Finalmente.
Inviato: lunedì 17 agosto 2020, 23:45
Tom sputò l'ennesimo grumo di catarro da qualche parte intorno a se.
Le scarpe incrostate erano pesantissime. Il fango freddo e molliccio si aprì quando appoggiò il ginocchio sul bordo della trincea. Guardò il caricatore del Lee-Enfield, come aveva fatto mille volte durante l'addestramento, e mille volte ancora durante gli ultimi mesi passati nelle trincee vomitevoli della Francia. Una fila di omini incrostati di schifo e vesciche stava allineata lungo la fossa lunga chissà quanti chilometri. I ratti, grossi come cani, erano l'unica cosa che si muoveva, oltre alle dita che sfogliavano nervosamente le pagine di un vangelo o stringevano borracce piene di gin di pessima qualità. Speranza liquida di riuscire a correre quei duecento metri fino alla prima buca scavata dai mortai. Quella che ti salvava dalla vergogna di non essere uscito dalla trincea. La piuma bianca, no. Tutto, ma la piuma bianca no.
In lontananza si sentivano gli inutili mortai che da giorni bombardavano le trincee tedesche ormai vuote, come se qualcuno potesse resistere alle tonnellate di esplosivo che erano state scaricate sul confine.
Se bastava l'eco, dei cannoni, a togliere il sonno, che affetto aveva avuto sui tedeschi?
Giorni e giorni di incessante bombardamento, lampi e suoni senza senso, senza sosta, che distruggevano calendari e orologi, gradi e gerarchie. Nessuno dormiva. Nessuno agiva. Nessuno esisteva, in quella tempesta di bombe. Solo i ratti che mangiavano indisturbati.
Il fischietto che echeggiava lungo la linea del fronte era stato stranamente piacevole. Quel suono che fino a pochi giorni prima significava correre verso la morte, in quel momento era un risveglio dal torpore del fango freddo e cinico.
Le croste di terriccio aggrappate agli scarponi marci e ai pantaloni fusi col suolo si erano frantumate senza opporre resistenza, il fucile aveva risposto senza problemi alla sgraziata leva di armamento.
La visiera piatta dell'elmetto correva parallela all'orizzonte grigio e marrone, spezzato qua e la da colonne di fumo denso.
Un sorso di Gin. Si, serviva proprio quello, una pugnalata bollente alla gola che si estendeva lentamente dal petto fino alle zone dimenticate del corpo. Le orecchie, o i piedi.
Diavolo, facevano davvero male, i piedi.
Questione di minuti. Bastava muovere le dita, lo dicevano nei manuali. Muovere le dita dei piedi.
Un altro fischietto, un'altra secchiata di sagome marroni che si accalcavano nella fossa fangosa. Le passerelle di legno fradicio con decine di occhi inespressivi puntati contro.
Questione di minuti. Poi, si vinceva la guerra e si tornava casa.
Finalmente. Finalmente fuori dalla fossa di fango. Le gambe che marciavano distese nella terra di nessuno emanavano un dolore piacevole. Ricordavano di esistere. Muscoli e nervi affacciati con stupenda arroganza sulla soglia del dolore.
Tonfi sordi nelle vicinanze, gemiti strozzati e sanguinanti. Nastri di mitragliatrice in lontananza. Due fischi. Sdraiarsi a terra. Ancora qualche minuto.
Le scarpe incrostate erano pesantissime. Il fango freddo e molliccio si aprì quando appoggiò il ginocchio sul bordo della trincea. Guardò il caricatore del Lee-Enfield, come aveva fatto mille volte durante l'addestramento, e mille volte ancora durante gli ultimi mesi passati nelle trincee vomitevoli della Francia. Una fila di omini incrostati di schifo e vesciche stava allineata lungo la fossa lunga chissà quanti chilometri. I ratti, grossi come cani, erano l'unica cosa che si muoveva, oltre alle dita che sfogliavano nervosamente le pagine di un vangelo o stringevano borracce piene di gin di pessima qualità. Speranza liquida di riuscire a correre quei duecento metri fino alla prima buca scavata dai mortai. Quella che ti salvava dalla vergogna di non essere uscito dalla trincea. La piuma bianca, no. Tutto, ma la piuma bianca no.
In lontananza si sentivano gli inutili mortai che da giorni bombardavano le trincee tedesche ormai vuote, come se qualcuno potesse resistere alle tonnellate di esplosivo che erano state scaricate sul confine.
Se bastava l'eco, dei cannoni, a togliere il sonno, che affetto aveva avuto sui tedeschi?
Giorni e giorni di incessante bombardamento, lampi e suoni senza senso, senza sosta, che distruggevano calendari e orologi, gradi e gerarchie. Nessuno dormiva. Nessuno agiva. Nessuno esisteva, in quella tempesta di bombe. Solo i ratti che mangiavano indisturbati.
Il fischietto che echeggiava lungo la linea del fronte era stato stranamente piacevole. Quel suono che fino a pochi giorni prima significava correre verso la morte, in quel momento era un risveglio dal torpore del fango freddo e cinico.
Le croste di terriccio aggrappate agli scarponi marci e ai pantaloni fusi col suolo si erano frantumate senza opporre resistenza, il fucile aveva risposto senza problemi alla sgraziata leva di armamento.
La visiera piatta dell'elmetto correva parallela all'orizzonte grigio e marrone, spezzato qua e la da colonne di fumo denso.
Un sorso di Gin. Si, serviva proprio quello, una pugnalata bollente alla gola che si estendeva lentamente dal petto fino alle zone dimenticate del corpo. Le orecchie, o i piedi.
Diavolo, facevano davvero male, i piedi.
Questione di minuti. Bastava muovere le dita, lo dicevano nei manuali. Muovere le dita dei piedi.
Un altro fischietto, un'altra secchiata di sagome marroni che si accalcavano nella fossa fangosa. Le passerelle di legno fradicio con decine di occhi inespressivi puntati contro.
Questione di minuti. Poi, si vinceva la guerra e si tornava casa.
Finalmente. Finalmente fuori dalla fossa di fango. Le gambe che marciavano distese nella terra di nessuno emanavano un dolore piacevole. Ricordavano di esistere. Muscoli e nervi affacciati con stupenda arroganza sulla soglia del dolore.
Tonfi sordi nelle vicinanze, gemiti strozzati e sanguinanti. Nastri di mitragliatrice in lontananza. Due fischi. Sdraiarsi a terra. Ancora qualche minuto.