“Luz, digli che ti prenda in spalla!”
Lla campagna è silenziosa. Anche il Flak non si sente più.
“Americani vicini” piagnucola l’italiano.
Guardo Robert. La sua giacca è fradicia di sangue. Il mio.
Devo dirglielo.
“Robert, andrai con lui.”
“Andremo, Luz.”
Riempio i polmoni d’aria. La tengo dentro di me.
Gisele, Kai, vi voglio bene.
E a te Wolfgang, anche se non ti ho mai conosciuto.
Scuoto la testa. “Non… posso farcela.” Indico la mia gamba. “Ho bisogno di cure, ora.”
Robert sbatte le palpebre. Impiega un istante per realizzare. “Vuoi farti prendere prigioniero...”
Scruta me, l’italiano. La mia gamba.
“Non ti lascio senza fasciarti. Digli che non si azzardi a scappare.”
Rinfodera.
Il vento ha cambiato direzione. Assieme al puzzo della polvere da sparo porta della grida, ordini urlati. Si avvicinano.
Robert dà uno strattone alla fasciatura.
“Fa male?”
“D’inferno” mento.
“Buon segno.”
Si alza in piedi e fa un cenno al ragazzo, che saltella via sui piedi nudi. Robert si volta a guardarmi.
“Abbiamo combattuto bene, Luz?”
Sorrido. “La nostra patria è orgogliosa di noi.”
Epilogo
Il sole spunta tra le foglie di vite e mi trafigge gli occhi. Ancora.
Ma adesso non scotta più. Anzi, ho freddo.
Chiudo le palpebre.
Le grida degli alleati sembrano vicine; no, lontane. Non lo so.
Freddo.
“Luz.”
Apro gli occhi. Il sole è sempre sopra di me, ma riesco a fissarlo senza che mi accechi. Il vitigno non c’è più. Sono a sedere su un campo di terra battuta.
Mi guardo attorno. Lo stadio è enorme, al punto che non riesco a scorgerne l’estremità più lontana: svanisce in una foschia, dorata da una luce che pulsa al suo interno.
Le tribune sono gremite. Le persone siedono in un colorato disordine di abiti e etnie. Non vedo bandiere.
Nessun altro sta gareggiando.
Una figura si china su di me, oscura il sole.
“Tocca a te, Luz.”
Jesse!
“A… a me?”
“Certo, l’ultimo salto è il tuo, fratello. Non puoi tirarti indietro.”
“Ma io…” Guardo la gamba. È sana.
Mi tiro su, saltello. Nessun dolore.
Jesse mi scruta. “Ti senti bene?”
“Credo… di aver avuto uno svenimento. Ma sì, è tutto a posto.”
Ci penserò poi. Ora devo saltare… e prima, recuperare la concentrazione, in fretta. Dov'è la pista?
Jesse mi fa cenno di seguirlo. Se ha capito la mia confusione, la vedrà anche il pubblico.
Datti un contegno, Luz Long.
Mi impettisco, lo seguo. Va verso la foschia luminosa, che inizia subito dopo la linea del salto. Ora noto la pista, è proprio sotto i nostri piedi.
“Ma…”
Non puoi tirarti indietro.
Solo ora realizzo che ci siamo parlati in tedesco. Credo che dovrei sentirmi raggelare, ma no… mi sento bene.
“Tu non sei Jesse, è così?”
Mi sorride. “Ha importanza? Vedila così, Luz: per me questo è un sogno, ma me lo ricorderò. Per cui, se posso fare qualcosa per te, chiedi pure.”
“I miei figli non mi hanno mai conosciuto veramente. Vorrei che gli raccontassi della nostra amicizia.”
Alza il pollice. “Non dovrei dirtelo ma… Kai mi vorrà come testimone alle sue nozze.”
Mi si inumidiscono gli occhi.
Jesse arretra. “È il momento, fratello. Ed è tutto tuo, come questa pista.”
Misuro i passi. La luce pulsa più forte. Ai suoi bordi, piccole saette argentee si fondono col nucleo d’oro.
Gli spalti fremono. La gente si è alzata in piedi.
“Niente salti di prova” dice Jesse, alle mie spalle. “Come piace a voi europei. E uno solo.”
“E se non mi qualifico?”
Una risata argentina. “Ti sei già qualificato.”
Cosa ci sarà oltre quella linea? Potrei chiederlo, ma ho un modo migliore per scoprirlo. Un modo che conosco bene.
Mi raccolgo per la rincorsa.
Un applauso scuote lo stadio in un crescendo. Tutto l’opposto a come mi aspettavo, a come ero abituato. Mani e bocche di tutti i colori mi incitano. Ritmi e lingue diverse, in un’armonia grandiosa.
Scatto. Corro verso la luce, l’ultimo passo sulla linea.
Spalanco le braccia.
Salto.
Tutte le nazioni del mondo hanno i propri eroi, i semiti così come gli ariani. E ognuna di loro dovrebbe abbandonare l’arroganza di sentirsi una razza superiore.
Luz Long
Il sole mi abbacina tra le foglie del vitigno.
Punto il tallone destro sul terreno e spingo. La mia schiena striscia sul palo; salgo di qualche centimetro, guadagno un po’ d’ombra.
Ho caldo. Respiro a fatica. Devo aprire la divisa. Uno, due… al terzo bottone mi arrendo: la mano trema troppo.
La gola è asciutta, mi fa male persino a deglutire: sembra di ingoiare sabbia ferrosa. Se potessi raggiungere quei grappoli piccoli e verdi, potrei spremerli. Allungo il braccio. Troppo lontani. Sul loro profilo si delineano piccole onde di luce dorata. Presto il sole riprenderà a tormentarmi. Anche lui mi da la caccia.
Fiuto l’aria: odora di sangue.
Chiudo gli occhi. Sotto il mio palmo sento la carezza ruvida della terra.
I ricordi mi assalgono.
Berlino, 1936
L’aria è densa di silenzio. L’americano ha balzato: vola! Pianta le gambe d’ebano nella sabbia e fa una mezza capriola in avanti.
Il giudice alza la bandiera bianca. Valido.
Le urla della folla scuotono lo stadio. Che impeto! Per un istante, temo che lo possano sradicare.
Riprendo a respirare e mi unisco all’applauso per il mio avversario.
Viene verso di me.
Gli sorrido. Mi piace parlare inglese, ma è anche lui a ispirarmi simpatia. “Era facile per te, visto? Un semplice salto di qualificazione.”
“Ma non l’avrei passata senza il tuo suggerimento. Grazie.”
Mi tende la mano.
Gliela prendo: la mia sta tremando, per la tensione.
O perché su di noi c’è lo sguardo dei gerarchi?
Mi schiarisco la gola. “Ci vediamo in finale…”
“Jesse. Anche se il mio vero nome sarebbe James.”
“Carl Ludwig Herman. Chiamami Luz.”
Amburgo, 1942
Hans si tiene le ginocchia con le mani paffute, piegato su se stesso alla ricerca di fiato. Una goccia di sudore gli scende dalla guancia avvampata e sparisce nella pappagorgia.
È già troppo grasso, considerata la sua età. Ma se saprò motivarlo, rimedieremo.
Gli metto una mano sulla spalla. “Grazie di avermi accompagnato.”
Boccheggia un “prego”. Mi scruta da sotto le palpebre semichiuse. Le sgrana. Avrà notato che non ho neppure il fiato grosso.
“Sii tenace: tra qualche giorno questa corsetta ti sembrerà facile.”
Abbozza un sorriso.
“Allora ti assegnerò un percorso più impegnativo.”
Il sorriso si spegne.
“Coraggio, Hans. Presto sarai al passo con gli altri della squadra.”
Inspira e si tira su. “Grazie, si-signore.” Tende il braccio: “Heil Hitler!”
“Heil Hitler.”
Sorrido: allenare la Libera Gioventù Tedesca mi dà soddisfazione, devo ammetterlo.
Gli volto le spalle e raggiungo il portone di casa. Dallo stomaco mi sale un languore: chissà cosa ha preparato Gis-”
“Mi-mister Long!”
Che vuole ancora Hans? E perché mi parla in inglese?
Se ne sta impalato, il mento paffuto gli trema. “Lei... è un vero campione. Io la ammiro. Profondamente.”
Capisco cosa vuoi dirmi, Hans.
Nei paraggi non c’è nessuno: sull’altro lato della strada, un signore ben vestito legge il giornale. Un cavallo passa tra noi, lento; tira un carro pieno di sacchi di tela.
Raggiungo Hans con due falcate.
Mi chino verso di lui. “Grazie” sussurro. “Ma nel tuo interesse, non devi farne parola. Siamo intesi?”
Nel soggiorno Gisele mi da le spalle, incurante degli strilli di Kai in camera da letto.
“Perché piange?” chiedo. “Ha fame?”
Le giro attorno. Gisele abbassa il capo, e una lacrima le cade sul documento che ha tra le mani.
Me lo porge. Un tremito le scuote le braccia sottili.
Una cartolina di precetto.
Devo presentarmi all’ufficio di reclutamento. Domani.
Gisele manda un lungo sospiro. “Alla fine, te l’hanno fatta pagare…”
Berlino, 1936
Il corridoio degli spogliatoi ci inghiotte, ma l’ovazione del pubblico ancora rimbomba alle nostre spalle, e non accenna a calare. Solo, è più ovattata, via via che avanziamo, tutti e quattro. Maffei si volta e ci lancia un’occhiata stranita da sopra le spalle; cerca lo sguardo di Tajima, ma il giapponese è imperturbabile. Io e Jesse siamo ancora abbracciati, così stretti che le nostre medaglie cozzano una contro l’altra. C’è una nota allegra nel tintinnio di oro e argento.
Jesse finge di strapparmi la mia. “Dai qua! Non vorrei rovinartela!”
“Guarda che è la tua, quella più preziosa!”
Ridiamo. È stato un grande giorno per lo sport. Jesse ha infranto i record; e lo spirito che ora c’è tra noi incarna il meglio dell’uomo.
Jesse rafforza la stretta sulla mia spalla. “Luz… aldilà di quello che faranno le nostre nazioni… mi piacerebbe che la nostra amicizia continuasse.”
Stringo più forte, a mia volta. “Contaci!”
Giriamo un angolo: dall’altra parte del corridoio ci viene incontro un drappello in divisa militare. Due ufficiali SS. Dietro di loro giacche kaki: al braccio sinistro fasce rosse con la svastica.
Non saranno…
Il capannello si apre.
Il Führer guarda me, Jesse. Rallenta appena. Alza il braccio teso nel saluto nazionalsocialista.
Ci sciogliamo dall’abbraccio: mi fermo e rispondo.
Jesse gli va incontro e gli porge la mano. Ma che fai, pazzo!
Il Führer corruga la fronte. Ruota il polso per stringergli la mano, ma Jesse si impettisce in un saluto militare: deve aver capito. Le mani non si incontrano, Hitler fa un cenno rigido col capo, il drappello è già oltre.
Recupero il respiro.
Alle nostre spalle, i passi si fermano.
Un uomo sta confabulando con Hitler.
Poche parole sussurrate: il Führer annuisce, e riparte, seguito dal codazzo degli altri.
Solo il suo interlocutore è rimasto fermo nel corridoio. Si gira verso di noi.
Rudolph Hess. Il Vice di Hitler.
“Signor Long. Permette una parola in privato?”
Hess appoggia la schiena alla parete del corridoio. In mano ha un portasigarette d’oro decorato da una svastica. Lo apre e mi offre una sigaretta.
Ho paura a opporre un diniego. Scuoto appena la testa.
Sul suo mento squadrato guizza un sorrisetto. “Immaginavo, ma volevo comunque mostrarglielo. È un dono del Führer. E senza offesa, è di un metallo più nobile di quello che lei porta al collo.”
Resta calmo Luz, umile.
“Mi spiace se ho deluso le aspettative del popolo tedesco, Vice Führer...”
Agita la mano. “I negri sono selvaggi, la loro forza muscolare è ineguagliabile anche per la razza ariana… che lei rappresenta. Suggerendogli come passare la qualificazione, gli ha permesso di arrivare alla finale.”
Si mette la sigaretta in bocca.
“Il che dimostra che sono mentalmente inferiori... “ Fruga nella tasca della divisa. “Ricorda cosa altro è stato detto? Mi aiuti, la prego.”
“Che…” Ingoio saliva che non ho. “Che gli americani dovrebbero vergognarsi di lasciare che siano i negri a vincere le medaglie per loro.”
Quelle parole mi escono a fatica. Spero che Jesse non possa sentirmi.
I piccoli occhi di Hess si strizzano di gusto. “Giusto. Tanto vale che la prossima volta facciano gareggiare dei cavalli, dico bene?”
Non muovo un muscolo.
Hess smette di tormentare la tasca della divisa e prende tra le dita la sigaretta spenta. Me la punta addosso come la canna di una pistola. “Signor Long. Se teme che la paternale che le ho fatto a bordo pista compaia nel film celebrativo, la posso rassicurare: sarà tagliata.”
Una sfuriata. Per aver abbracciato Jesse dopo la sua vittoria…
Hess spezza la sigaretta tra le dita. “Come le sue pubbliche effusioni con il negro. Ma glielo ripeto: che non accada più.”
Scaglia i due tronconi sulla mia medaglia d’argento. Mi cadono sulle scarpe, le sporcano di tabacco.
“Oggi ha già umiliato a sufficienza la Grande Germania.”
Amburgo, 1943
Mi inginocchio e spalanco le braccia. Kai sorride e trotterella verso di me. Gli metto le mani sotto le ascelle e lo sollevo sopra la mia testa: grida deliziato.
Non basterà. Non si ricorderà di me solo per gesti come questo. Ci sarebbe voluto più tempo, ma non ve n’è più.
Gisele mi sistema la divisa. Dà un’ultima passata sulla mostrina da caporale col fazzoletto bianco e umido. I suoi occhi arrossati fuggono i miei. Ogni parola è stata spesa, ogni lacrima versata. Kai gioca col mio orecchio. La cingo con il braccio libero e respiro il profumo dei suoi capelli. Le faccio scivolare Kai in braccio, come se così facendo potessi ingannare me e lui.
Mi fermo sulla porta di casa.
Kai protende le manine verso di me. Gisele si carezza il ventre.
Lo so da pochi giorni, e già mi sembra tanto. Mi riaffiorano alla mente le sue parole.
Se sarà una femmina, la chiamerò Gerta. In onore di Gerda Taro.
Darle il nome di una rivoluzionaria non è prudente, ma resterà il nostro piccolo segreto.
Chiudo la porta di casa e corro via, lungo la strada.
Campagne di Caltagirone, Sicilia, 1943
Zingsheim si siede sulla postazione di tiro. Fa girare la manovella, il cannone del Flak punta in alto. La volta celeste è bellissima. Qui, vicino all’Africa, le stelle brillano come diamanti.
“E infine il Führer, nella sua magnanimità, assegna il caporale Luz Long alla gloriosa Divisione Hermann Göring, affinché possa ritrovare il suo amico negro, quando sbarcherà qui. Ti senti emozionato, Luz?”
Và al diavolo. “Da quanto ne so, non è neppure arruolato.”
“Ah sì? Beh, si vede che lui conta qualcosa per il suo paese.”
“Ma piantala”. Robert Stadler raccoglie una pietruzza e la lancia ad arco sulla testa di Zingsheim. Rimbalza invece sul Flak, che si lamenta con un clangore.
“Purtroppo ti sbagli” dico.
Si voltano a guardarmi. Bene, mi piace parlare di Jesse, voglio che si sappia cosa ha passato.
“A New York ha presenziato a una grande parata. E gli hanno dato una camera in un hotel di lusso, ma è dovuto entrare dalla porta posteriore… l’ingresso centrale era solo per i bianchi.”
Zingsheim alza le spalle. “Che c’è di strano?”
“Ipocriti” borbotta Robert. “Noi non festeggeremmo un ebreo.”
“Il Presidente degli Stati Uniti doveva riceverlo, ma ha annullato l’incontro per non onorare il figlio di uno schiavo: temeva di perdere voti.”
“Perché sono uno stato debole.” Robert si passa il pollice sulla lingua e lucida l’aquila sulla divisa. “Da noi il Führer può dire le cose giuste senza preoccuparsi di quel che pensano i borghesi.”
Jesse si è ritrovato a correre contro cani, cavalli e biciclette, per racimolare un po’ di denaro, poveretto. Ma questo non lo dirò. Non capirebbero. Meglio chiudere il discorso.
“Non si tratta così un campione.”
Zingsheim ridacchia: “Almeno il negro ha vinto la medaglia d’oro. Se no, sarebbe anche lui in prima linea.”
Si sporge verso di me: “Ci hai mai pensato, Lutz? Se solo ti fossi fatto i cazzi tuoi, avresti la medaglia d’oro, saresti un eroe nazionale. Non ti avrebbero sbattuto nel buco del culo del mediterraneo. Ora saresti con tua moglie e...”
Robert Stadler si avvicina a Zingsheim. Pianta lo stivale sulla ruota del Flak: la gomma scricchiola.
“Parli troppo.”
“Ehi, guarda che il nostro quasi-campione è dottore in legge, sa difendersi da solo.”
Lei ha già umiliato a sufficienza la Grande Germania.
Raccolgo una manciata di terra. Chissà se domani sarà rossa di sangue.
Il sangue di chi, poi?
“Qui non c’è legge dell’uomo” mormoro.
Zingsheim posa la mano sul cannone, lo accarezza come se fosse un gatto. “Questa è la legge. Sono curioso di vedere i loro negri contro i nostri italiani.”
Robert sputa a terra. “A me non piacciono. Gli italiani, dico. Sono inaffidabili.”
Un rumore di stivali: lo conosciamo tutti, quel passo rapido e secco.
“Questo vale per la maggior parte dei loro comandanti.” Il capitano Hartmann compare alle spalle di Zingsheim, le mani dietro la schiena. “In Africa i loro soldati hanno dato buone prove di coraggio. Voi, piuttosto: conservate la vostra combattività per qualcosa di utile.”
“Sissignor-”
“Alle vostre tende.” Mi indica col mento affilato. “Tu no, Long.”
Wolfgang Hartmann. Lo stesso nome del nostro secondo figlio, che non ho ancora visto.
Non riesco a figurarmelo. Kai invece non potrà ricordarsi di suo padre, non l’ha vissuto abbastanza.
“Caporale.”
Hartmann mi sta fissando.
“Signore?”
“Mi è stato riferito che pronunci frasi disfattiste.”
Cosa? Le membra mi si irrigidiscono.
“N-negativo, signore... Non capisco.”
“La conquista è inutile. Qualcosa del genere.”
Espiro. E io che avevo pensato chissà cosa. Scommetto che è stato Zingsheim, ma me ne occuperò dopo. Vorrei sciogliere la tensione in una risata.
Meglio di no.
“È solo un motto sportivo, signore. Nella vita l’essenziale non è conquistare, ma a-”
“Già inizia male, Long. Non possiamo permetterci queste cose, in questa fase della guerra.”
Mi si avvicina, protende il collo.
“Lo sbarco alleato è previsto per domattina” dice, a bassa voce. “Cercheranno di prendere questo aeroporto, e noi glielo impediremo.”
Kai… Gisele. Mi sento una pietra nel petto.
***
Sferzate di dolore mi salgono dalla gamba.
Respira, respira. Come sulla pista...
Robert Stadler spazza via le mie mani lorde di sangue, mi fa passare la cinghia sulla coscia e stringe.
Le raffiche di mitra sono cessate. L’aria torrida è pregna dell’odore acre della polvere da sparo, ruota in mulinelli di terra sabbiosa. Non si vede niente.
BOM! Scoppia una granata. Schegge ticchettano sullo scudo del Flak.
“Sono troppi! Siamo fottuti!”
È la voce di Zingsheim. Striscia a terra, fuori dalla cortina polverosa. Pare illeso. Sulla sua faccia sporca, gli occhi sgranati sembrano due palle d’avorio.
“Calmati...” Non ho fiato per aggiungere altro.
“Tu sei fottuto più di tutti, Long.” Ride. Ha perso il senno. “Non c’è gloria per i perd-”
BOM!
Sputa sangue e si accascia. Il suo orecchio destro è un grumo rosso da cui spunta un frammento di metallo lungo un dito. La mano protesa gli si contrae in piccoli scatti.
La polvere si è diradata. Zing ha smesso di muoversi.
Aveva ragione, maledetto diavolo. Non ho avuto onore in patria, né me lo concederanno i vincitori, per via di quella Svastica che avevo nel petto quando correvo.
Mi aspetta l’oblio.
Ma che scelta ho, ormai?
Allungo la mano verso Stadler. “Robert… rimettimi su.”
Mi guarda, con la bocca spalancata. Annuisce. Mi cinge con un braccio e mi solleva. La gamba sinistra mi urta contro la ruota del Flak.
Signore, che dolore! Mi sfugge un gemito.
“Stadler!” Il capitano Hartmann ci corre incontro, la testa bassa. Un filo di sangue gli cola da uno zigomo. Si butta a sedere sulla postazione di tiro, al mio posto. “Portalo via!”
Robert grugnisce. Mi posa sulla gamba buona e mi riprende in spalla come un agnellino.
Il Capitano chiude un occhio, scruta nel cilindro del puntatore. Posa lo stivale sul pedale di sparo.
“Long! Come finiva il motto di quel francese? Nella vita l’essenziale non è conquistare, ma…?”
Robert inizia a correre, io gli ballonzolo in spalla: la gamba mi manda fitte di dolore. “Aver combattuto bene!” grido.
Gli occhi mi pizzicano: ma credo di aver visto Wolfgang Hartmann, Capitano della divisione Göring, sorridere.
Il vento che porta con sé l’odore del mare, ma non attenua la calura. I passi di Robert rallentano. Attorno a noi è un frinire di cicale… diventa più forte, poi si interrompe.
“Luz, devo metterti giù” ansima. “Solo per un po’...”
Sposta il suo peso, scivolo su un fianco, tra le sue braccia. Mi posa seduto contro qualcosa di rigido… sembra un palo.
“È meglio se tieni la testa su…” dice.
Apro gli occhi. Siamo in un campo, tra filari di viti.
Ovattato, arriva un crepitio di spari. Distinguo quello sordo del Flak. Non siamo così distanti come pensavo.
Ricomincia il frinire delle cicale. Insistente, copre i rumori più lontani. Si devono essere abituate a noi.
Tacciono di colpo.
Stadler mette mano alla fondina.
“Camerati!” sussurra una voce rotta, alla mia destra.
Una sagoma umana. Socchiudo le palpebre, metto a fuoco.
Un uomo in mutande. Si getta carponi davanti a noi e ci fissa, stravolto. I ricci neri sono impiastricciati di terra e sudore. Il volto è stravolto, sporco. Puzza di urina.
Parla in frasi sconnesse.
Stadler sputa per terra. “Non capiamo l’italiano, idiota!”
Inspiro. Le fitte di dolore tornano a farsi sentire. Non forti quanto prima.
“Parli inglese?”
Fa sì con la testa. “Un po’...”
“Cosa… Cosa è successo?”
“Noi...Noi…“ Rotea gli occhi, incerto. Fa il cenno di sventolare qualcosa, alza le braccia e incrocia le dita sopra la testa. “Capire?"
“Che diavolo dice” sbotta Robert.
“Che si sono arresi.”
“Bah! Strano!”
“Ma Americani...” Trema. “Americani uccidere tutti. Solo io scappa…”
Si rimette in piedi. “Americani viene qui. Scappare paese…” Si blocca. Alza le mani lerce di terra.
Stadler gli sta puntando contro la P38. Ansima, è paonazzo e madido di sudore.
“Luz, digli che ti prenda in spalla!”
Lla campagna è silenziosa. Anche il Flak non si sente più.
“Americani vicini” piagnucola l’italiano.
Guardo Robert. La sua giacca è fradicia di sangue. Il mio.
Devo dirglielo.
“Robert, andrai con lui.”
“Andremo, Luz.”
Riempio i polmoni d’aria. La tengo dentro di me.
Gisele, Kai, vi voglio bene.
E a te Wolfgang, anche se non ti ho mai conosciuto.
Scuoto la testa. “Non… posso farcela.” Indico la mia gamba. “Ho bisogno di cure, ora.”
Robert sbatte le palpebre. Impiega un istante per realizzare. “Vuoi farti prendere prigioniero...”
Scruta me, l’italiano. La mia gamba.
“Non ti lascio senza fasciarti. Digli che non si azzardi a scappare.”
Rinfodera.
Il vento ha cambiato direzione. Assieme al puzzo della polvere da sparo porta della grida, ordini urlati. Si avvicinano.
Robert dà uno strattone alla fasciatura.
“Fa male?”
“D’inferno” mento.
“Buon segno.”
Si alza in piedi e fa un cenno al ragazzo, che saltella via sui piedi nudi. Robert si volta a guardarmi.
“Abbiamo combattuto bene, Luz?”
Sorrido. “La nostra patria è orgogliosa di noi.”
Epilogo
Il sole spunta tra le foglie di vite e mi trafigge gli occhi. Ancora.
Ma adesso non scotta più. Anzi, ho freddo.
Chiudo le palpebre.
Le grida degli alleati sembrano vicine; no, lontane. Non lo so.
Freddo.
“Luz.”
Apro gli occhi. Il sole è sempre sopra di me, ma riesco a fissarlo senza che mi accechi. Il vitigno non c’è più. Sono a sedere su un campo di terra battuta.
Mi guardo attorno. Lo stadio è enorme, al punto che non riesco a scorgerne l’estremità più lontana: svanisce in una foschia, dorata da una luce che pulsa al suo interno.
Le tribune sono gremite. Le persone siedono in un colorato disordine di abiti e etnie. Non vedo bandiere.
Nessun altro sta gareggiando.
Una figura si china su di me, oscura il sole.
“Tocca a te, Luz.”
Jesse!
“A… a me?”
“Certo, l’ultimo salto è il tuo, fratello. Non puoi tirarti indietro.”
“Ma io…” Guardo la gamba. È sana.
Mi tiro su, saltello. Nessun dolore.
Jesse mi scruta. “Ti senti bene?”
“Credo… di aver avuto uno svenimento. Ma sì, è tutto a posto.”
Ci penserò poi. Ora devo saltare… e prima, recuperare la concentrazione, in fretta. Dov'è la pista?
Jesse mi fa cenno di seguirlo. Se ha capito la mia confusione, la vedrà anche il pubblico.
Datti un contegno, Luz Long.
Mi impettisco, lo seguo. Va verso la foschia luminosa, che inizia subito dopo la linea del salto. Ora noto la pista, è proprio sotto i nostri piedi.
“Ma…”
Non puoi tirarti indietro.
Solo ora realizzo che ci siamo parlati in tedesco. Credo che dovrei sentirmi raggelare, ma no… mi sento bene.
“Tu non sei Jesse, è così?”
Mi sorride. “Ha importanza? Vedila così, Luz: per me questo è un sogno, ma me lo ricorderò. Per cui, se posso fare qualcosa per te, chiedi pure.”
“I miei figli non mi hanno mai conosciuto veramente. Vorrei che gli raccontassi della nostra amicizia.”
Alza il pollice. “Non dovrei dirtelo ma… Kai mi vorrà come testimone alle sue nozze.”
Mi si inumidiscono gli occhi.
Jesse arretra. “È il momento, fratello. Ed è tutto tuo, come questa pista.”
Misuro i passi. La luce pulsa più forte. Ai suoi bordi, piccole saette argentee si fondono col nucleo d’oro.
Gli spalti fremono. La gente si è alzata in piedi.
“Niente salti di prova” dice Jesse, alle mie spalle. “Come piace a voi europei. E uno solo.”
“E se non mi qualifico?”
Una risata argentina. “Ti sei già qualificato.”
Cosa ci sarà oltre quella linea? Potrei chiederlo, ma ho un modo migliore per scoprirlo. Un modo che conosco bene.
Mi raccolgo per la rincorsa.
Un applauso scuote lo stadio in un crescendo. Tutto l’opposto a come mi aspettavo, a come ero abituato. Mani e bocche di tutti i colori mi incitano. Ritmi e lingue diverse, in un’armonia grandiosa.
Scatto. Corro verso la luce, l’ultimo passo sulla linea.
Spalanco le braccia.
Salto.
Tutte le nazioni del mondo hanno i propri eroi, i semiti così come gli ariani. E ognuna di loro dovrebbe abbandonare l’arroganza di sentirsi una razza superiore.
Luz Long