Sia lode a Te e così sia
Inviato: domenica 18 ottobre 2020, 10:22
Lode a Te e così sia
Di Eugene Fitzherbert
1.
Afferro il battente della porta della chiesa e lo spingo contra la signora Santina. Lei non si toglie di mezzo. Tiene la borsetta con le mani all’altezza del petto enorme. Gli anelli affondano in mezzo alla carne delle dita. Sorride.
Mi appoggio alla porta. «Signora, devo chiudere la Chiesa. Sono le nove passate.»
«Dai, Alfio, che vuoi che siano due minuti.» I denti davanti sono sporchi di rossetto. «Dimmi, hai telefonato a Dio?» E ridacchia.
Che c’è di divertente? «Dio non è disponibile. Però gli scrivo su Whatsapp.» Mi sposto e appoggio la spalla alla porta. La signora Santina arriccia le labbra porcine in un sorriso. Ma che avrà mai da ridere? «La prego. Devo chiudere.»
«Aspetta un secondo.» Stacca una mano dalla borsetta e la avvicina alle labbra. «E chi te l’ha dato questo numero?» Sussurra.
«Me lo ha dato Padre Pietro all’orfanotrofio.»
«Posso averlo anche io? Ti prego.» Ride ancora. Le trema la faccia e gli occhi spariscono tra le guance. «Devo scrivergli.»
Chissà che ti venga a prendere e ti porti all’inferno! «Non me lo ricordo, il numero. Ce l’ho salvato sul cellulare.» Le vorrei staccare il sorriso dalla faccia con tutto il rossetto e metterglielo nella borsetta.
«Che peccato! Volevo tanto raccontargli di mio marito.» Sghignazza ancora. Odiosa. «Sai, mi tocca di notte, anche se ha una certa età. Quel mascalzone!»
Arrossisco: non si possono dire certe cose in chiesa. Per fortuna che siamo solo io e lei. «Signora Santina! Ma le pare? Si pulisca la bocca.»
Lei butta la testa all’indietro e scoppia a ridere.
Chiudo la porta e un tonfo riecheggia per tutta la chiesa. Poggio l’orecchio al battente. I passi della signora Santina si allontanano: «Il telefono di Dio… Ahah, che scemo!»
Mi imbroncio. Non sono scemo. Stupida signora Santina! Io ho davvero il telefono di Dio! E il numero lo ricordo anche a memoria: 3312718281. Tiè! Non potrai mai raccontare le tue schifezze a Dio. Dio ascolta solo me! Lode a te e così sia.
Mi sarebbe piaciuto staccarle il sorriso. Anche spezzarle le dita grasse.
Mi porto la mano alla bocca. Non pensar male, se no il male ti raggiunge. Lo dice Padre Pietro e lui ha sempre ragione.
Mi stacco dalla porta e giro per i corridoi laterali e spengo tutte le candele. Gli sbuffi di fumo odorano di cera bruciata, e prudono il naso. Le navate sono scure, ma io non ho paura. Don Pietro mi ha sempre detto che il buio nella chiesa è un posto sicuro. Non devo temere alcun male.
Mi fermo davanti alla Vergine Maria Addolorata.
La adoro: è una statua bellissima. Ha gli occhi scuri, rivolti verso l’alto, sofferenti. Le mani sono giunte in preghiera, perché lei è in comunione con Dio. Le sue vesti sono nere, con i ricami in oro. E il suo dolore è un pugnale conficcato nel cuore fino all’elsa.
Quanta sofferenza! Quanta bellezza! Lode a Te e così sia!
È tardi! Devo spegnere tutto e chiudere tutto. Un buon sacrestano non si distrae mai! È sempre pronto a fare il suo lavoro. Questo mi dice Padre Pietro. E lui ha sempre ragione.
2.
Nel letto, al buio, la signora Santini mi ride nell’orecchio, la sua faccia tremula sghignazza e i suoi denti macchiati di rossetto brillano. Mi giro sul fianco destro e metto il braccio sotto il cuscino.
Chiudo gli occhi e mi copro la faccia con il lenzuolo. La signora Santini si muove con me: la lingua le guizza fuori dalle labbra e lecca il rossetto.
La maglietta si attacca alla schiena bagnata di sudore e le gambe mi tremano: dormire è un miraggio.
Mi rigiro e allungo la mano verso il comodino. Sposto il rosario e prendo il cellulare. La luminosità del display mi acceca e cancella le immagini della signora Santini. Lode a te e così sia.
Apro Whatsapp: ci sono solo due numeri in rubrica. Scelgo Dio.
Le mie dita scivolano sulla tastiera a schermo: “Caro Dio, oggi ho commesso un peccato, credo. Ho pensato di fare del male alla Signora Santina.” Fermo il pollice prima di cliccare su invio. Dio conosce tutte le verità, dice sempre Padre Pietro. Inutile nascondersi. Aggiungo: “Le volevo strappare la faccia e spezzare le dita. Mi dispiace! Non ce l’ho fatta a trattenermi. Ma lei anche ha detto cose impure nella tua casa. Non si fa. Scusa, Dio. Faccio penitenza.”
Clicco invio. Il messaggio arriva a destinazione. Le spunte non diventano blu. Prima o poi lo saranno. Lode a te e così sia!
Rimetto il cellulare sul comodino e mi metto a sedere sul letto.
Scalzo sul pavimento freddo, muovo pochi passi in fondo alla stanza. Accarezzo il muro di fronte a me: ecco l’interruttore. Lo attivo.
Due file di candele elettriche si accendono: in una nicchia c’è una statua della Madonna Addolorata. È circa un terzo di quella della chiesa e mi arriva alla spalla ma ha gli stessi dettagli. Mi inginocchio e chiudo gli occhi. «Scusa, Maria Addolorata per ciò che ho fatto. Chiedo scusa anche alla signora Santini. Non volevo pensare quelle cose.»
Riapro le palpebre e afferro il manico del pugnale infilzato nel cuore della statua. Lo sfilo. La lama luccica alla luce delle candele.
Da un cassettino sotto la nicchia prendo una coppetta di ottone piena di ostie.
Passo il dito sulle cicatrici e sulle croste del braccio. Scelgo una zona integra e poggio il coltello. Mi taglio.
Strizzo gli occhi, il dolore bruciante mi rischiara e lava via i cattivi pensieri.
Spremo la pelle e faccio colare il sangue sulle ostie.
Fuori dalla finestra, il rumore lontano di una moto mi distrae. Qualche goccia cade fuori dalla ciotola.
Prendo due ostie macchiate di rosso. Chiudo gli occhi. «Il tuo corpo e il mio sangue. Per togliere i miei peccati.»
Lode a te e così sia.
Infilo le ostie in bocca: un sapore metallico e amaro mi invade il palato.
Il rumore della moto è altissimo, un clangore che fa vibrare le finestre.
Le ostie si sciolgono sulla lingua in una poltiglia che si appiccica ai denti.
Lo schianto in strada fa tremare pavimento sotto le ginocchia.
Ingoio il mio pasto purificatore e spalanco gli occhi. Mi lancio verso la finestra: una moto giace ribaltata sul ciglio della strada e due corpi sono riversi al suolo.
Che faccio?
Non si muovono. La moto fuma alla luce dei lampioni.
Dio, aiutami. Cosa fare?
Blip
Sul comodino il display del cellulare si è acceso. Una risposta da 3312718281: “Salvali. Salva LEI!”
La scritta trema al ritmo della mia mano. Dalla bocca spalancata mi cola un filo di bava. Mi ha risposto. Mi ha scelto!
Blip “Presto!”
Vado in strada in mutande, solo una maglia bianca addosso e il rivolo di sangue che mi macchia il braccio fino al polso. I due caduti dalla motocicletta sono immobili. E se sono morti? Non posso perdere altro tempo. Devo salvarli: è Dio che me lo ha chiesto. No, non me lo ha chiesto. Me lo ha ordinato. E non si lascia aspettare Dio. Me lo dice sempre Padre Pietro.
3.
Trascino per le ascelle il primo corpo.
Urto con gli stinchi il casco blu con la visiera oscurata. Come fa a vedere qualcosa di notte con quella visiera? È normale che si sia schiantato. Ben gli sta. Non si sfida Dio al gioco della morte.
Il corpo è pesante e inerte. Ha il braccio destro piegato verso l’esterno e il giubbotto di pelle nero è lacerato sulla spalla. Sotto la carne sanguina e mi macchia le mani.
Lo porto in camera mia e lo lascio vicino al letto.
L’altra è una femmina. È minuta, leggera.
La adagio di fronte alla statua della Addolorata. Anche lei ha un casco, ma la visiera è alzata: ha due occhi stupendi, rivolti verso l’alto: si vede il bianco con tante venuzze e metà delle iridi scure. Anche se il naso è macchiato di sangue e la bocca è ritorta in una smorfia, sembra una delle creature più belle del mondo. Lode a te e così sia!
Le slaccio il cinturino del casco: il suo respiro è un gorgoglio piacevole, come un fiume che saltella tra le rocce di montagna. Le libero la testa dall’elmetto e i capelli color oro si spargono sul pavimento. Striature di sangue partono dall’orecchio destra verso il collo e la mandibola è gonfia, ma è stupenda. Il petto si alza e si abbassa. La giacchetta che indossa è nera, con intarsiature color oro e borchie argentate. La cerniera è abbassata e la maglia sotto è rossa: una scheggia di vetro è infilzata nel seno di sinistra.
I jeans neri sono attillati e lo squarcio sulla gamba destra lascia scoperta le pelle graffiata. Il sangue ha fatto una pozza negli stivali alti fino al ginocchio e cola sul pavimento. Il piede punta verso l’esterno.
E ora? Che si fa?
Blip! “Guardala. Chi ti sembra?”
L’ho appena guardata. È una ragazza…
Il respiro mi si mozza in gola.
Gli occhi: rivolti verso l’alto. Il vestito: nero con intarsi d’oro. I capelli: dorati. Il petto: trafitto
È l’Addolorata.
Blip! “Lo Spirito Santo verrà su di lei e l’ombra dell’Altissimo la coprirà dell’ombra sua.”
«Cosa devo fare?»
Prendo il cellulare: clicco sul 3312718281 e ‘Chiama Contatto’.
Metto il telefono in vivavoce. Rispondi, Dio, rispondi!
«Sii il mio Spirito Santo. Scendi su di lei, Alfio.»
La voce di Dio che cita la parola di Dio. Un miracolo nel miracolo. Lode a te e così sia!
Slaccio i pantaloni di Maria, un bottone una cerniera. Li afferro per le tasche e li strattono verso il basso: vengono via con tutte le mutande. Lei geme e ruota la testa.
Mi porto le mani alla bocca. Il sesso è un ciuffo di peli rossicci alla luce delle candele finte. Deglutisco.
«Non ti fermare.» Dal telefono la voce non mi lascia scampo. La parola di Dio è un imperativo. Padre Pietro me lo dice sempre.
Mi lecco le labbra. La statua dell’Addolorata piange la sua disperazione con gli occhi al cielo. Mi dà forza.
Un’erezione mi stira le mutande. Con la punta delle dita afferro l’elastico e scopro quello che ho tra le gambe. Attento a non toccarlo con le mani (Sono atti impuri! mi dice sempre Padre Pietro), mi stendo su Maria. Sono lo Spirito Santo e scendo su di lei.
Puntello di gomiti sul pavimento accanto al volto della ragazza e muovo il bacino e spingo.
«Bravo, così!» La voce dal cellulare mi dà la forza.
Entro in un mondo morbido e caldo. È la prima volta: è umido, pulsa. Scivolo fuori e rientro. Il respiro di Maria mi solletica l’orecchio. Avvicino le mie labbra alle sue. La mia lingua assaggia il sapore metallico e sanguinolento della sua saliva.
Cos’è?
«Ci sei quasi!»
Un’esplosione di energia mi inarca la schiena. Mi stacco dalla bocca di Maria: un filo di bava rosata ci tiene legati. Digrigno i denti. Non riesco a trattenermi, tremo tutto, estendo il collo, contraggo il sedere e allungo le gambe.
«Sì! Sei il Padre!» Dall'altoparlante del telefono, la voce è trionfante.
Il cuore rallenta, il mio respiro ansimante si calma. Le gambe sono molli. Scivolo fuori dalla mia Maria e mi metto carponi su di lei. È il più bel miracolo che potesse accadermi.
Dio mi ha parlato! Capito, signora Santini? Mi ha chiamato! Sono lo Spirito Santo. Sono il Padre.
Lode a te e così sia!
Abbasso la testa sul volto della mia Maria: mugola. Il respiro è gracchiante, come legna spezzata prima dell’inverno. Un rivolo di saliva le cola dalla bocca. Lo raccolgo con un dito e lo riporto tra le labbra. Ora covi il frutto nel tuo grembo, Maria. Il mio frutto. Sei radiosa.
Una mano mi afferra la caviglia. «Ehi! Che cazzo fai alla mia ragazza!»
Con il cuore in gola, rotolo supino a destra di Maria. Scalcio: colpisco il casco del ragazzo e il dolore alla caviglia nuda mi risale fino all’anca. Mi spingo sui talloni e sulle mani. Il sedere nudo scivola sul pavimento freddo. «Eri morto!»
«Beh, non abbastanza.» Ha la visiera alzata: porta gli occhiali e una lente è crepata nel mezzo. «Sei un lurido pervertito.» La voce è soffocata dal casco. Si mette carponi, appoggiato al braccio sinistro. In equilibrio su un ginocchio, si slaccia il casco e lo tiene per la fibbia. Si guarda intorno. «Desireée. Mi senti? Cristo!»
Ha i capelli lunghi. Scuri. Le labbra piene sono macchiate di rossetto e da sotto gli occhiali colano segni neri sbavati. La sua voce è stridula. La indico: «Sei femmina!»
«E tu sei un pazzo fottuto.» Si muove verso la mia Maria. «Che hai fatto alla mia ragazza?» Singhiozza.
Dal telefono arriva la voce di Dio. «Quel che è morto deve restare morto.»
Gli occhiali con la lente crepata sono rivolti verso di me: la bocca è curvata verso il basso, le narici si aprono e si chiudono. Contrae il pugno sinistro, la mano destra è immobile lungo il corpo, gonfia.
«È un’invertita. Ricorda Sodoma.» Il vivavoce ha ragione.
«Devi restare morta, sei contronatura! Lo ha detto Dio.» Mi metto in piedi e indico il mio cellulare.
«Che diavolo dici? Continua a ripetere che il numero è inesis—»
Mi lancio verso di lei e la spingo. Cade sul sedere e la testa urta contro il comodino. Alza una gamba e mi dà un calcio allo stomaco. Mi piego in due, il respiro mozzo e due lacrime che mi scendono dagli occhi.
Prendo un respiro, faccio un passo indietro e le do un calcio in faccia con il piede nudo. Il rumore è quello di uno schiaffo dato con i guanti di pelle. Gli occhiali della ragazza volano via. Il sangue macchia le lenzuola.
Si mette carponi e le do un altro calcio sul sedere. Sbatte con la faccia contro il letto così forte da spostarlo.
«Brutto stronzo, ti uccido.» Farfuglia con la faccia a terra.
«Se Dio ha deciso che sei morta, non puoi tornare in vita.» Glielo spiego come fa Padre Pietro con me quando non capisco qualche passaggio difficile delle Sacre Scritture. «Ora te lo faccio entrare nella testa.»
Prendo il rosario dal comodino e lo lascio pendere tra le dita. Alle mie spalle, la mia Maria, la Madre del Frutto Immacolato, geme e tossisce piano. Non preoccuparti, cara, tornerò a occuparmi di te tra un momento.
Alzo il braccio e frusto con il rosario la testa della ragazza. La croce di metallo la ferisce e si impiglia tra i capelli. La strappo via e la colpisco ancora: strilla, si dimena, ma sono inesorabile come la collera divina. Qualche goccia di sangue salta via, come una coccinella a primavera. La sgualdrina si porta una mano sulla testa insanguinata, ma gliela blocco con il piede. «Senti che il concetto ti entra in testa?» Proprio come mi dice sempre Padre Pietro. Un altro colpo e la croce di metallo si pianta nella pelle dietro l’orecchio e si stacca: in mano mi resta la collana del rosario.
Mi siedo sulla schiena della ragazza. Lei geme sotto il mio peso. «E ora vai dove Dio vuole che tu vada.» Le avvolgo il rosario intorno al collo. «All’inferno, invertita!» E tiro, prima con la mano destra e poi con la sinistra. I grani del rosario grattano sulla pelle, come piccoli denti di una sega.
La ragazza emette suoni strozzati, catarrosi. Batte con la mano destra sul pavimento. Sotto di me, si dimena, scalcia, ma io sono più pesante. Tendo il rosario ancora una volta e cede. Si è rotto? Un rumore sfiatante viene dalla gola della ragazza e il suo torace si vuota all'improvviso. Non lo sento alzarsi. Sotto di lei, una pozza di sangue si allarga scura sul pavimento fin sotto il letto. Il suono gracchiante è sparito. Anzi, non emette più suoni. Fa un paio di singhiozzi, poi si accascia. Qualche bollicina rossastra si gonfia tra il collo e il giubbotto lacerato.
«Bravo! Sia fatta la parola di Dio!» Lode a Te e così sia!
4.
Mi alzo. I capelli scuri della ragazza si allargano a raggiera intorno alla testa e galleggiano nel sangue. Sorrido.
Faccio un passo indietro per non sporcarmi i piedi. Un dolore lancinante al tallone mi fa urlare. Mi afferro un piede, in equilibrio su una gamba sola: estraggo la lente degli occhiali della morta dalla pelle dura calcagno. «Dannaz—» Mi mordo la lingua.
Chi impreca offende Dio e Dio si vendica. Questo mi dice sempre Padre Pietro.
«Non ho detto niente.» Dico al telefono. «Niente.»
Abbasso la testa in segno di scuse, spero che Dio non mi abbia sentito.
Non arriva risposta. Forse sono salvo. Niente vendetta…
Il mio piede scivola nel sangue. Faccio un saltello, mulinello le braccia, ma la forza di gravità è inesorabile. Dio ci vuole tutti a terra. Padre Pietro ha sempre ragione.
Cado all’indietro. Mi schianto al suolo di schiena, e il tonfo mi toglie il respiro e mi fa chiudere gli occhi. Con il gomito destro urto qualcosa che risponde con un crack ovattato. Spero che non si sia rovesciata la statua dell’Addolorata.
Faccio un paio di respiri e il dolore si allarga dalla schiena alla spalla destra. Riapro gli occhi con un gemito e mi metto a sedere. «La vendetta di Dio è arrivata comunque, mia Maria.» Deglutisco «Me la sono meritata.» Lode a Te e così sia.
Lei non mi risponde. C’è qualcosa di sbagliato nel suo volto. Sarà un’illusione per la luce della candele finte: perché la parte destra della faccia è incavata? L’occhio è affondato nell’orbita e lo zigomo è schiacciato. La accarezzo. Sotto la pelle, le ossa sono frastagliate, come passare le dita su un pacco di riso già aperto. La faccia è cedevole, i lineamenti asimmetrici sono franati verso l’orecchio.
Il petto non si muove.
«No. Non può essere.» Il cuore perde un battito.
Questa è la vera vendetta divina. Perché ho imprecato? Perché mi hai tolto la mia Maria, Dio? Cosa posso fare per riaverla?
Mi metto seduto e mi guardo intorno.
«Rispondimi, per favore! Cosa posso fare?»
Sono solo. Singhiozzo. Dio, perché non mi aiuti? Perché non mi lasci un segno?
Le lacrime mi rigano il volto e sanno di sangue e sale.
L’uomo devoto ringrazia Dio per aver trovato la soluzione, mi ripeteva sempre Padre Pietro. E nel momento di afflizione, la sofferenza è giovamento.
Sto soffrendo! Perché non mi arriva alcun giovamento. Di solito, mi taglio, il sangue e il dolore mi curano. Ma ora? Cosa devo tagliare?
Strabuzzo gli occhi e mi porto una mano alla bocca. Eccola, la soluzione. Ce l’avevo proprio sotto gli occhi. Era Dio che mi metteva alla prova.
Lode a te e così sia!
Prendo il pugnale dell’Addolorata, ancora macchiato del mio sangue secco.
Distolgo lo sguardo dal sesso della mia Maria e mi concentro sulla pancia. Affondo la lama sotto l’ombelico. È come tagliare gomma, molliccia e inerte. Non sanguina. Traccio un solco verticale verso il pube: i lembi sono rosati in superficie e giallastri in profondità. A metà strada la lama si spezza con un clack.
Grugnisco. Lo squarcio non è sufficiente: non ci entrano neanche due dita.
C’è una soluzione: dal seno sinistro della mia Maria estraggo la scheggia di vetro. È così affilata che mi sanguina la mano. Meglio. La sofferenza è giovamento.
Il vetro trancia la carne morbida della mia Maria e il mio sangue sporca la ferita e si raccoglie nella sua pancia. Il taglio è abbastanza largo e ci infilo una mano. Dentro è come rovistare in un acquario tiepido pieno di salsicce. L’odore acre di frattaglie mi fa venire un conato di vomito.
Gli intestini gorgogliano e sciaguattano quando li sposto con il braccio infilato fino al gomito. Con la mano, tocco qualcosa di tondo e rigido: si muove sotto le mie dita! Trattengo il respiro, e quello mi sfugge. Grugnisco e cerco più in profondità.
Eccolo!
Lo sfioro appena e quella specie di ovetto si adagia nel palmo. È caldo. Chiudo le dita, ma non stringo. Estraggo il frutto del grembo: sta in un palmo della mano e all’interno di una membrana rossastra si agita una creatura a forma di girino.
E ora?
Ora la sofferenza. È naturale.
Mi sollevo la maglia insanguinata e sudata e la incastro tra i denti. Con una mano tengo il frutto del grembo, con l’altra prendo la scheggia di vetro e la punto sul mio ventre scoperto. Chiudo gli occhi, stringo i denti e affondo.
Il dolore mi risale fino al petto e mi toglie il respiro. Gli occhi si riempiono di lacrime e la fronte si imperla di sudore. La mano mi trema, ma taglio ancora un po’.
Il sangue mi bagna le mutande e si raccoglie tra le gambe. È caldo e si appiccica alle chiappe.
Appoggio l’ovetto rosato sulla breccia. Mi solletica la pelle lacerata. Rotola e entra nella mia pancia. Si adagia dentro di me, caldo e pulsante.
I contorni della stanza sono un po’ sfocati. La ragazza con la gola squarciata si volta. La mia Maria mi posa una mano fredda sulla gamba. L’Addolorata abbassa il suo sguardo disperato su di me: sorride. Il display del cellulare si spegne.
Mi tocco la pancia insanguinata.
Sono lo spirito Santo.
Sono il Padre.
E ora sono il Figlio.
Sono Dio!
Lode a Me e così sia.
Di Eugene Fitzherbert
1.
Afferro il battente della porta della chiesa e lo spingo contra la signora Santina. Lei non si toglie di mezzo. Tiene la borsetta con le mani all’altezza del petto enorme. Gli anelli affondano in mezzo alla carne delle dita. Sorride.
Mi appoggio alla porta. «Signora, devo chiudere la Chiesa. Sono le nove passate.»
«Dai, Alfio, che vuoi che siano due minuti.» I denti davanti sono sporchi di rossetto. «Dimmi, hai telefonato a Dio?» E ridacchia.
Che c’è di divertente? «Dio non è disponibile. Però gli scrivo su Whatsapp.» Mi sposto e appoggio la spalla alla porta. La signora Santina arriccia le labbra porcine in un sorriso. Ma che avrà mai da ridere? «La prego. Devo chiudere.»
«Aspetta un secondo.» Stacca una mano dalla borsetta e la avvicina alle labbra. «E chi te l’ha dato questo numero?» Sussurra.
«Me lo ha dato Padre Pietro all’orfanotrofio.»
«Posso averlo anche io? Ti prego.» Ride ancora. Le trema la faccia e gli occhi spariscono tra le guance. «Devo scrivergli.»
Chissà che ti venga a prendere e ti porti all’inferno! «Non me lo ricordo, il numero. Ce l’ho salvato sul cellulare.» Le vorrei staccare il sorriso dalla faccia con tutto il rossetto e metterglielo nella borsetta.
«Che peccato! Volevo tanto raccontargli di mio marito.» Sghignazza ancora. Odiosa. «Sai, mi tocca di notte, anche se ha una certa età. Quel mascalzone!»
Arrossisco: non si possono dire certe cose in chiesa. Per fortuna che siamo solo io e lei. «Signora Santina! Ma le pare? Si pulisca la bocca.»
Lei butta la testa all’indietro e scoppia a ridere.
Chiudo la porta e un tonfo riecheggia per tutta la chiesa. Poggio l’orecchio al battente. I passi della signora Santina si allontanano: «Il telefono di Dio… Ahah, che scemo!»
Mi imbroncio. Non sono scemo. Stupida signora Santina! Io ho davvero il telefono di Dio! E il numero lo ricordo anche a memoria: 3312718281. Tiè! Non potrai mai raccontare le tue schifezze a Dio. Dio ascolta solo me! Lode a te e così sia.
Mi sarebbe piaciuto staccarle il sorriso. Anche spezzarle le dita grasse.
Mi porto la mano alla bocca. Non pensar male, se no il male ti raggiunge. Lo dice Padre Pietro e lui ha sempre ragione.
Mi stacco dalla porta e giro per i corridoi laterali e spengo tutte le candele. Gli sbuffi di fumo odorano di cera bruciata, e prudono il naso. Le navate sono scure, ma io non ho paura. Don Pietro mi ha sempre detto che il buio nella chiesa è un posto sicuro. Non devo temere alcun male.
Mi fermo davanti alla Vergine Maria Addolorata.
La adoro: è una statua bellissima. Ha gli occhi scuri, rivolti verso l’alto, sofferenti. Le mani sono giunte in preghiera, perché lei è in comunione con Dio. Le sue vesti sono nere, con i ricami in oro. E il suo dolore è un pugnale conficcato nel cuore fino all’elsa.
Quanta sofferenza! Quanta bellezza! Lode a Te e così sia!
È tardi! Devo spegnere tutto e chiudere tutto. Un buon sacrestano non si distrae mai! È sempre pronto a fare il suo lavoro. Questo mi dice Padre Pietro. E lui ha sempre ragione.
2.
Nel letto, al buio, la signora Santini mi ride nell’orecchio, la sua faccia tremula sghignazza e i suoi denti macchiati di rossetto brillano. Mi giro sul fianco destro e metto il braccio sotto il cuscino.
Chiudo gli occhi e mi copro la faccia con il lenzuolo. La signora Santini si muove con me: la lingua le guizza fuori dalle labbra e lecca il rossetto.
La maglietta si attacca alla schiena bagnata di sudore e le gambe mi tremano: dormire è un miraggio.
Mi rigiro e allungo la mano verso il comodino. Sposto il rosario e prendo il cellulare. La luminosità del display mi acceca e cancella le immagini della signora Santini. Lode a te e così sia.
Apro Whatsapp: ci sono solo due numeri in rubrica. Scelgo Dio.
Le mie dita scivolano sulla tastiera a schermo: “Caro Dio, oggi ho commesso un peccato, credo. Ho pensato di fare del male alla Signora Santina.” Fermo il pollice prima di cliccare su invio. Dio conosce tutte le verità, dice sempre Padre Pietro. Inutile nascondersi. Aggiungo: “Le volevo strappare la faccia e spezzare le dita. Mi dispiace! Non ce l’ho fatta a trattenermi. Ma lei anche ha detto cose impure nella tua casa. Non si fa. Scusa, Dio. Faccio penitenza.”
Clicco invio. Il messaggio arriva a destinazione. Le spunte non diventano blu. Prima o poi lo saranno. Lode a te e così sia!
Rimetto il cellulare sul comodino e mi metto a sedere sul letto.
Scalzo sul pavimento freddo, muovo pochi passi in fondo alla stanza. Accarezzo il muro di fronte a me: ecco l’interruttore. Lo attivo.
Due file di candele elettriche si accendono: in una nicchia c’è una statua della Madonna Addolorata. È circa un terzo di quella della chiesa e mi arriva alla spalla ma ha gli stessi dettagli. Mi inginocchio e chiudo gli occhi. «Scusa, Maria Addolorata per ciò che ho fatto. Chiedo scusa anche alla signora Santini. Non volevo pensare quelle cose.»
Riapro le palpebre e afferro il manico del pugnale infilzato nel cuore della statua. Lo sfilo. La lama luccica alla luce delle candele.
Da un cassettino sotto la nicchia prendo una coppetta di ottone piena di ostie.
Passo il dito sulle cicatrici e sulle croste del braccio. Scelgo una zona integra e poggio il coltello. Mi taglio.
Strizzo gli occhi, il dolore bruciante mi rischiara e lava via i cattivi pensieri.
Spremo la pelle e faccio colare il sangue sulle ostie.
Fuori dalla finestra, il rumore lontano di una moto mi distrae. Qualche goccia cade fuori dalla ciotola.
Prendo due ostie macchiate di rosso. Chiudo gli occhi. «Il tuo corpo e il mio sangue. Per togliere i miei peccati.»
Lode a te e così sia.
Infilo le ostie in bocca: un sapore metallico e amaro mi invade il palato.
Il rumore della moto è altissimo, un clangore che fa vibrare le finestre.
Le ostie si sciolgono sulla lingua in una poltiglia che si appiccica ai denti.
Lo schianto in strada fa tremare pavimento sotto le ginocchia.
Ingoio il mio pasto purificatore e spalanco gli occhi. Mi lancio verso la finestra: una moto giace ribaltata sul ciglio della strada e due corpi sono riversi al suolo.
Che faccio?
Non si muovono. La moto fuma alla luce dei lampioni.
Dio, aiutami. Cosa fare?
Blip
Sul comodino il display del cellulare si è acceso. Una risposta da 3312718281: “Salvali. Salva LEI!”
La scritta trema al ritmo della mia mano. Dalla bocca spalancata mi cola un filo di bava. Mi ha risposto. Mi ha scelto!
Blip “Presto!”
Vado in strada in mutande, solo una maglia bianca addosso e il rivolo di sangue che mi macchia il braccio fino al polso. I due caduti dalla motocicletta sono immobili. E se sono morti? Non posso perdere altro tempo. Devo salvarli: è Dio che me lo ha chiesto. No, non me lo ha chiesto. Me lo ha ordinato. E non si lascia aspettare Dio. Me lo dice sempre Padre Pietro.
3.
Trascino per le ascelle il primo corpo.
Urto con gli stinchi il casco blu con la visiera oscurata. Come fa a vedere qualcosa di notte con quella visiera? È normale che si sia schiantato. Ben gli sta. Non si sfida Dio al gioco della morte.
Il corpo è pesante e inerte. Ha il braccio destro piegato verso l’esterno e il giubbotto di pelle nero è lacerato sulla spalla. Sotto la carne sanguina e mi macchia le mani.
Lo porto in camera mia e lo lascio vicino al letto.
L’altra è una femmina. È minuta, leggera.
La adagio di fronte alla statua della Addolorata. Anche lei ha un casco, ma la visiera è alzata: ha due occhi stupendi, rivolti verso l’alto: si vede il bianco con tante venuzze e metà delle iridi scure. Anche se il naso è macchiato di sangue e la bocca è ritorta in una smorfia, sembra una delle creature più belle del mondo. Lode a te e così sia!
Le slaccio il cinturino del casco: il suo respiro è un gorgoglio piacevole, come un fiume che saltella tra le rocce di montagna. Le libero la testa dall’elmetto e i capelli color oro si spargono sul pavimento. Striature di sangue partono dall’orecchio destra verso il collo e la mandibola è gonfia, ma è stupenda. Il petto si alza e si abbassa. La giacchetta che indossa è nera, con intarsiature color oro e borchie argentate. La cerniera è abbassata e la maglia sotto è rossa: una scheggia di vetro è infilzata nel seno di sinistra.
I jeans neri sono attillati e lo squarcio sulla gamba destra lascia scoperta le pelle graffiata. Il sangue ha fatto una pozza negli stivali alti fino al ginocchio e cola sul pavimento. Il piede punta verso l’esterno.
E ora? Che si fa?
Blip! “Guardala. Chi ti sembra?”
L’ho appena guardata. È una ragazza…
Il respiro mi si mozza in gola.
Gli occhi: rivolti verso l’alto. Il vestito: nero con intarsi d’oro. I capelli: dorati. Il petto: trafitto
È l’Addolorata.
Blip! “Lo Spirito Santo verrà su di lei e l’ombra dell’Altissimo la coprirà dell’ombra sua.”
«Cosa devo fare?»
Prendo il cellulare: clicco sul 3312718281 e ‘Chiama Contatto’.
Metto il telefono in vivavoce. Rispondi, Dio, rispondi!
«Sii il mio Spirito Santo. Scendi su di lei, Alfio.»
La voce di Dio che cita la parola di Dio. Un miracolo nel miracolo. Lode a te e così sia!
Slaccio i pantaloni di Maria, un bottone una cerniera. Li afferro per le tasche e li strattono verso il basso: vengono via con tutte le mutande. Lei geme e ruota la testa.
Mi porto le mani alla bocca. Il sesso è un ciuffo di peli rossicci alla luce delle candele finte. Deglutisco.
«Non ti fermare.» Dal telefono la voce non mi lascia scampo. La parola di Dio è un imperativo. Padre Pietro me lo dice sempre.
Mi lecco le labbra. La statua dell’Addolorata piange la sua disperazione con gli occhi al cielo. Mi dà forza.
Un’erezione mi stira le mutande. Con la punta delle dita afferro l’elastico e scopro quello che ho tra le gambe. Attento a non toccarlo con le mani (Sono atti impuri! mi dice sempre Padre Pietro), mi stendo su Maria. Sono lo Spirito Santo e scendo su di lei.
Puntello di gomiti sul pavimento accanto al volto della ragazza e muovo il bacino e spingo.
«Bravo, così!» La voce dal cellulare mi dà la forza.
Entro in un mondo morbido e caldo. È la prima volta: è umido, pulsa. Scivolo fuori e rientro. Il respiro di Maria mi solletica l’orecchio. Avvicino le mie labbra alle sue. La mia lingua assaggia il sapore metallico e sanguinolento della sua saliva.
Cos’è?
«Ci sei quasi!»
Un’esplosione di energia mi inarca la schiena. Mi stacco dalla bocca di Maria: un filo di bava rosata ci tiene legati. Digrigno i denti. Non riesco a trattenermi, tremo tutto, estendo il collo, contraggo il sedere e allungo le gambe.
«Sì! Sei il Padre!» Dall'altoparlante del telefono, la voce è trionfante.
Il cuore rallenta, il mio respiro ansimante si calma. Le gambe sono molli. Scivolo fuori dalla mia Maria e mi metto carponi su di lei. È il più bel miracolo che potesse accadermi.
Dio mi ha parlato! Capito, signora Santini? Mi ha chiamato! Sono lo Spirito Santo. Sono il Padre.
Lode a te e così sia!
Abbasso la testa sul volto della mia Maria: mugola. Il respiro è gracchiante, come legna spezzata prima dell’inverno. Un rivolo di saliva le cola dalla bocca. Lo raccolgo con un dito e lo riporto tra le labbra. Ora covi il frutto nel tuo grembo, Maria. Il mio frutto. Sei radiosa.
Una mano mi afferra la caviglia. «Ehi! Che cazzo fai alla mia ragazza!»
Con il cuore in gola, rotolo supino a destra di Maria. Scalcio: colpisco il casco del ragazzo e il dolore alla caviglia nuda mi risale fino all’anca. Mi spingo sui talloni e sulle mani. Il sedere nudo scivola sul pavimento freddo. «Eri morto!»
«Beh, non abbastanza.» Ha la visiera alzata: porta gli occhiali e una lente è crepata nel mezzo. «Sei un lurido pervertito.» La voce è soffocata dal casco. Si mette carponi, appoggiato al braccio sinistro. In equilibrio su un ginocchio, si slaccia il casco e lo tiene per la fibbia. Si guarda intorno. «Desireée. Mi senti? Cristo!»
Ha i capelli lunghi. Scuri. Le labbra piene sono macchiate di rossetto e da sotto gli occhiali colano segni neri sbavati. La sua voce è stridula. La indico: «Sei femmina!»
«E tu sei un pazzo fottuto.» Si muove verso la mia Maria. «Che hai fatto alla mia ragazza?» Singhiozza.
Dal telefono arriva la voce di Dio. «Quel che è morto deve restare morto.»
Gli occhiali con la lente crepata sono rivolti verso di me: la bocca è curvata verso il basso, le narici si aprono e si chiudono. Contrae il pugno sinistro, la mano destra è immobile lungo il corpo, gonfia.
«È un’invertita. Ricorda Sodoma.» Il vivavoce ha ragione.
«Devi restare morta, sei contronatura! Lo ha detto Dio.» Mi metto in piedi e indico il mio cellulare.
«Che diavolo dici? Continua a ripetere che il numero è inesis—»
Mi lancio verso di lei e la spingo. Cade sul sedere e la testa urta contro il comodino. Alza una gamba e mi dà un calcio allo stomaco. Mi piego in due, il respiro mozzo e due lacrime che mi scendono dagli occhi.
Prendo un respiro, faccio un passo indietro e le do un calcio in faccia con il piede nudo. Il rumore è quello di uno schiaffo dato con i guanti di pelle. Gli occhiali della ragazza volano via. Il sangue macchia le lenzuola.
Si mette carponi e le do un altro calcio sul sedere. Sbatte con la faccia contro il letto così forte da spostarlo.
«Brutto stronzo, ti uccido.» Farfuglia con la faccia a terra.
«Se Dio ha deciso che sei morta, non puoi tornare in vita.» Glielo spiego come fa Padre Pietro con me quando non capisco qualche passaggio difficile delle Sacre Scritture. «Ora te lo faccio entrare nella testa.»
Prendo il rosario dal comodino e lo lascio pendere tra le dita. Alle mie spalle, la mia Maria, la Madre del Frutto Immacolato, geme e tossisce piano. Non preoccuparti, cara, tornerò a occuparmi di te tra un momento.
Alzo il braccio e frusto con il rosario la testa della ragazza. La croce di metallo la ferisce e si impiglia tra i capelli. La strappo via e la colpisco ancora: strilla, si dimena, ma sono inesorabile come la collera divina. Qualche goccia di sangue salta via, come una coccinella a primavera. La sgualdrina si porta una mano sulla testa insanguinata, ma gliela blocco con il piede. «Senti che il concetto ti entra in testa?» Proprio come mi dice sempre Padre Pietro. Un altro colpo e la croce di metallo si pianta nella pelle dietro l’orecchio e si stacca: in mano mi resta la collana del rosario.
Mi siedo sulla schiena della ragazza. Lei geme sotto il mio peso. «E ora vai dove Dio vuole che tu vada.» Le avvolgo il rosario intorno al collo. «All’inferno, invertita!» E tiro, prima con la mano destra e poi con la sinistra. I grani del rosario grattano sulla pelle, come piccoli denti di una sega.
La ragazza emette suoni strozzati, catarrosi. Batte con la mano destra sul pavimento. Sotto di me, si dimena, scalcia, ma io sono più pesante. Tendo il rosario ancora una volta e cede. Si è rotto? Un rumore sfiatante viene dalla gola della ragazza e il suo torace si vuota all'improvviso. Non lo sento alzarsi. Sotto di lei, una pozza di sangue si allarga scura sul pavimento fin sotto il letto. Il suono gracchiante è sparito. Anzi, non emette più suoni. Fa un paio di singhiozzi, poi si accascia. Qualche bollicina rossastra si gonfia tra il collo e il giubbotto lacerato.
«Bravo! Sia fatta la parola di Dio!» Lode a Te e così sia!
4.
Mi alzo. I capelli scuri della ragazza si allargano a raggiera intorno alla testa e galleggiano nel sangue. Sorrido.
Faccio un passo indietro per non sporcarmi i piedi. Un dolore lancinante al tallone mi fa urlare. Mi afferro un piede, in equilibrio su una gamba sola: estraggo la lente degli occhiali della morta dalla pelle dura calcagno. «Dannaz—» Mi mordo la lingua.
Chi impreca offende Dio e Dio si vendica. Questo mi dice sempre Padre Pietro.
«Non ho detto niente.» Dico al telefono. «Niente.»
Abbasso la testa in segno di scuse, spero che Dio non mi abbia sentito.
Non arriva risposta. Forse sono salvo. Niente vendetta…
Il mio piede scivola nel sangue. Faccio un saltello, mulinello le braccia, ma la forza di gravità è inesorabile. Dio ci vuole tutti a terra. Padre Pietro ha sempre ragione.
Cado all’indietro. Mi schianto al suolo di schiena, e il tonfo mi toglie il respiro e mi fa chiudere gli occhi. Con il gomito destro urto qualcosa che risponde con un crack ovattato. Spero che non si sia rovesciata la statua dell’Addolorata.
Faccio un paio di respiri e il dolore si allarga dalla schiena alla spalla destra. Riapro gli occhi con un gemito e mi metto a sedere. «La vendetta di Dio è arrivata comunque, mia Maria.» Deglutisco «Me la sono meritata.» Lode a Te e così sia.
Lei non mi risponde. C’è qualcosa di sbagliato nel suo volto. Sarà un’illusione per la luce della candele finte: perché la parte destra della faccia è incavata? L’occhio è affondato nell’orbita e lo zigomo è schiacciato. La accarezzo. Sotto la pelle, le ossa sono frastagliate, come passare le dita su un pacco di riso già aperto. La faccia è cedevole, i lineamenti asimmetrici sono franati verso l’orecchio.
Il petto non si muove.
«No. Non può essere.» Il cuore perde un battito.
Questa è la vera vendetta divina. Perché ho imprecato? Perché mi hai tolto la mia Maria, Dio? Cosa posso fare per riaverla?
Mi metto seduto e mi guardo intorno.
«Rispondimi, per favore! Cosa posso fare?»
Sono solo. Singhiozzo. Dio, perché non mi aiuti? Perché non mi lasci un segno?
Le lacrime mi rigano il volto e sanno di sangue e sale.
L’uomo devoto ringrazia Dio per aver trovato la soluzione, mi ripeteva sempre Padre Pietro. E nel momento di afflizione, la sofferenza è giovamento.
Sto soffrendo! Perché non mi arriva alcun giovamento. Di solito, mi taglio, il sangue e il dolore mi curano. Ma ora? Cosa devo tagliare?
Strabuzzo gli occhi e mi porto una mano alla bocca. Eccola, la soluzione. Ce l’avevo proprio sotto gli occhi. Era Dio che mi metteva alla prova.
Lode a te e così sia!
Prendo il pugnale dell’Addolorata, ancora macchiato del mio sangue secco.
Distolgo lo sguardo dal sesso della mia Maria e mi concentro sulla pancia. Affondo la lama sotto l’ombelico. È come tagliare gomma, molliccia e inerte. Non sanguina. Traccio un solco verticale verso il pube: i lembi sono rosati in superficie e giallastri in profondità. A metà strada la lama si spezza con un clack.
Grugnisco. Lo squarcio non è sufficiente: non ci entrano neanche due dita.
C’è una soluzione: dal seno sinistro della mia Maria estraggo la scheggia di vetro. È così affilata che mi sanguina la mano. Meglio. La sofferenza è giovamento.
Il vetro trancia la carne morbida della mia Maria e il mio sangue sporca la ferita e si raccoglie nella sua pancia. Il taglio è abbastanza largo e ci infilo una mano. Dentro è come rovistare in un acquario tiepido pieno di salsicce. L’odore acre di frattaglie mi fa venire un conato di vomito.
Gli intestini gorgogliano e sciaguattano quando li sposto con il braccio infilato fino al gomito. Con la mano, tocco qualcosa di tondo e rigido: si muove sotto le mie dita! Trattengo il respiro, e quello mi sfugge. Grugnisco e cerco più in profondità.
Eccolo!
Lo sfioro appena e quella specie di ovetto si adagia nel palmo. È caldo. Chiudo le dita, ma non stringo. Estraggo il frutto del grembo: sta in un palmo della mano e all’interno di una membrana rossastra si agita una creatura a forma di girino.
E ora?
Ora la sofferenza. È naturale.
Mi sollevo la maglia insanguinata e sudata e la incastro tra i denti. Con una mano tengo il frutto del grembo, con l’altra prendo la scheggia di vetro e la punto sul mio ventre scoperto. Chiudo gli occhi, stringo i denti e affondo.
Il dolore mi risale fino al petto e mi toglie il respiro. Gli occhi si riempiono di lacrime e la fronte si imperla di sudore. La mano mi trema, ma taglio ancora un po’.
Il sangue mi bagna le mutande e si raccoglie tra le gambe. È caldo e si appiccica alle chiappe.
Appoggio l’ovetto rosato sulla breccia. Mi solletica la pelle lacerata. Rotola e entra nella mia pancia. Si adagia dentro di me, caldo e pulsante.
I contorni della stanza sono un po’ sfocati. La ragazza con la gola squarciata si volta. La mia Maria mi posa una mano fredda sulla gamba. L’Addolorata abbassa il suo sguardo disperato su di me: sorride. Il display del cellulare si spegne.
Mi tocco la pancia insanguinata.
Sono lo spirito Santo.
Sono il Padre.
E ora sono il Figlio.
Sono Dio!
Lode a Me e così sia.