Missione Orion - Capitolo 2 - Siamo soli?
Inviato: mercoledì 5 agosto 2020, 9:05
Il cacciavite cade dalla mano di Mae.
La stanza è sottosopra, il letto ribaltato, ma ciò che attira lo sguardo della dottoressa è il paziente.
Peter rantola e gorgoglia, la fessura su quello che dovrebbe essere il volto pronuncia sillabe sconnesse, una parodia di una lingua, mentre il resto del corpo assume forme non euclidee, cerchi e angoli che un corpo non dovrebbe avere. Organi e arti si mischiano tra loro con suoni disgustosi, risucchi, scoppi e flatulenze, mentre entrano ed escono dalla loro sede, mimando un perverso quadro di Escher. Le dita strisciano lungo tutto il corpo, come vermi disgustosi fermandosi attorno alla bocca, entrando e prendendo il posto dei denti. Il ventre si gonfia oltre misura, lucido e prominente, mentre sulla schiena la spina dorsale scivola fino ad uscire dall’ano torcendosi su sé stessa a formare una coda. Polmoni e cuore pulsano sul dorso della creatura, mentre gli intestini vorticano e scorrono senza sosta lungo tutta la superficie del corpo.
Nicolai stringe l’estintore, l’unico modo che ha di mantenere la sanità mentale mentre quello che era il suo compagno astronauta, il suo amico, si alza in posizione eretta con fatica. Sembra stia cercando di capire come muoversi, imparare a camminare mentre non ha ancora deciso che forma assumere.
Un primo passo, i femori ticchettano sul pavimento liscio, un vagito: l’istinto diventa più forte, prende il sopravvento e Nicolai lancia la sua arma verso Non-Peter.
La creatura fa scattare il suo braccio, ormai più simile alla chela di un insetto.
L’estremità si chiude intorno all’estintore. Il metallo oppone resistenza, ma la pressione di una forza inumana lo deforma, lo piega. Esplode.
Una nube di agenti chimici invade la stanza facendo sparire Non-Peter in una nebbia biancastra, lattiginosa. Nicolai spalanca gli occhi, cerca di penetrare quella cortina di fumo. Si mette in guardia, pronto a difendersi con le unghie e con i denti se necessario. Un grido acuto invade l’infermeria, più frustrazione che dolore, poi, metallo che viene squarciato, un rumore liquido, come se qualcosa di viscoso stesse colando in un tubo.
L’infermeria piomba nuovamente nel silenzio, pochi secondi e anche la nebbia si dirada. Un condotto di ventilazione è completamente aperto, la grata distrutta e Non-Peter non è più lì. Nicolai osserva i tubi e i condotti sopra la sua testa, chiedendosi se quella cosa li stia guardando.
Mae è accucciata, le mani ancora sulle orecchie, gli occhi serrati.
«Mae, se n’è andato» dice Nicolai. Lei non si muove, rimane ferma. Ciondola leggermente avanti e indietro.
Lui le tocca una spalla. La donna grida e scatta come una molla, striscia sul pavimento per allontanarsi, il volto terrorizzato. Ansima e si guarda intorno. Con la mano raggiunge il cacciavite e lo tiene davanti a sé.
«Mae, se n’è andato» ripete Nicolai piano, avvicinandosi. Cerca di sembrare tranquillo, i palmi all’insù, le mani che tremano. La mascella si contrare dolorosamente, la vista è annebbiata, ma non vuole cedere per sé stesso e per lei. Sente le pulsazioni tambureggiare fin nel cervello.
«Cosa… cosa… cosa» la dottoressa non riesce a dire altro. Gli occhi scattano all’impazzata in ogni direzione.
«Mae, siamo tu e io… guardami.»
La donna fissa lo sguardo su Nicolai, deglutisce. Il respiro inizia a calmarsi, il petto si alza e si abbassa sempre più regolarmente. Mae chiude gli occhi, inspira profondamente. Sente il gusto del sangue in bocca, le guance e la lingua le fanno male. Qualche lacrima scende e si fa strada sulle guance fino al mento. Non singhiozza. Non emette suono. Pensa che se lasciasse uscire qualcosa, anche il raziocinio uscirebbe con esso. Solo il respiro lascia uscire. Il cuore martella nel petto.
Quando riapre gli occhi, la donna è più calma, anche se ancora trema. Anche le mani di Nicolai tremano.
Mae si fa aiutare ad alzarsi. Con l’altra mano stringe ancora il cacciavite, le unghie che segnano il palmo.
«Tutto bene?» le chiede Nicolai. Domanda stupida pensa, ma devono riportare la situazione alla normalità se vogliono sopravvivere.
Mae annuisce, si sistema la coda di capelli corvini. La stringe e la sistema come faceva quando andava a correre o quando si preparava a una gara di atletica. Un gesto semplice ma che le ridà determinazione.
La dottoressa guarda il punto dove la creatura Peter li aveva accolti. Una secrezione viscida segna il percorso della creatura fino al condotto di aerazione. Incredibile come sia riuscita a passare, è troppo stretto, si dice Mae, ma sa che Peter va oltre la sua comprensione.
Si avvicina alla melma di colore bianco, riflessi gialli sulla superficie sembrano salutarla, vogliono attirarla a sé, come oro liquido sotto la fredda luce artificiale. Troppo simile a quella trovata vicino ai generatori per non essere la stessa. La donna prende un tampone e una provetta da un ripiano e raccoglie un campione. La sostanza si allunga verso il tampone, lo abbraccia e lo avvolge. Mae richiude il vasetto prima che possa arrivarle alla mano.
«Guarda…» dice mostrando al compagno il flaconcino. La sostanza cola sul fondo. Nicolai si sente osservato, anche se non vede occhi. «Vieni voglio vedere una cosa…» continua la donna.
«Dobbiamo andarcene da qui» taglia corto il russo.
«Nicolai, non facciamoci prendere dal panico. Se uscissimo ora, rischieremmo di venire investiti dalle radiazioni» Lascia l’infermeria. Deve recuperare il barattolo che ha lasciato nella camera di depressurizzazione.
«Panico?» gli occhi si sgranano, il collo si gonfia. «Hai visto quella cosa di là?»
«Quella cosa ha un nome. Era Peter!» sbotta Mae, senza voltarsi.
«Esatto! Era! Ora noi ci copriamo, prendiamo l’orso e ce ne andiamo.» urla Nicolai inseguendola.
«Ah sì? E dove vorresti andare?» Mae si pianta nel corridoio.
«Verso la Orion. Se ci avviciniamo al punto dove si sono nascosti, un segnale potrebbe raggiungerli. Potremmo chiedere un recupero d’urgenza.»
«Nicolai, è un suicidio!»
«E stare qui cosa sarebbe?»
Mae rimane interdetta. Nicolai non ha tutti i torti. Ripensa di nuovo al giuramento che ogni medico deve fare. Si vergogna per aver pensato di metterlo da parte solo perché nessuno può vederla. Lei porterebbe sempre con sé quel tradimento. Dopo aver visto Peter in quelle condizioni, però... Dio solo sa il dolore che sta provando. È sicura stesse solo cercando aiuto.
«Abbiamo tutto quello che ci serve per sopravvivere... e ho gli strumenti per fare delle analisi, per aiutare Peter.»
«Blyad’! Quello non è più Peter!» sbotta il russo, dimenticando le buone maniere e l’inglese nella foga. «Cosa pensi di fare, di rimetterlo insieme? Come un puzzle?»
Mae vede un bagliore bluastro. L’aurora boreale marziana. La tempesta è sopra di loro. Un brivido le scende dall’attaccatura dei capelli lungo tutta la spina dorsale, mentre spera che il materiale speciale di cui sono fatti gli oblò e le pareti che li circondano riescano a proteggerli dalle radiazioni. Spera che non ci siano guasti al supporto vitale.
«Guarda! L’aurora! Siamo in mezzo alla tempesta solare.»
«Fai quello che vuoi. Io qui non ci rimango» replica Nicolai testardo, allontanandosi.
Mae scuote la testa. Devono raggiungere l’altro lato del pianeta. È un’impresa disperata in quelle condizioni.
La dottoressa si guarda intorno. La sua tuta è sul pavimento, buttata lì prima che… prima di vedere Peter.
«Dov’è finito?» Mae solleva la tuta, il casco, controlla la camera di depressurizzazione centimetro per centimetro. Niente. Sparito. La cosa non la fa stare tranquilla. E se lo dicesse a Nicolai non farebbe che avvallare la sua tesi di fuga. Deve capire cosa è quella sostanza.
Il russo borbotta mentre si allontana. Non vuole stare un minuto di più lì dentro con quella creatura che striscia nei condotti. Provviste, acqua, aria. Magari qualcosa con cui difendersi. Marte sembra non essere più così disabitato. Nel piccolo magazzino dovrebbero esserci anche dei teli di scorta. Li può adattare alla tuta, ripararsi.
Nicolai guarda fuori. Le luci nel cielo sono affascinanti. Una danza continua, simile a quella visibile sulla Terra, ma così aliena nei colori. Un movimento ipnotico, rilassante.
La chela che cozza sul vetro lo riporta nel presente.
«Cazzo!» Nicolai incespica, cade all’indietro. Non-Peter sbatte contro il vetro, dapprima con quell’apparato chitinoso, poi con il resto del corpo. L’orifizio al posto della bocca si attacca al vetro come una ventosa e le dita tastano la superficie allargandosi. Gli occhi del mostro appaiono nella gola per cercare di scrutare nella struttura. Il rumore viscido e orribile che sente gli ricorda un polipo sbattuto contro gli scogli. L’essere si stacca, sembra mimare qualche parola, pallida memoria di umanità.
Nicolai si ritrae nell’ombra. Ancora un colpo e poi il silenzio della superficie marziana riprende il sopravvento. Come cazzo è possibile che riesca a sopravvivere lì fuori? Se lo dicesse a Mae non farebbe che confermare la sua folle idea di rimanere lì dentro. Speriamo non abbia sentito.
Rimane per un attimo fermo, per calmarsi i nervi. Dovrà decisamente prendere qualcosa con cui difendersi.
I teli sono accuratamente piegati. Non dovrebbe essere difficile sagomarli e fissarli con il nastro adesivo alla tuta. Gli basta arrivare all’orso e poi le schermature del mezzo lo avrebbero protetto. Pochi metri sul suolo marziano e si lascerà indietro quella follia. Si spera.
Gli spiace abbandonare Mae. Però potrebbe sempre tornare indietro a prenderla una volta che avrà contattato la Orion. Se sopravvive. Nicolai si sfrega la testa. Certo che sopravvivrà, è una tosta.
Ogni passo è misurato, lento, l’orecchio teso a ogni minimo rumore mentre prepara tutto il necessario per la fuga davanti alla camera di depressurizzazione. Se ha fatto i conti esatti gli ci dovrebbero volere quattro giorni per arrivare abbastanza vicino alla Orion.
Non sarà facile caricare tutto da solo sull’orso. Forse dovrebbe parlare ancora con Mae. Cercare di convincerla. A proposito di Mae, dove si è cacciata?
Nicolai afferra un tubo in metallo, un ricambio idraulico convertito a oggetto contundente. Poca roba visto quello che la chela della creatura poteva fare, ma sempre meglio che lottare a mani nude.
Il silenzio è innaturale. In momenti normali tengono acceso lo stereo, ma con la tempesta hanno tolto tutti i sistemi elettrici non necessari. Le luci al neon rendono le ombre più nette nei corridoi. Per sua fortuna non ci sono angoli in cui nascondersi. Escludendo i condotti dell’aria. Nicolai scuote la testa. Deve stare concentrato.
L’uomo avanza verso l’infermeria. «Mae?» chiama, ma la stanza è vuota. Dove si è cacciata? Non è così grande la base. Nicolai tende l’orecchio. Nessun rumore.
Sala comune, magazzino, cuccette. Nemmeno in laboratorio.
Resta la serra.
«Mae?» nessuna risposta. La stanza è nella penombra, la luce che arriva dal corridoio è insufficiente per illuminare l’intero ambiente.
Se accendo le luci, quella cosa rischia di distruggere tutte le piante, si dice il russo. Cerca a tastoni nella tasca una piccola torica di emergenza, il fascio sufficiente a rischiarare pochi passi davanti a lui.
Dall’ingresso Nicolai non riesce a vedere il fondo della stanza. Le strutture che sorreggono le piante mascherano la vista. Eppure, qualcosa sembra muoversi.
«Mae? Sei tu?» il russo stringe il tubo mentre avanza. L’umidità e il caldo sono soffocanti. Per ottimizzare lo spazio aveva disposto personalmente ogni filare e ora si trovava a camminare in un labirinto di erbe. Una curva a destra, una a sinistra, senza mai togliere lo sguardo da quel movimento.
«Mae? Cosa stai…»
La donna è in piedi, immobile. Si volta, gli occhi girati all’indietro, un bagliore dorato nello sguardo alla luce della torica. La melma cola incessante dal barattolo che ha in mano, inondando le piante.
La stanza è sottosopra, il letto ribaltato, ma ciò che attira lo sguardo della dottoressa è il paziente.
Peter rantola e gorgoglia, la fessura su quello che dovrebbe essere il volto pronuncia sillabe sconnesse, una parodia di una lingua, mentre il resto del corpo assume forme non euclidee, cerchi e angoli che un corpo non dovrebbe avere. Organi e arti si mischiano tra loro con suoni disgustosi, risucchi, scoppi e flatulenze, mentre entrano ed escono dalla loro sede, mimando un perverso quadro di Escher. Le dita strisciano lungo tutto il corpo, come vermi disgustosi fermandosi attorno alla bocca, entrando e prendendo il posto dei denti. Il ventre si gonfia oltre misura, lucido e prominente, mentre sulla schiena la spina dorsale scivola fino ad uscire dall’ano torcendosi su sé stessa a formare una coda. Polmoni e cuore pulsano sul dorso della creatura, mentre gli intestini vorticano e scorrono senza sosta lungo tutta la superficie del corpo.
Nicolai stringe l’estintore, l’unico modo che ha di mantenere la sanità mentale mentre quello che era il suo compagno astronauta, il suo amico, si alza in posizione eretta con fatica. Sembra stia cercando di capire come muoversi, imparare a camminare mentre non ha ancora deciso che forma assumere.
Un primo passo, i femori ticchettano sul pavimento liscio, un vagito: l’istinto diventa più forte, prende il sopravvento e Nicolai lancia la sua arma verso Non-Peter.
La creatura fa scattare il suo braccio, ormai più simile alla chela di un insetto.
L’estremità si chiude intorno all’estintore. Il metallo oppone resistenza, ma la pressione di una forza inumana lo deforma, lo piega. Esplode.
Una nube di agenti chimici invade la stanza facendo sparire Non-Peter in una nebbia biancastra, lattiginosa. Nicolai spalanca gli occhi, cerca di penetrare quella cortina di fumo. Si mette in guardia, pronto a difendersi con le unghie e con i denti se necessario. Un grido acuto invade l’infermeria, più frustrazione che dolore, poi, metallo che viene squarciato, un rumore liquido, come se qualcosa di viscoso stesse colando in un tubo.
L’infermeria piomba nuovamente nel silenzio, pochi secondi e anche la nebbia si dirada. Un condotto di ventilazione è completamente aperto, la grata distrutta e Non-Peter non è più lì. Nicolai osserva i tubi e i condotti sopra la sua testa, chiedendosi se quella cosa li stia guardando.
Mae è accucciata, le mani ancora sulle orecchie, gli occhi serrati.
«Mae, se n’è andato» dice Nicolai. Lei non si muove, rimane ferma. Ciondola leggermente avanti e indietro.
Lui le tocca una spalla. La donna grida e scatta come una molla, striscia sul pavimento per allontanarsi, il volto terrorizzato. Ansima e si guarda intorno. Con la mano raggiunge il cacciavite e lo tiene davanti a sé.
«Mae, se n’è andato» ripete Nicolai piano, avvicinandosi. Cerca di sembrare tranquillo, i palmi all’insù, le mani che tremano. La mascella si contrare dolorosamente, la vista è annebbiata, ma non vuole cedere per sé stesso e per lei. Sente le pulsazioni tambureggiare fin nel cervello.
«Cosa… cosa… cosa» la dottoressa non riesce a dire altro. Gli occhi scattano all’impazzata in ogni direzione.
«Mae, siamo tu e io… guardami.»
La donna fissa lo sguardo su Nicolai, deglutisce. Il respiro inizia a calmarsi, il petto si alza e si abbassa sempre più regolarmente. Mae chiude gli occhi, inspira profondamente. Sente il gusto del sangue in bocca, le guance e la lingua le fanno male. Qualche lacrima scende e si fa strada sulle guance fino al mento. Non singhiozza. Non emette suono. Pensa che se lasciasse uscire qualcosa, anche il raziocinio uscirebbe con esso. Solo il respiro lascia uscire. Il cuore martella nel petto.
Quando riapre gli occhi, la donna è più calma, anche se ancora trema. Anche le mani di Nicolai tremano.
Mae si fa aiutare ad alzarsi. Con l’altra mano stringe ancora il cacciavite, le unghie che segnano il palmo.
«Tutto bene?» le chiede Nicolai. Domanda stupida pensa, ma devono riportare la situazione alla normalità se vogliono sopravvivere.
Mae annuisce, si sistema la coda di capelli corvini. La stringe e la sistema come faceva quando andava a correre o quando si preparava a una gara di atletica. Un gesto semplice ma che le ridà determinazione.
La dottoressa guarda il punto dove la creatura Peter li aveva accolti. Una secrezione viscida segna il percorso della creatura fino al condotto di aerazione. Incredibile come sia riuscita a passare, è troppo stretto, si dice Mae, ma sa che Peter va oltre la sua comprensione.
Si avvicina alla melma di colore bianco, riflessi gialli sulla superficie sembrano salutarla, vogliono attirarla a sé, come oro liquido sotto la fredda luce artificiale. Troppo simile a quella trovata vicino ai generatori per non essere la stessa. La donna prende un tampone e una provetta da un ripiano e raccoglie un campione. La sostanza si allunga verso il tampone, lo abbraccia e lo avvolge. Mae richiude il vasetto prima che possa arrivarle alla mano.
«Guarda…» dice mostrando al compagno il flaconcino. La sostanza cola sul fondo. Nicolai si sente osservato, anche se non vede occhi. «Vieni voglio vedere una cosa…» continua la donna.
«Dobbiamo andarcene da qui» taglia corto il russo.
«Nicolai, non facciamoci prendere dal panico. Se uscissimo ora, rischieremmo di venire investiti dalle radiazioni» Lascia l’infermeria. Deve recuperare il barattolo che ha lasciato nella camera di depressurizzazione.
«Panico?» gli occhi si sgranano, il collo si gonfia. «Hai visto quella cosa di là?»
«Quella cosa ha un nome. Era Peter!» sbotta Mae, senza voltarsi.
«Esatto! Era! Ora noi ci copriamo, prendiamo l’orso e ce ne andiamo.» urla Nicolai inseguendola.
«Ah sì? E dove vorresti andare?» Mae si pianta nel corridoio.
«Verso la Orion. Se ci avviciniamo al punto dove si sono nascosti, un segnale potrebbe raggiungerli. Potremmo chiedere un recupero d’urgenza.»
«Nicolai, è un suicidio!»
«E stare qui cosa sarebbe?»
Mae rimane interdetta. Nicolai non ha tutti i torti. Ripensa di nuovo al giuramento che ogni medico deve fare. Si vergogna per aver pensato di metterlo da parte solo perché nessuno può vederla. Lei porterebbe sempre con sé quel tradimento. Dopo aver visto Peter in quelle condizioni, però... Dio solo sa il dolore che sta provando. È sicura stesse solo cercando aiuto.
«Abbiamo tutto quello che ci serve per sopravvivere... e ho gli strumenti per fare delle analisi, per aiutare Peter.»
«Blyad’! Quello non è più Peter!» sbotta il russo, dimenticando le buone maniere e l’inglese nella foga. «Cosa pensi di fare, di rimetterlo insieme? Come un puzzle?»
Mae vede un bagliore bluastro. L’aurora boreale marziana. La tempesta è sopra di loro. Un brivido le scende dall’attaccatura dei capelli lungo tutta la spina dorsale, mentre spera che il materiale speciale di cui sono fatti gli oblò e le pareti che li circondano riescano a proteggerli dalle radiazioni. Spera che non ci siano guasti al supporto vitale.
«Guarda! L’aurora! Siamo in mezzo alla tempesta solare.»
«Fai quello che vuoi. Io qui non ci rimango» replica Nicolai testardo, allontanandosi.
Mae scuote la testa. Devono raggiungere l’altro lato del pianeta. È un’impresa disperata in quelle condizioni.
La dottoressa si guarda intorno. La sua tuta è sul pavimento, buttata lì prima che… prima di vedere Peter.
«Dov’è finito?» Mae solleva la tuta, il casco, controlla la camera di depressurizzazione centimetro per centimetro. Niente. Sparito. La cosa non la fa stare tranquilla. E se lo dicesse a Nicolai non farebbe che avvallare la sua tesi di fuga. Deve capire cosa è quella sostanza.
Il russo borbotta mentre si allontana. Non vuole stare un minuto di più lì dentro con quella creatura che striscia nei condotti. Provviste, acqua, aria. Magari qualcosa con cui difendersi. Marte sembra non essere più così disabitato. Nel piccolo magazzino dovrebbero esserci anche dei teli di scorta. Li può adattare alla tuta, ripararsi.
Nicolai guarda fuori. Le luci nel cielo sono affascinanti. Una danza continua, simile a quella visibile sulla Terra, ma così aliena nei colori. Un movimento ipnotico, rilassante.
La chela che cozza sul vetro lo riporta nel presente.
«Cazzo!» Nicolai incespica, cade all’indietro. Non-Peter sbatte contro il vetro, dapprima con quell’apparato chitinoso, poi con il resto del corpo. L’orifizio al posto della bocca si attacca al vetro come una ventosa e le dita tastano la superficie allargandosi. Gli occhi del mostro appaiono nella gola per cercare di scrutare nella struttura. Il rumore viscido e orribile che sente gli ricorda un polipo sbattuto contro gli scogli. L’essere si stacca, sembra mimare qualche parola, pallida memoria di umanità.
Nicolai si ritrae nell’ombra. Ancora un colpo e poi il silenzio della superficie marziana riprende il sopravvento. Come cazzo è possibile che riesca a sopravvivere lì fuori? Se lo dicesse a Mae non farebbe che confermare la sua folle idea di rimanere lì dentro. Speriamo non abbia sentito.
Rimane per un attimo fermo, per calmarsi i nervi. Dovrà decisamente prendere qualcosa con cui difendersi.
I teli sono accuratamente piegati. Non dovrebbe essere difficile sagomarli e fissarli con il nastro adesivo alla tuta. Gli basta arrivare all’orso e poi le schermature del mezzo lo avrebbero protetto. Pochi metri sul suolo marziano e si lascerà indietro quella follia. Si spera.
Gli spiace abbandonare Mae. Però potrebbe sempre tornare indietro a prenderla una volta che avrà contattato la Orion. Se sopravvive. Nicolai si sfrega la testa. Certo che sopravvivrà, è una tosta.
Ogni passo è misurato, lento, l’orecchio teso a ogni minimo rumore mentre prepara tutto il necessario per la fuga davanti alla camera di depressurizzazione. Se ha fatto i conti esatti gli ci dovrebbero volere quattro giorni per arrivare abbastanza vicino alla Orion.
Non sarà facile caricare tutto da solo sull’orso. Forse dovrebbe parlare ancora con Mae. Cercare di convincerla. A proposito di Mae, dove si è cacciata?
Nicolai afferra un tubo in metallo, un ricambio idraulico convertito a oggetto contundente. Poca roba visto quello che la chela della creatura poteva fare, ma sempre meglio che lottare a mani nude.
Il silenzio è innaturale. In momenti normali tengono acceso lo stereo, ma con la tempesta hanno tolto tutti i sistemi elettrici non necessari. Le luci al neon rendono le ombre più nette nei corridoi. Per sua fortuna non ci sono angoli in cui nascondersi. Escludendo i condotti dell’aria. Nicolai scuote la testa. Deve stare concentrato.
L’uomo avanza verso l’infermeria. «Mae?» chiama, ma la stanza è vuota. Dove si è cacciata? Non è così grande la base. Nicolai tende l’orecchio. Nessun rumore.
Sala comune, magazzino, cuccette. Nemmeno in laboratorio.
Resta la serra.
«Mae?» nessuna risposta. La stanza è nella penombra, la luce che arriva dal corridoio è insufficiente per illuminare l’intero ambiente.
Se accendo le luci, quella cosa rischia di distruggere tutte le piante, si dice il russo. Cerca a tastoni nella tasca una piccola torica di emergenza, il fascio sufficiente a rischiarare pochi passi davanti a lui.
Dall’ingresso Nicolai non riesce a vedere il fondo della stanza. Le strutture che sorreggono le piante mascherano la vista. Eppure, qualcosa sembra muoversi.
«Mae? Sei tu?» il russo stringe il tubo mentre avanza. L’umidità e il caldo sono soffocanti. Per ottimizzare lo spazio aveva disposto personalmente ogni filare e ora si trovava a camminare in un labirinto di erbe. Una curva a destra, una a sinistra, senza mai togliere lo sguardo da quel movimento.
«Mae? Cosa stai…»
La donna è in piedi, immobile. Si volta, gli occhi girati all’indietro, un bagliore dorato nello sguardo alla luce della torica. La melma cola incessante dal barattolo che ha in mano, inondando le piante.