CAPITOLO TERZO ESPIAZIONE
Inviato: sabato 8 agosto 2020, 8:09
CAPITOLO TERZO ESPIAZIONE
Di Alexandra Fischer
Fiorenza si dirige di corsa verso la cabina accanto alla posta; il numero della Forestale è il terzo di quelli di emergenza.
Lo compone e l’operatore le risponde dopo uno squillo: «Qui Unità Forestale di Miron. Dite.»
Fiorenza trema di freddo e batte i denti: «C’è stato un incidente alla fabbrica abbandonata accanto all’Istituto Freiheit. Chiedo aiuto immediato.»
«Resti in linea.»
Segue una pausa, nella quale le folate di vento e la pioggia sembrano far volare via la cabina.
L’operatore torna al telefono: «Abbiamo già mandato una squadra. Lei dove si trova?»
Fiorenza riattacca e corre in direzione del collegio.
Un’auto le taglia la strada a metà percorso e un finestrino si abbassa; il volto dagli zigomi alti e gli occhi azzurri gelidi della Hartmann la paralizzano: «Salga immediatamente.»
Fiorenza le obbedisce sentendosi di nuovo bambina.
La Direttrice guida con gli occhi fissi alla strada e si comporta come se lei non fosse a bordo, i gesti al volante e il cambio delle marce ne lasciano trapelare il nervosismo.
Fiorenza si aggrappa al sedile e si sente sollevata solo quando vede l’Istituto: per la prima volta, prova una sorta di rassicurazione a vedere quella struttura ottocentesca a torrette e bifore.
Nota che c’è la luce accesa all’ultimo piano e il cuore le palpita di speranza.
La Direttrice spegne l’automobile ed è solo allora che sembra accorgersi di lei; le si rivolge in tono tagliente: «Mi ha davvero fatta lavorare parecchio, signorina Rosai. E la avverto che c’è una telefonata per lei da parte di sua nonna.»
Fiorenza azzarda: «Ma, e mio fratello?»
La Hartmann la spinge verso la porta d’ingresso: «È in infermeria.»
«Posso vederlo?»
«Glielo sconsiglio.»
Le parole della Direttrice le mozzano il fiato: si aggrappa al corrimano e sale i gradini con lentezza.
La Hartmann si ferma in cima alla prima rampa di scale: «Si sbrighi. Sua nonna ha già telefonato una volta.»
«E cosa sa?» le domanda Fiorenza aggrappandosi a tutta la sua capacità di controllo.
La Direttrice le rivolge un sorriso sardonico: «Ho deciso di lasciare a lei il compito di raccontare l’escursione di quest’oggi.»
La Hartman la precede impettita nell’impermeabile nero e lei la segue lungo il corridoio.
Non intende guardare le fotografie degli allievi degli anni precedenti, la farebbero crollare e a lei serve parecchia forza.
Il tratto per arrivare all’ufficio della Direttrice è fin troppo breve: la Hartman la invita a sedersi con un gesto secco e si accomoda sulla poltrona.
Sposta verso di lei il cellulare con l’espressione di uno scacchista che ha appena sconfitto l’avversario: «Sua nonna non tarderà a richiamare e credo sarà una telefonata molto interessante, non crede?»
Scuote la testa: «La compatisco, sa? La colpa è stata di suo fratello.»
Fiorenza si irrigidisce: «Eravamo insieme. Quindi, punisca anche me.»
La Hartman agita la mano: «No.»
Prima che Fiorenza possa ribattere, il cellulare suona e lei lo afferra con il coraggio della disperazione, tuttavia, riesce a controllare il tono: «Ciao, nonna. Come stai? Scusa, ma sono stanca, sì. L’escursione è andata bene.»
Dall’altro capo del filo, la risposta della nonna le fa l’effetto di una secchiata d’acqua gelida: «Non mentire con me. So bene cosa è successo.» La voce le si spezza e si carica di terrore: «Li ha liberati. E ora sono tornati per me.»
Fiorenza è sconvolta: «Nonna, ma cosa dici?»
All’altro capo della linea telefonica c’è il suono di un oggetto metallico buttato sul tavolo, la voce della nonna si fa supplichevole, parla a qualcun altro: «Sì, sì. Eccola.»
Le urla della nonna e il silenzio che ne segue la fanno tremare, ma il culmine del terrore arriva quando sente un paio di risate di ragazzini.
Il cellulare le cade sulla scrivania e Fiorenza sobbalza per l’ennesimo fulmine.
La Hartman lo raccoglie e se lo porta all’orecchio; assume un’aria ancora più severa: «Pronto, signora Rosai, mi sente?»
Impallidisce e stringe il telefono fino a farsi imbiancare le nocche: «No, io sono la Direttrice Hartman. La Springer? Come sarebbe a dire che è lei la Direttrice?»
Preme il pulsante di fine chiamata e rivolge uno sguardo attonito a Fiorenza: «Scusi se glielo chiedo, ma lei ha dei cugini burloni che vivono con sua nonna? E chi è la Springer?»
La ragazza scuote la testa: «Tiziano e io siamo gli unici nipoti.» Impallidisce e si porta la mano alla fronte. «La Springer diresse l’istituto prima di lei. Lo so da mia nonna.»
Fiorenza fa un ultimo sforzo: «Ne parlava sempre con grande affetto: fu la prima a incoraggiarla nell’arte.»
Si aggrappa al braccio della Hartman: «Mi ascolti, a casa mia è successo qualcosa di grave. Mi porti da Tiziano.»
La Direttrice accenna un diniego con la testa, si morde il labbro e annuisce.
Escono dall’ufficio e salgono una rampa di scale: la Hartman bussa alla porta e l’infermiera apre soltanto uno spiraglio della porta.
La Direttrice non si lascia intimidire: «Ci faccia entrare, infermiera Hussel.»
Fiorenza interviene: «La prego. Devo vedere mio fratello. Come sta?»
L’infermiera Hussel apre la porta con estrema cautela: «Ha riempito il muro della stanza fino a consumare il carboncino. Ne aveva quattro pezzi in un sacchetto.»
La Hartman se ne stupisce: «Ma, e i sedativi?»
«Su di lui sono stati inutili» le risponde l’infermiera con un’espressione sconfitta. «Ma è giusto che lei e la signorina Rosai vediate.»
Le precede lungo un corridoio, apre la porta, e a Fiorenza sfugge un grido di raccapriccio: sul muro c’è una serie di disegni.
Il primo è quello di due ragazze che si prendono per i capelli sotto lo sguardo di un ragazzo.
La prima ha i capelli ricci stretti in una fascia e lunghi quasi al collo, la seconda porta i capelli corti: un taglio sbarazzino, di gran moda negli Anni Venti.
Nella scena successiva c’è la ragazza dai capelli corti, davanti a una porta; sogghigna, con una chiave in mano.
I disegni diventano sempre più confusi: si vedono figure umane sproporzionate e piatti e bicchieri dai quali escono vermi e blatte.
Fiorenza singhiozza alla vista di Tiziano addormentato nel letto.
I suoi occhi vanno alla Hartman: la vede annichilita.
Deglutisce e le parla a bassa voce: «Nel disegno ci sono due compagni di collegio di mia nonna. Per favore, scopra cosa ne è stato di loro.»
La Direttrice le sussurra: «Posso controllare l’elenco degli allievi.»
L’infermiera interviene: «Prima di addormentarsi, il signor Tiziano ha nominato l’ospedale Schmulder.»
La Hartman spalanca gli occhi e la voce le esce spezzata: «Come? L’ospedale psichiatrico?»
L’infermiera annuisce.
Fiorenza si aggrappa alla pediera del letto, si gira verso la Direttrice e grida: «Perché?»
Tiziano si sveglia; Fiorenza nota che è tornato quello di sempre, allora gli si avvicina e gli prende la mano: «Stai bene?»
«Sì. Sono solo stanco. Mi fanno male le mani e mi dispiace. Si chiamavano Adelinde Jonilek e Kuno Riesler. La nonna credeva di poter comperare tutto e tutti. Voleva Kuno, ma lui la respinse. Aveva scelto Adelinde. La nonna si finse rassegnata, ma quando arrivò l’occasione della gita di istruzione alla fabbrica, si sfregò le mani; li chiuse dietro quella porta. Era la prima domenica di vacanza aziendale, e loro trascorsero due settimane di fame e sete. Impazzirono. Li ricoverarono a Schmulder e non ne uscirono più.»
Fiorenza si gira verso la Hartman: «Eppure la nonna terminò gli studi. Come è possibile?»
La Direttrice avvampa di vergogna e sussurra: «Denaro.»
Tiziano le domanda: «Lei mi crede ancora pazzo?»
La Hartman scuote la testa: «No. Lei e sua sorella potete restare. Mi riservo il beneficio del dubbio.»
Si rivolge a Fiorenza: «Venga, sarà stanca.»
***
Dopo aver accompagnato Fiorenza in camera, la Direttrice fruga in archivio e controlla la lista delle attività extrascolastiche di settant’anni prima: la data della gita alla fabbrica di porte le fa venire i brividi.
Quando passa alla scheda degli ex compagni di Leda Rosai legge la breve nota della Springer: menziona un esaurimento nervoso per i due citati dalla Hussel.
Ricaccia indietro le lacrime.
La mattina dopo, fa trasferire altrove il locale dell’infermeria e chiudere a chiave la stanza con i disegni.
Non si stupisce della chiamata di Fulvio Rosai alle otto del mattino: mantiene la stessa cortesia formale di sempre: «Mi rincresce per l'ictus di sua madre, signor Rosai. Certo, è una vera tragedia che i soccorritori abbiano dovuto sfondare la porta con la chiave rotta nella serratura perdendo secondi preziosi. Sì, i ragazzi stanno bene. Ma certo, lascerò che sia lei a informarli. Renderò piacevoli le loro vacanze qui da noi.»
Terminata la comunicazione, la Hartman fa una telefonata: «Pronto? Comune di Miron? Mi passi il sindaco.»
Dopo pochi secondi d’attesa una voce maschile risponde gelida: «Direttrice Hartmann. Cos’altro hanno combinato, i suoi allievi? Un nuovo giro in fabbrica?»
«È appunto di questa che volevo parlarle, signor sindaco. Io le suggerisco provvedimenti drastici.»
«Devo parlare con gli eredi del signor Füller.»
«Lo faccia immediatamente.» La Hartmann inspira e si impone una gelida cortesia. «Non intendo tollerare ancora certi rischi per colpa delle beghe dei Füller. Sa chi erano gli studenti finiti in quell’edificio pericolante? I figli di Fulvio Rosai. Sì, l’industriale. Lo dico anche nel suo interesse. Buona giornata.»
Si volta verso la finestra e ammira il panorama rischiarato dal sole estivo.
***
Due ore dopo, fra le montagne riecheggia un boato.
La fabbrica di porte non esiste più.
Di Alexandra Fischer
Fiorenza si dirige di corsa verso la cabina accanto alla posta; il numero della Forestale è il terzo di quelli di emergenza.
Lo compone e l’operatore le risponde dopo uno squillo: «Qui Unità Forestale di Miron. Dite.»
Fiorenza trema di freddo e batte i denti: «C’è stato un incidente alla fabbrica abbandonata accanto all’Istituto Freiheit. Chiedo aiuto immediato.»
«Resti in linea.»
Segue una pausa, nella quale le folate di vento e la pioggia sembrano far volare via la cabina.
L’operatore torna al telefono: «Abbiamo già mandato una squadra. Lei dove si trova?»
Fiorenza riattacca e corre in direzione del collegio.
Un’auto le taglia la strada a metà percorso e un finestrino si abbassa; il volto dagli zigomi alti e gli occhi azzurri gelidi della Hartmann la paralizzano: «Salga immediatamente.»
Fiorenza le obbedisce sentendosi di nuovo bambina.
La Direttrice guida con gli occhi fissi alla strada e si comporta come se lei non fosse a bordo, i gesti al volante e il cambio delle marce ne lasciano trapelare il nervosismo.
Fiorenza si aggrappa al sedile e si sente sollevata solo quando vede l’Istituto: per la prima volta, prova una sorta di rassicurazione a vedere quella struttura ottocentesca a torrette e bifore.
Nota che c’è la luce accesa all’ultimo piano e il cuore le palpita di speranza.
La Direttrice spegne l’automobile ed è solo allora che sembra accorgersi di lei; le si rivolge in tono tagliente: «Mi ha davvero fatta lavorare parecchio, signorina Rosai. E la avverto che c’è una telefonata per lei da parte di sua nonna.»
Fiorenza azzarda: «Ma, e mio fratello?»
La Hartmann la spinge verso la porta d’ingresso: «È in infermeria.»
«Posso vederlo?»
«Glielo sconsiglio.»
Le parole della Direttrice le mozzano il fiato: si aggrappa al corrimano e sale i gradini con lentezza.
La Hartmann si ferma in cima alla prima rampa di scale: «Si sbrighi. Sua nonna ha già telefonato una volta.»
«E cosa sa?» le domanda Fiorenza aggrappandosi a tutta la sua capacità di controllo.
La Direttrice le rivolge un sorriso sardonico: «Ho deciso di lasciare a lei il compito di raccontare l’escursione di quest’oggi.»
La Hartman la precede impettita nell’impermeabile nero e lei la segue lungo il corridoio.
Non intende guardare le fotografie degli allievi degli anni precedenti, la farebbero crollare e a lei serve parecchia forza.
Il tratto per arrivare all’ufficio della Direttrice è fin troppo breve: la Hartman la invita a sedersi con un gesto secco e si accomoda sulla poltrona.
Sposta verso di lei il cellulare con l’espressione di uno scacchista che ha appena sconfitto l’avversario: «Sua nonna non tarderà a richiamare e credo sarà una telefonata molto interessante, non crede?»
Scuote la testa: «La compatisco, sa? La colpa è stata di suo fratello.»
Fiorenza si irrigidisce: «Eravamo insieme. Quindi, punisca anche me.»
La Hartman agita la mano: «No.»
Prima che Fiorenza possa ribattere, il cellulare suona e lei lo afferra con il coraggio della disperazione, tuttavia, riesce a controllare il tono: «Ciao, nonna. Come stai? Scusa, ma sono stanca, sì. L’escursione è andata bene.»
Dall’altro capo del filo, la risposta della nonna le fa l’effetto di una secchiata d’acqua gelida: «Non mentire con me. So bene cosa è successo.» La voce le si spezza e si carica di terrore: «Li ha liberati. E ora sono tornati per me.»
Fiorenza è sconvolta: «Nonna, ma cosa dici?»
All’altro capo della linea telefonica c’è il suono di un oggetto metallico buttato sul tavolo, la voce della nonna si fa supplichevole, parla a qualcun altro: «Sì, sì. Eccola.»
Le urla della nonna e il silenzio che ne segue la fanno tremare, ma il culmine del terrore arriva quando sente un paio di risate di ragazzini.
Il cellulare le cade sulla scrivania e Fiorenza sobbalza per l’ennesimo fulmine.
La Hartman lo raccoglie e se lo porta all’orecchio; assume un’aria ancora più severa: «Pronto, signora Rosai, mi sente?»
Impallidisce e stringe il telefono fino a farsi imbiancare le nocche: «No, io sono la Direttrice Hartman. La Springer? Come sarebbe a dire che è lei la Direttrice?»
Preme il pulsante di fine chiamata e rivolge uno sguardo attonito a Fiorenza: «Scusi se glielo chiedo, ma lei ha dei cugini burloni che vivono con sua nonna? E chi è la Springer?»
La ragazza scuote la testa: «Tiziano e io siamo gli unici nipoti.» Impallidisce e si porta la mano alla fronte. «La Springer diresse l’istituto prima di lei. Lo so da mia nonna.»
Fiorenza fa un ultimo sforzo: «Ne parlava sempre con grande affetto: fu la prima a incoraggiarla nell’arte.»
Si aggrappa al braccio della Hartman: «Mi ascolti, a casa mia è successo qualcosa di grave. Mi porti da Tiziano.»
La Direttrice accenna un diniego con la testa, si morde il labbro e annuisce.
Escono dall’ufficio e salgono una rampa di scale: la Hartman bussa alla porta e l’infermiera apre soltanto uno spiraglio della porta.
La Direttrice non si lascia intimidire: «Ci faccia entrare, infermiera Hussel.»
Fiorenza interviene: «La prego. Devo vedere mio fratello. Come sta?»
L’infermiera Hussel apre la porta con estrema cautela: «Ha riempito il muro della stanza fino a consumare il carboncino. Ne aveva quattro pezzi in un sacchetto.»
La Hartman se ne stupisce: «Ma, e i sedativi?»
«Su di lui sono stati inutili» le risponde l’infermiera con un’espressione sconfitta. «Ma è giusto che lei e la signorina Rosai vediate.»
Le precede lungo un corridoio, apre la porta, e a Fiorenza sfugge un grido di raccapriccio: sul muro c’è una serie di disegni.
Il primo è quello di due ragazze che si prendono per i capelli sotto lo sguardo di un ragazzo.
La prima ha i capelli ricci stretti in una fascia e lunghi quasi al collo, la seconda porta i capelli corti: un taglio sbarazzino, di gran moda negli Anni Venti.
Nella scena successiva c’è la ragazza dai capelli corti, davanti a una porta; sogghigna, con una chiave in mano.
I disegni diventano sempre più confusi: si vedono figure umane sproporzionate e piatti e bicchieri dai quali escono vermi e blatte.
Fiorenza singhiozza alla vista di Tiziano addormentato nel letto.
I suoi occhi vanno alla Hartman: la vede annichilita.
Deglutisce e le parla a bassa voce: «Nel disegno ci sono due compagni di collegio di mia nonna. Per favore, scopra cosa ne è stato di loro.»
La Direttrice le sussurra: «Posso controllare l’elenco degli allievi.»
L’infermiera interviene: «Prima di addormentarsi, il signor Tiziano ha nominato l’ospedale Schmulder.»
La Hartman spalanca gli occhi e la voce le esce spezzata: «Come? L’ospedale psichiatrico?»
L’infermiera annuisce.
Fiorenza si aggrappa alla pediera del letto, si gira verso la Direttrice e grida: «Perché?»
Tiziano si sveglia; Fiorenza nota che è tornato quello di sempre, allora gli si avvicina e gli prende la mano: «Stai bene?»
«Sì. Sono solo stanco. Mi fanno male le mani e mi dispiace. Si chiamavano Adelinde Jonilek e Kuno Riesler. La nonna credeva di poter comperare tutto e tutti. Voleva Kuno, ma lui la respinse. Aveva scelto Adelinde. La nonna si finse rassegnata, ma quando arrivò l’occasione della gita di istruzione alla fabbrica, si sfregò le mani; li chiuse dietro quella porta. Era la prima domenica di vacanza aziendale, e loro trascorsero due settimane di fame e sete. Impazzirono. Li ricoverarono a Schmulder e non ne uscirono più.»
Fiorenza si gira verso la Hartman: «Eppure la nonna terminò gli studi. Come è possibile?»
La Direttrice avvampa di vergogna e sussurra: «Denaro.»
Tiziano le domanda: «Lei mi crede ancora pazzo?»
La Hartman scuote la testa: «No. Lei e sua sorella potete restare. Mi riservo il beneficio del dubbio.»
Si rivolge a Fiorenza: «Venga, sarà stanca.»
***
Dopo aver accompagnato Fiorenza in camera, la Direttrice fruga in archivio e controlla la lista delle attività extrascolastiche di settant’anni prima: la data della gita alla fabbrica di porte le fa venire i brividi.
Quando passa alla scheda degli ex compagni di Leda Rosai legge la breve nota della Springer: menziona un esaurimento nervoso per i due citati dalla Hussel.
Ricaccia indietro le lacrime.
La mattina dopo, fa trasferire altrove il locale dell’infermeria e chiudere a chiave la stanza con i disegni.
Non si stupisce della chiamata di Fulvio Rosai alle otto del mattino: mantiene la stessa cortesia formale di sempre: «Mi rincresce per l'ictus di sua madre, signor Rosai. Certo, è una vera tragedia che i soccorritori abbiano dovuto sfondare la porta con la chiave rotta nella serratura perdendo secondi preziosi. Sì, i ragazzi stanno bene. Ma certo, lascerò che sia lei a informarli. Renderò piacevoli le loro vacanze qui da noi.»
Terminata la comunicazione, la Hartman fa una telefonata: «Pronto? Comune di Miron? Mi passi il sindaco.»
Dopo pochi secondi d’attesa una voce maschile risponde gelida: «Direttrice Hartmann. Cos’altro hanno combinato, i suoi allievi? Un nuovo giro in fabbrica?»
«È appunto di questa che volevo parlarle, signor sindaco. Io le suggerisco provvedimenti drastici.»
«Devo parlare con gli eredi del signor Füller.»
«Lo faccia immediatamente.» La Hartmann inspira e si impone una gelida cortesia. «Non intendo tollerare ancora certi rischi per colpa delle beghe dei Füller. Sa chi erano gli studenti finiti in quell’edificio pericolante? I figli di Fulvio Rosai. Sì, l’industriale. Lo dico anche nel suo interesse. Buona giornata.»
Si volta verso la finestra e ammira il panorama rischiarato dal sole estivo.
***
Due ore dopo, fra le montagne riecheggia un boato.
La fabbrica di porte non esiste più.