UNA MENZOGNA
Inviato: domenica 13 dicembre 2020, 18:34
UNA MENZOGNA
di Giovanni Attanasio
Su quale fosse la ragione di tanta mestizia non era necessario indagare. Il sole si era già messo la corona più brillante in testa, e seppur irradiasse tutto l’altopiano e le campagne, per Eleonora non faceva differenza che la sfera sorridesse o piagnucolasse tra le nubi d’un temporale improvviso. Lei, al massimo, pretendeva di non sapere o di aver convenientemente dimenticato il perché di tanta malinconia: un’opera di carità nella quale si fingeva allegra di fronte a un padre che, sormontato da problemi senza nome, aveva anch’egli perso la gioia. Vivevano nella menzogna, ma si volevano bene, e questo, giuravano ogni notte prima di addormentarsi, sarebbe bastato a proteggerli.
All’alba, forse più presto del giorno prima, la serva aprì la tenda e spalancò guardinga la finestra: si guardò le spalle in attesa che la signorina Eleonora balzasse fuori dalle lenzuola a strillare di chiudere lo spiffero.
«Dormite ancora, signorina?»
Le coperte si mossero.
«Allora vi consiglio di prepararvi per la mattinata. Vostro padre, il barone, ha già manifestato l’intenzione di assentarsi per un’altra giornata, di recarsi al cimitero e poi in paese.»
«È una buona notizia, hai sentito?»
La serva allungò il collo, colta dal sospetto che la signorina si stesse rivolgendo a qualcuno che nella camera non era presente. «Con chi discutete, se posso permettermi?»
Eleonora sgusciò fuori dalla coperte e pretese d’esser vestita. La serva non poté fare a meno di notare, adagiato tra i cuscini, un piccolo specchio tondo e meraviglioso, le cui gemme incastonate nel manico d’argento le facevano girare la testa.
«Cosa ti turba?»
«Non è nulla, signorina.»
«Pretendo di sapere.»
La serva strinse nel pugno la nappa della tenda. «Quello specchio, mi chiedevo, è—»
«Sarà il caso di affrettarsi. Ho anch’io le mie faccende da sbrigare, cosa pensi? Devo imparare a svegliarmi all’alba e abituarmi all’idea che non posso oziare per il resto della mia vita.»
«È indubbiamente così, signorina,» mormorò la serva, mentre teneva gli occhi ben distanti da quelli di perla della giovane che, seppur aspirasse alla grandezza, doveva spingersi in punta di piedi per chiudere per bene la finestra della propria camera.
Giudicò dal vociare allegro della servitù e dei contadini attorno alla villa che il barone di Castelnuovo, Vincenzo Calenda, avesse già lasciato l’abitazione per incontrare gli amici e collaboratori della sua nobile impresa per conto della Corona del Regno delle Due Sicilie che lui, per vezzo o per dispetto, soleva spesso chiamare Corona del Regno di Napoli, tra le risa dei presenti.
Eleonora non aveva mai badato a tali dettagli, né alla ragione per cui la gendarmeria fosse tanto affezionata alla villa e ai loro possedimenti, né perché suo padre ne facesse un vanto. Di sicuro non piaceva a nessuno degli altri il riflesso del sole sulle baionette e, pian piano, smise di piacere persino a lei.
Quella mattina non aveva tempo per ascoltare ciò che si diceva in giro di suo padre, le importava solo di sbrigarsi lungo il corridoio: teneva l’abito con la mani e correva, in punta di piedi, verso la stanza più remota della villa. Nemmeno sua madre, per quanto ricordava, aveva mai indagato coi suoi occhi vispi sino allo studio del barone; dalla moglie di un tanto rispettabile uomo si pretendeva che gli obbedisse e non lo facesse mai infuriare. Ma Eleonora, che marito non ne aveva e che del padre aveva timore solo quando lo sapeva a casa, reputò che la sua celere visita allo studio proibito non avrebbe dato fastidio a nessuno.
Spinse la grossa porta meravigliosamente intagliata, avanzò nella sala ben illuminata e si diresse senza indugio allo scrittoio. Le serviva una lettera, poche righe scritte su un pezzo di carta, un qualsiasi appunto che le avrebbe confermato una volta per tutte che ciò che era accaduto alla madre fosse vero. Non era bizzarro che i briganti attaccassero le vetture lungo le lunghe tratte, tantomeno che per le Calabrie ci fosse appostato ogni genere di opportunista nemico del popolo e dell’ordine pubblico. Ma lei voleva vederlo scritto.
«Ecco!»
Le scivolò tra le dita un foglietto, e poi tanti altri, tenuti tutti in un cassettino dello scrittoio in disuso nell’angolo, vicino la libreria. Tra le macchie d’inchiostro e la sbadataggine di chi aveva premura solo di imbrattare quei fogli, Eleonora lesse e rilesse. Quando le lacrime si fecero troppe e le fu difficile persino distinguere cos’avesse tra le mani, si affacciò alla porta.
«Lucia! Accendi il camino!» gridò, e poi si rannicchiò in un angolo polveroso, a penare. Strinse a sé quella verità, la corrispondenza tra suo padre e altri sconosciuti. «Non ci credo.»
Giunse al camino: l’odore della legna e lo scoppiettare del fuoco le fecero battere il cuore più veloce.
«Avete freddo, signorina? Uscite fuori al sole, è bello caldo.»
«Lasciami sola.»
E così fu fatto. Le mani le vibravano: gli spasmi servirono solo a facilitare il lancio di quelle cartacce inutili nella fiamma appena accesa.
♦
Il barone aveva fatto ritorno, coi baffetti che ancora si scrollavano di dosso le risate del viaggio e della buona compagnia. Lui e la figlia parlarono poco nei giorni che seguirono: la nuova normalità, accettata da entrambi, richiedeva che le chiacchiere si tenessero al minimo.
La notte portò consiglio e fece venire al barone un’idea a dir suo geniale, ossia di allestire la tavola fuori, nel giardino, e pranzare e discutere in presenza dell’unica cosa che i francesi non avevano trafugato da chiese e collezioni private: il calore del sole.
«Dimmi, figlia mia, per quanto ancora hai intenzione di portare i capelli a quel modo disonorevole? Fatti dare una ripulita da Lucia, bontà divina, renditi quantomeno presentabile!»
Lei lo ascoltò e poi aspettò che le vibrazioni della sua voce baritonale si disperdessero nell’aria. «Amo i miei capelli così come sono. Mi ricordano la mamma.»
«E hai visto che fine ha fatto lei, povera donna, per acconciarsi sempre come se fosse una borghese figlia di chissà chi e non la moglie degna di un barone! Mai, e dico mai, l’ho sentita definirsi tale in presenza d’altri! “Baronessa Lucrezia, da questa parte!” la chiamavano, e lei mai si voltava. “Solo Lucrezia. Andrà bene così”. Non è andata bene affatto, e che Dio abbia pietà della sua anima.»
«Tu ne hai pietà?»
Il boccale di vino gli scivolò quasi dalle mani, il signor Vincenzo faticò a reprimere la necessità di alzarsi per redarguire la figlia. «Cosa ti salta in mente di dire, Eleonora?»
Non ebbe tempo di rispondere poiché, col viso più rosso del suo e gli occhi altrettanto sgranati, un giovanotto era corso tra le sterpi e le campagne per raggiungere la residenza.
«Signore, una brigante siciliana è stata arrestata dai gendarmi!»
«Di’ loro di condurla qui sotto mio ordine!»
Il ragazzino annuì e poi scavalcò il muretto, perdendosi tra la polvere sollevata dal suo incedere frettoloso.
Due signori in divisa tenevano per le braccia quella che sembrava una semplice massaia. La presero per i boccoli e la costrinsero a fissare il barone e il suo sguardo iroso. Uno dei gendarmi tenne la mano tra i capelli della giovane e pareva che, proprio come fossero di carbone, quei ricci gli stessero macchiando le mani.
«Che bisogno c’è di farle del male? Lasciatela!» gridò Eleonora. S’azzardò a superare il padre e colpì il polso del gendarme. «Lasciatela! Non voglio ripetermi!»
«Fate come dice,» mormorò il barone, pazientemente.
La massaia si scompigliò i capelli e lisciò la veste lacera. Puntò i propri occhi d’argento su Eleonora. Quest’ultima sentì un improvviso tumulto al cuore: le labbra le presero a tremolare, spinte dalla necessità di dischiudersi ed emettere il più addolorato dei lamenti.
«Di cosa sono accusata, vostra signoria?» parlò la massaia. Sogghignò e sfidò il barone a rispondere con onestà.
«Mi è stato riferito che hai aizzato la folla contro le autorità e che poi, non contenta, sei corsa come una sorta di cagna impazzita nei miei terreni, urlando qua e là cose che mi imbarazza pure ripetere. Se ho dimenticato qualcosa—»
«È perché voi signori avete la memoria corta. È conveniente, sfido, aver la capacità di cancellare dalla testa gli avvenimenti trascorsi affinché sia più facile volgere il proprio di dietro nella direzione più opportuna.»
«Portatela via di qui!»
Eleonora, a spasmi, riuscì a fare un passo e balbettare qualcosa. «Aspettate!» ripeté più forte. Tutti si fermarono, dalla prigioniera ai gendarmi.
Il barone respirò a pieni polmoni e schiarì la voce: «Cosa c’è ancora, figlia mia?»
«Cosa le accadrà?»
«Non è affar tuo,» disse, severo, mentre aspettava di esser lasciato da solo con la figlia. «Mi è stato detto che sei entrata nel mio studio. È inutile che ti informi, Eleonora, che se ti permetterai di nuovo di disobbedire alle mie disposizioni sarò costretto ad adottare misure adeguate. Placa la tua necessità d’imitare tua madre una volta per tutte!»
Eleonora scoppiò in lacrime e corse via, inerme e inadatta a fronteggiare la collera di quell’uomo che voleva chiamare padre ma che, quasi per gusto personale, amava indossare abiti da sconosciuto.
Il barone Vincenzo Calenda fu obbligato dall’impertinenza della figlia a riconsiderare le proprie priorità. Dovette annullare qualche appuntamento, scontentare gli amici e arrivare in ritardo alla battuta di caccia, e tutto perché Eleonora continuava a sgattaiolare via da casa. Di norma la cosa non lo avrebbe disturbato: le avrebbe semplicemente affiancato qualcuno della servitù per assicurarsi che non finisse sulla strada principale.
Ma purtroppo per lui, Eleonora usciva da sola, vagava per le terre, tra le piantagioni, tra i rovi e fiumiciattoli, tra i terrapieni e le fattorie dei paesani che lavoravano per il barone. Erano tutti contenti di vederla, gioiosi nel discutere con l’amabile fanciulla. Risultava naturale che la creatura, già fattasi bellissima e preziosa, ricordasse a chi aveva la barba bianca e i capelli sporchi di vecchiaia, la baronessa Lucrezia.
Lo stesso pomeriggio, il rosso tramonto pitturò le pagine di un volume di filosofia che Eleonora leggeva spesso di nascosto.
La porta del salottino si aprì di botto e la tazzina vibrò sul piattino. «Cosa stai cercando di ottenere con questa tua ribellione, Eleonora?» Chinò gli occhi e lesse di sfuggita il titolo del libro: «Rousseau? Chi ti ha dato questa porcheria!?»
«Lasciami!» lei si rannicchiò e strinse a sé il libro, ma non riuscì a lungo a resistere.
Il barone prese con sé il tomo, rimettendo a posto un ciuffo e sbuffando. «Non so cosa ti stia succedendo, mia amata bambina, ma è da quando siamo rientrati da Messina che rifuggi il mio affetto e ti opponi veementemente a ogni mio tentativo di comunicazione. Mi metti con le spalle al muro. Resterai chiusa in camera, e se scopro di nuovo che vai per i campi a domandare di quella sciagurata, farò in modo che venga fucilata in pubblica piazza!»
«Sei un bruto! Proprio come lo eri con la mamma!»
Lui lasciò cadere il libro: aveva bisogno della mano libera per schiaffeggiarla con tutto se stesso. «Non osare, Eleonora. Ho amato tua madre più d’ogni cosa, non è colpa mia se lei ha tradito la mia fiducia!»
Lei corse via, diretta al letto e al proprio cuscino. Trovò subito lo specchio d’argento e ne carezzò il bordo, perdendosi nei ricordi e nei familiari motivi con cui era decorato.
♦
Qualche mese prima, sotto le festività di Natale, Eleonora aveva provato qualcosa di simile al senso di inadeguatezza che l’avrebbe vincolata in camera propria nell’estate a venire.
Sedeva non molto comoda a teatro in mezzo a troppi individui della bella nobiltà di Messina, tra conti e baroni e a pochi passi da personalità che suo padre, barone di Castelnuovo del Principato Citra, aveva quasi timore a nominare. Lo spiava di sottecchi discutere deliziato con quei signori ben vestiti, mentre gli attori sul palco del Teatro della Munizione ciarlavano a vuoto.
«Prendo una boccata d’aria,» fiatò appena, e fuggì da quella gabbia di matti. Scese le scale e si ritrovò all’esterno, a un passo dalle carrozze che trafficavano l’ampia via centrale.
«Fai attenzione, o finirai travolta.»
Eleonora si girò in direzione della voce e colse il sorriso malizioso di una ragazza della sua età. O così doveva essere, giudicò tra sé e sé. «Non sai come ci si rivolge a una persona con un titolo?»
«I titoli di solito li trovo sui libri, non sulla gente,» borbottò quella, avanzando con un saltello. Tirò fuori da dietro la schiena un volume e lo adagiò tra le braccia incredule di Eleonora. «Leggilo, quando hai tempo. I francesi non sono sempre stati sotto Napoleone: qualche decennio fa avevano un cervello tutto loro.»
«Cosa ci fa una come te di fronte a un teatro? Lavori qui?»
«La mia—» si bloccò, massaggiandosi la testa, «la signora di Liuzzo si sta godendo lo spettacolo. Siccome è uno spettacolo che io non tollero, la aspetto qui fuori, al fresco e lontana dal puzzo dei nobilotti.»
«Io non puzzo!»
Lei si avvicinò ancora e, prima che Eleonora potesse sottrarsi, le adagiò il naso sul collo e tirò un bel respiro. «No, non puzzi.»
«Scostumata!»
«Vuoi far compagnia a questa scostumata? Passeggiamo un po’ per la città, la tua famiglia non noterà la tua assenza.»
«Come ti chiami?»
«Teresa.»
«Non posso seguirti, Teresa. Devo tornare da mio padre.»
«Se ti piace la prigionia, allora torna da lui. Se vorrai la libertà, io ti aspetterò sotto quell’albero: non posso sottrarmi quando si tratta di spezzare le catene messe ai polsi di fanciulle imprigionate.»
Eleonora arrossì e poi, colta da un luccichio, inclinò la testa di lato: «Cos’hai lì?»
«È un regalo della mia signora, uno specchio inglese che ha reperito durante un viaggio.»
«È molto bello.»
Teresa sorrise, lisciandosi una ciocca riccia. «Gli specchi non mentono mai. Siamo noi che imbrogliamo i nostri fratelli e le nostre sorelle, sempre e senza pietà.»
«In che—»
«Non badare a ciò che ho detto. Piuttosto: quando ti sentirai sola, parla allo specchio: ci sarò io ad ascoltarti.»
♦
Nel buio della camera da letto, Eleonora carezzava lo specchio, contemplava la sua forma e si domandava se suo padre avesse già ordinato che Teresa venisse fucilata.
Ci fu un rumore improvviso e lei scattò fuori dalle lenzuola: c’era qualcuno alla finestra. Strinse al petto lo specchio.
«Non posso sottrarmi quando si tratta di spezzare le catene messe ai polsi di fanciulle imprigionate.»
«Teresa!» Eleonora saltò fuori dalle coperte e si lanciò tra le sue braccia. Non aveva parole per esprimere la propria contentezza: sua madre era morta prima di poterle insegnare come mostrare riconoscenza.
«Dobbiamo andarcene, Eleonora, ho chi ci aspetta sulla strada.»
«Lo specchio...»
Teresa aspettò. Poi la aiutò a balzare dalla finestra e iniziò a correre. Eleonora fu costretta a seguirla con addosso solo la veste da camera e un paio di scarpe.
«Sei stata nello studio di tuo padre?» domandò Teresa, mentre si preparavano a lanciarsi oltre il muretto di cinta della villa, verso l’oscurità resa flebile dalla scarsa illuminazione stradale ancora accesa: presto, solo la luna sarebbe rimasta in cielo.
Eleonora ebbe paura di confessare d’essersi disfatta dei documenti. Ma non del loro ricordo: «È stato lui.»
«Che sia dannato!»
Teresa non poté imprecare oltre, poiché l’uomo a cui aveva rivolto l’anatema sbucò dalle frasche e l’assaltò. Lei ruzzolò, ma si rimise in piedi e calciò il barone in faccia.
Vincenzo Calenda sputò sangue e girò su se stesso, spaesato: «Portatemi il cavallo e il fucile!»
La carrozza che Eleonora s’aspettava di trovare disattese le aspettative: si ritrovò seduta tra il pagliericcio di un carretto scassato.
«Fai correre quella bestiaccia, Michele!» gridò Teresa, mentre tendeva l’orecchio per capire se gli inseguitori fossero nei paraggi.
Il trotto del cavallo del barone si faceva sempre più intenso. E poi altri cavalli, che risalivano dal boschetto e dal paese.
«Mi hanno seguita,» Teresa, disperata, mise le mani tra il fieno sul carretto e imbracciò un’arma.
Eleonora drizzò il capo e seguì il dito della giovane al suo fianco, lo stesso dito che, dopo aver armato il fucile, si spostò sul grilletto.
«Sparerai per spaventare i cavalli, non è così?»
L’altra si morse le labbra.
«Teresa, non colpire papà.»
Premette il grilletto e la nottata s’illuminò: qualcuno gridò e un cavallo nitrì. Urla confuse e male parole precedettero, seppur di poco, il suono degli spari di risposta degli inseguitori.
«Non colpite la mia bambina!»
Eleonora cercò di alzarsi sul carro, «papà, ti supplico di smetterla!»
«Giù, sciocca!» Teresa la prese per le spalle e provò a trascinarla di nuovo tra la paglia e la sicurezza di poche assi di legno marcescenti. Altri lampi di luce nella tenebra e, distinto tra gli sbuffi degli animali e lo scalpiccio degli zoccoli, un grido acuto.
«L’hanno colpita!» Eleonora si trovò le mani sporche di sangue, il corpo di Teresa tra le braccia: ansimava in agonia, ma era viva. «Devi accostare, ferma il carretto!»
Michele girò di poco il capo e aprì la bocca per esprimere la propria opinione, ma un proiettile vagante lo silenziò, portandolo a ruzzolare giù dal carro. Il cavallo s’imbizzarrì e la vettura fu sbalzata oltre la strada, assieme alle due giovani che tentarono di aggrapparsi a qualcosa pur di non essere proiettate nell’aria.
Quando Eleonora aprì gli occhi, le baionette scintillanti dei fucili dei gendarmi la ancoravano al suolo. Al suo fianco, Teresa era stata messa in ginocchio e spinta contro il ceppo di un albero. Il barone stringeva il fucile e lottava per mantenere la mira ferma: il terrore di sbagliare, nonostante avesse la canna poggiata al capo della giovane, lo dominava.
«No!»
Eleonora si lanciò in avanti, alla cieca, e udì fortissimo il suono dello sparo, credendo di essere arrivata tardi: spalancò gli occhi incredula, e respirò l’odore di polvere da sparo direttamente dalla canna del fucile del padre.
«Che hai fatto, pazzo?!» Teresa iniziò a strillare, bagnata dal caldo rigagnolo cremisi che correva dal petto di Eleonora. «È tua figlia, bastardo!»
I gendarmi si fissarono tra loro: non fu loro chiaro cosa il barone avesse in mente e meditarono se fosse doveroso intervenire.
«Posso gestire la faccenda da solo,» biascicò il barone.
«Signore, con tutto il ris—»
«Via da qui!»
Teresa osservò l’uomo stringersi la testa tra le mani, piagnucolare e masticare parole incomprensibili.
«Prima tua moglie e ora tua figlia,» sussurrò lei, «è così che voi nobili mettete a tacere le anime bramose di libertà?»
«Taci, dannata serpe!» mise la mano nella tasca della giubba e caricò il fucile. Armò il cane.
Teresa chiuse gli occhi: aveva fatto il possibile per salvarla. Respirò profondamente. Qualcosa di legnoso le fu messo in braccio. Spalancò le palpebre e si ritrovò col fucile in mano, orientato verso il cuore del barone, il tanto odiato Vincenzo Calenda.
«Va’ nel mio studio e cerca nel secondo cassetto dello scrittoio vicino la finestra. Ci sono documenti che mia figlia non ha trovato: sei qui solo per quelli.»
Teresa strinse i denti e sfiorò il grilletto col dito. La notte brillò di nuovo, per l’ultima volta. Mentre le lacrime le correvano sul viso, un guizzo argentato le rimbalzò sul volto: la luna aveva trovato qualcosa su cui specchiarsi, dimenticato tra dita fredde.
«Quando mi sentirò sola parlerò allo specchio: ci sarai tu ad ascoltarmi dall’altro lato, vero? Tu, e le mie menzogne.»
di Giovanni Attanasio
Su quale fosse la ragione di tanta mestizia non era necessario indagare. Il sole si era già messo la corona più brillante in testa, e seppur irradiasse tutto l’altopiano e le campagne, per Eleonora non faceva differenza che la sfera sorridesse o piagnucolasse tra le nubi d’un temporale improvviso. Lei, al massimo, pretendeva di non sapere o di aver convenientemente dimenticato il perché di tanta malinconia: un’opera di carità nella quale si fingeva allegra di fronte a un padre che, sormontato da problemi senza nome, aveva anch’egli perso la gioia. Vivevano nella menzogna, ma si volevano bene, e questo, giuravano ogni notte prima di addormentarsi, sarebbe bastato a proteggerli.
All’alba, forse più presto del giorno prima, la serva aprì la tenda e spalancò guardinga la finestra: si guardò le spalle in attesa che la signorina Eleonora balzasse fuori dalle lenzuola a strillare di chiudere lo spiffero.
«Dormite ancora, signorina?»
Le coperte si mossero.
«Allora vi consiglio di prepararvi per la mattinata. Vostro padre, il barone, ha già manifestato l’intenzione di assentarsi per un’altra giornata, di recarsi al cimitero e poi in paese.»
«È una buona notizia, hai sentito?»
La serva allungò il collo, colta dal sospetto che la signorina si stesse rivolgendo a qualcuno che nella camera non era presente. «Con chi discutete, se posso permettermi?»
Eleonora sgusciò fuori dalla coperte e pretese d’esser vestita. La serva non poté fare a meno di notare, adagiato tra i cuscini, un piccolo specchio tondo e meraviglioso, le cui gemme incastonate nel manico d’argento le facevano girare la testa.
«Cosa ti turba?»
«Non è nulla, signorina.»
«Pretendo di sapere.»
La serva strinse nel pugno la nappa della tenda. «Quello specchio, mi chiedevo, è—»
«Sarà il caso di affrettarsi. Ho anch’io le mie faccende da sbrigare, cosa pensi? Devo imparare a svegliarmi all’alba e abituarmi all’idea che non posso oziare per il resto della mia vita.»
«È indubbiamente così, signorina,» mormorò la serva, mentre teneva gli occhi ben distanti da quelli di perla della giovane che, seppur aspirasse alla grandezza, doveva spingersi in punta di piedi per chiudere per bene la finestra della propria camera.
Giudicò dal vociare allegro della servitù e dei contadini attorno alla villa che il barone di Castelnuovo, Vincenzo Calenda, avesse già lasciato l’abitazione per incontrare gli amici e collaboratori della sua nobile impresa per conto della Corona del Regno delle Due Sicilie che lui, per vezzo o per dispetto, soleva spesso chiamare Corona del Regno di Napoli, tra le risa dei presenti.
Eleonora non aveva mai badato a tali dettagli, né alla ragione per cui la gendarmeria fosse tanto affezionata alla villa e ai loro possedimenti, né perché suo padre ne facesse un vanto. Di sicuro non piaceva a nessuno degli altri il riflesso del sole sulle baionette e, pian piano, smise di piacere persino a lei.
Quella mattina non aveva tempo per ascoltare ciò che si diceva in giro di suo padre, le importava solo di sbrigarsi lungo il corridoio: teneva l’abito con la mani e correva, in punta di piedi, verso la stanza più remota della villa. Nemmeno sua madre, per quanto ricordava, aveva mai indagato coi suoi occhi vispi sino allo studio del barone; dalla moglie di un tanto rispettabile uomo si pretendeva che gli obbedisse e non lo facesse mai infuriare. Ma Eleonora, che marito non ne aveva e che del padre aveva timore solo quando lo sapeva a casa, reputò che la sua celere visita allo studio proibito non avrebbe dato fastidio a nessuno.
Spinse la grossa porta meravigliosamente intagliata, avanzò nella sala ben illuminata e si diresse senza indugio allo scrittoio. Le serviva una lettera, poche righe scritte su un pezzo di carta, un qualsiasi appunto che le avrebbe confermato una volta per tutte che ciò che era accaduto alla madre fosse vero. Non era bizzarro che i briganti attaccassero le vetture lungo le lunghe tratte, tantomeno che per le Calabrie ci fosse appostato ogni genere di opportunista nemico del popolo e dell’ordine pubblico. Ma lei voleva vederlo scritto.
«Ecco!»
Le scivolò tra le dita un foglietto, e poi tanti altri, tenuti tutti in un cassettino dello scrittoio in disuso nell’angolo, vicino la libreria. Tra le macchie d’inchiostro e la sbadataggine di chi aveva premura solo di imbrattare quei fogli, Eleonora lesse e rilesse. Quando le lacrime si fecero troppe e le fu difficile persino distinguere cos’avesse tra le mani, si affacciò alla porta.
«Lucia! Accendi il camino!» gridò, e poi si rannicchiò in un angolo polveroso, a penare. Strinse a sé quella verità, la corrispondenza tra suo padre e altri sconosciuti. «Non ci credo.»
Giunse al camino: l’odore della legna e lo scoppiettare del fuoco le fecero battere il cuore più veloce.
«Avete freddo, signorina? Uscite fuori al sole, è bello caldo.»
«Lasciami sola.»
E così fu fatto. Le mani le vibravano: gli spasmi servirono solo a facilitare il lancio di quelle cartacce inutili nella fiamma appena accesa.
♦
Il barone aveva fatto ritorno, coi baffetti che ancora si scrollavano di dosso le risate del viaggio e della buona compagnia. Lui e la figlia parlarono poco nei giorni che seguirono: la nuova normalità, accettata da entrambi, richiedeva che le chiacchiere si tenessero al minimo.
La notte portò consiglio e fece venire al barone un’idea a dir suo geniale, ossia di allestire la tavola fuori, nel giardino, e pranzare e discutere in presenza dell’unica cosa che i francesi non avevano trafugato da chiese e collezioni private: il calore del sole.
«Dimmi, figlia mia, per quanto ancora hai intenzione di portare i capelli a quel modo disonorevole? Fatti dare una ripulita da Lucia, bontà divina, renditi quantomeno presentabile!»
Lei lo ascoltò e poi aspettò che le vibrazioni della sua voce baritonale si disperdessero nell’aria. «Amo i miei capelli così come sono. Mi ricordano la mamma.»
«E hai visto che fine ha fatto lei, povera donna, per acconciarsi sempre come se fosse una borghese figlia di chissà chi e non la moglie degna di un barone! Mai, e dico mai, l’ho sentita definirsi tale in presenza d’altri! “Baronessa Lucrezia, da questa parte!” la chiamavano, e lei mai si voltava. “Solo Lucrezia. Andrà bene così”. Non è andata bene affatto, e che Dio abbia pietà della sua anima.»
«Tu ne hai pietà?»
Il boccale di vino gli scivolò quasi dalle mani, il signor Vincenzo faticò a reprimere la necessità di alzarsi per redarguire la figlia. «Cosa ti salta in mente di dire, Eleonora?»
Non ebbe tempo di rispondere poiché, col viso più rosso del suo e gli occhi altrettanto sgranati, un giovanotto era corso tra le sterpi e le campagne per raggiungere la residenza.
«Signore, una brigante siciliana è stata arrestata dai gendarmi!»
«Di’ loro di condurla qui sotto mio ordine!»
Il ragazzino annuì e poi scavalcò il muretto, perdendosi tra la polvere sollevata dal suo incedere frettoloso.
Due signori in divisa tenevano per le braccia quella che sembrava una semplice massaia. La presero per i boccoli e la costrinsero a fissare il barone e il suo sguardo iroso. Uno dei gendarmi tenne la mano tra i capelli della giovane e pareva che, proprio come fossero di carbone, quei ricci gli stessero macchiando le mani.
«Che bisogno c’è di farle del male? Lasciatela!» gridò Eleonora. S’azzardò a superare il padre e colpì il polso del gendarme. «Lasciatela! Non voglio ripetermi!»
«Fate come dice,» mormorò il barone, pazientemente.
La massaia si scompigliò i capelli e lisciò la veste lacera. Puntò i propri occhi d’argento su Eleonora. Quest’ultima sentì un improvviso tumulto al cuore: le labbra le presero a tremolare, spinte dalla necessità di dischiudersi ed emettere il più addolorato dei lamenti.
«Di cosa sono accusata, vostra signoria?» parlò la massaia. Sogghignò e sfidò il barone a rispondere con onestà.
«Mi è stato riferito che hai aizzato la folla contro le autorità e che poi, non contenta, sei corsa come una sorta di cagna impazzita nei miei terreni, urlando qua e là cose che mi imbarazza pure ripetere. Se ho dimenticato qualcosa—»
«È perché voi signori avete la memoria corta. È conveniente, sfido, aver la capacità di cancellare dalla testa gli avvenimenti trascorsi affinché sia più facile volgere il proprio di dietro nella direzione più opportuna.»
«Portatela via di qui!»
Eleonora, a spasmi, riuscì a fare un passo e balbettare qualcosa. «Aspettate!» ripeté più forte. Tutti si fermarono, dalla prigioniera ai gendarmi.
Il barone respirò a pieni polmoni e schiarì la voce: «Cosa c’è ancora, figlia mia?»
«Cosa le accadrà?»
«Non è affar tuo,» disse, severo, mentre aspettava di esser lasciato da solo con la figlia. «Mi è stato detto che sei entrata nel mio studio. È inutile che ti informi, Eleonora, che se ti permetterai di nuovo di disobbedire alle mie disposizioni sarò costretto ad adottare misure adeguate. Placa la tua necessità d’imitare tua madre una volta per tutte!»
Eleonora scoppiò in lacrime e corse via, inerme e inadatta a fronteggiare la collera di quell’uomo che voleva chiamare padre ma che, quasi per gusto personale, amava indossare abiti da sconosciuto.
Il barone Vincenzo Calenda fu obbligato dall’impertinenza della figlia a riconsiderare le proprie priorità. Dovette annullare qualche appuntamento, scontentare gli amici e arrivare in ritardo alla battuta di caccia, e tutto perché Eleonora continuava a sgattaiolare via da casa. Di norma la cosa non lo avrebbe disturbato: le avrebbe semplicemente affiancato qualcuno della servitù per assicurarsi che non finisse sulla strada principale.
Ma purtroppo per lui, Eleonora usciva da sola, vagava per le terre, tra le piantagioni, tra i rovi e fiumiciattoli, tra i terrapieni e le fattorie dei paesani che lavoravano per il barone. Erano tutti contenti di vederla, gioiosi nel discutere con l’amabile fanciulla. Risultava naturale che la creatura, già fattasi bellissima e preziosa, ricordasse a chi aveva la barba bianca e i capelli sporchi di vecchiaia, la baronessa Lucrezia.
Lo stesso pomeriggio, il rosso tramonto pitturò le pagine di un volume di filosofia che Eleonora leggeva spesso di nascosto.
La porta del salottino si aprì di botto e la tazzina vibrò sul piattino. «Cosa stai cercando di ottenere con questa tua ribellione, Eleonora?» Chinò gli occhi e lesse di sfuggita il titolo del libro: «Rousseau? Chi ti ha dato questa porcheria!?»
«Lasciami!» lei si rannicchiò e strinse a sé il libro, ma non riuscì a lungo a resistere.
Il barone prese con sé il tomo, rimettendo a posto un ciuffo e sbuffando. «Non so cosa ti stia succedendo, mia amata bambina, ma è da quando siamo rientrati da Messina che rifuggi il mio affetto e ti opponi veementemente a ogni mio tentativo di comunicazione. Mi metti con le spalle al muro. Resterai chiusa in camera, e se scopro di nuovo che vai per i campi a domandare di quella sciagurata, farò in modo che venga fucilata in pubblica piazza!»
«Sei un bruto! Proprio come lo eri con la mamma!»
Lui lasciò cadere il libro: aveva bisogno della mano libera per schiaffeggiarla con tutto se stesso. «Non osare, Eleonora. Ho amato tua madre più d’ogni cosa, non è colpa mia se lei ha tradito la mia fiducia!»
Lei corse via, diretta al letto e al proprio cuscino. Trovò subito lo specchio d’argento e ne carezzò il bordo, perdendosi nei ricordi e nei familiari motivi con cui era decorato.
♦
Qualche mese prima, sotto le festività di Natale, Eleonora aveva provato qualcosa di simile al senso di inadeguatezza che l’avrebbe vincolata in camera propria nell’estate a venire.
Sedeva non molto comoda a teatro in mezzo a troppi individui della bella nobiltà di Messina, tra conti e baroni e a pochi passi da personalità che suo padre, barone di Castelnuovo del Principato Citra, aveva quasi timore a nominare. Lo spiava di sottecchi discutere deliziato con quei signori ben vestiti, mentre gli attori sul palco del Teatro della Munizione ciarlavano a vuoto.
«Prendo una boccata d’aria,» fiatò appena, e fuggì da quella gabbia di matti. Scese le scale e si ritrovò all’esterno, a un passo dalle carrozze che trafficavano l’ampia via centrale.
«Fai attenzione, o finirai travolta.»
Eleonora si girò in direzione della voce e colse il sorriso malizioso di una ragazza della sua età. O così doveva essere, giudicò tra sé e sé. «Non sai come ci si rivolge a una persona con un titolo?»
«I titoli di solito li trovo sui libri, non sulla gente,» borbottò quella, avanzando con un saltello. Tirò fuori da dietro la schiena un volume e lo adagiò tra le braccia incredule di Eleonora. «Leggilo, quando hai tempo. I francesi non sono sempre stati sotto Napoleone: qualche decennio fa avevano un cervello tutto loro.»
«Cosa ci fa una come te di fronte a un teatro? Lavori qui?»
«La mia—» si bloccò, massaggiandosi la testa, «la signora di Liuzzo si sta godendo lo spettacolo. Siccome è uno spettacolo che io non tollero, la aspetto qui fuori, al fresco e lontana dal puzzo dei nobilotti.»
«Io non puzzo!»
Lei si avvicinò ancora e, prima che Eleonora potesse sottrarsi, le adagiò il naso sul collo e tirò un bel respiro. «No, non puzzi.»
«Scostumata!»
«Vuoi far compagnia a questa scostumata? Passeggiamo un po’ per la città, la tua famiglia non noterà la tua assenza.»
«Come ti chiami?»
«Teresa.»
«Non posso seguirti, Teresa. Devo tornare da mio padre.»
«Se ti piace la prigionia, allora torna da lui. Se vorrai la libertà, io ti aspetterò sotto quell’albero: non posso sottrarmi quando si tratta di spezzare le catene messe ai polsi di fanciulle imprigionate.»
Eleonora arrossì e poi, colta da un luccichio, inclinò la testa di lato: «Cos’hai lì?»
«È un regalo della mia signora, uno specchio inglese che ha reperito durante un viaggio.»
«È molto bello.»
Teresa sorrise, lisciandosi una ciocca riccia. «Gli specchi non mentono mai. Siamo noi che imbrogliamo i nostri fratelli e le nostre sorelle, sempre e senza pietà.»
«In che—»
«Non badare a ciò che ho detto. Piuttosto: quando ti sentirai sola, parla allo specchio: ci sarò io ad ascoltarti.»
♦
Nel buio della camera da letto, Eleonora carezzava lo specchio, contemplava la sua forma e si domandava se suo padre avesse già ordinato che Teresa venisse fucilata.
Ci fu un rumore improvviso e lei scattò fuori dalle lenzuola: c’era qualcuno alla finestra. Strinse al petto lo specchio.
«Non posso sottrarmi quando si tratta di spezzare le catene messe ai polsi di fanciulle imprigionate.»
«Teresa!» Eleonora saltò fuori dalle coperte e si lanciò tra le sue braccia. Non aveva parole per esprimere la propria contentezza: sua madre era morta prima di poterle insegnare come mostrare riconoscenza.
«Dobbiamo andarcene, Eleonora, ho chi ci aspetta sulla strada.»
«Lo specchio...»
Teresa aspettò. Poi la aiutò a balzare dalla finestra e iniziò a correre. Eleonora fu costretta a seguirla con addosso solo la veste da camera e un paio di scarpe.
«Sei stata nello studio di tuo padre?» domandò Teresa, mentre si preparavano a lanciarsi oltre il muretto di cinta della villa, verso l’oscurità resa flebile dalla scarsa illuminazione stradale ancora accesa: presto, solo la luna sarebbe rimasta in cielo.
Eleonora ebbe paura di confessare d’essersi disfatta dei documenti. Ma non del loro ricordo: «È stato lui.»
«Che sia dannato!»
Teresa non poté imprecare oltre, poiché l’uomo a cui aveva rivolto l’anatema sbucò dalle frasche e l’assaltò. Lei ruzzolò, ma si rimise in piedi e calciò il barone in faccia.
Vincenzo Calenda sputò sangue e girò su se stesso, spaesato: «Portatemi il cavallo e il fucile!»
La carrozza che Eleonora s’aspettava di trovare disattese le aspettative: si ritrovò seduta tra il pagliericcio di un carretto scassato.
«Fai correre quella bestiaccia, Michele!» gridò Teresa, mentre tendeva l’orecchio per capire se gli inseguitori fossero nei paraggi.
Il trotto del cavallo del barone si faceva sempre più intenso. E poi altri cavalli, che risalivano dal boschetto e dal paese.
«Mi hanno seguita,» Teresa, disperata, mise le mani tra il fieno sul carretto e imbracciò un’arma.
Eleonora drizzò il capo e seguì il dito della giovane al suo fianco, lo stesso dito che, dopo aver armato il fucile, si spostò sul grilletto.
«Sparerai per spaventare i cavalli, non è così?»
L’altra si morse le labbra.
«Teresa, non colpire papà.»
Premette il grilletto e la nottata s’illuminò: qualcuno gridò e un cavallo nitrì. Urla confuse e male parole precedettero, seppur di poco, il suono degli spari di risposta degli inseguitori.
«Non colpite la mia bambina!»
Eleonora cercò di alzarsi sul carro, «papà, ti supplico di smetterla!»
«Giù, sciocca!» Teresa la prese per le spalle e provò a trascinarla di nuovo tra la paglia e la sicurezza di poche assi di legno marcescenti. Altri lampi di luce nella tenebra e, distinto tra gli sbuffi degli animali e lo scalpiccio degli zoccoli, un grido acuto.
«L’hanno colpita!» Eleonora si trovò le mani sporche di sangue, il corpo di Teresa tra le braccia: ansimava in agonia, ma era viva. «Devi accostare, ferma il carretto!»
Michele girò di poco il capo e aprì la bocca per esprimere la propria opinione, ma un proiettile vagante lo silenziò, portandolo a ruzzolare giù dal carro. Il cavallo s’imbizzarrì e la vettura fu sbalzata oltre la strada, assieme alle due giovani che tentarono di aggrapparsi a qualcosa pur di non essere proiettate nell’aria.
Quando Eleonora aprì gli occhi, le baionette scintillanti dei fucili dei gendarmi la ancoravano al suolo. Al suo fianco, Teresa era stata messa in ginocchio e spinta contro il ceppo di un albero. Il barone stringeva il fucile e lottava per mantenere la mira ferma: il terrore di sbagliare, nonostante avesse la canna poggiata al capo della giovane, lo dominava.
«No!»
Eleonora si lanciò in avanti, alla cieca, e udì fortissimo il suono dello sparo, credendo di essere arrivata tardi: spalancò gli occhi incredula, e respirò l’odore di polvere da sparo direttamente dalla canna del fucile del padre.
«Che hai fatto, pazzo?!» Teresa iniziò a strillare, bagnata dal caldo rigagnolo cremisi che correva dal petto di Eleonora. «È tua figlia, bastardo!»
I gendarmi si fissarono tra loro: non fu loro chiaro cosa il barone avesse in mente e meditarono se fosse doveroso intervenire.
«Posso gestire la faccenda da solo,» biascicò il barone.
«Signore, con tutto il ris—»
«Via da qui!»
Teresa osservò l’uomo stringersi la testa tra le mani, piagnucolare e masticare parole incomprensibili.
«Prima tua moglie e ora tua figlia,» sussurrò lei, «è così che voi nobili mettete a tacere le anime bramose di libertà?»
«Taci, dannata serpe!» mise la mano nella tasca della giubba e caricò il fucile. Armò il cane.
Teresa chiuse gli occhi: aveva fatto il possibile per salvarla. Respirò profondamente. Qualcosa di legnoso le fu messo in braccio. Spalancò le palpebre e si ritrovò col fucile in mano, orientato verso il cuore del barone, il tanto odiato Vincenzo Calenda.
«Va’ nel mio studio e cerca nel secondo cassetto dello scrittoio vicino la finestra. Ci sono documenti che mia figlia non ha trovato: sei qui solo per quelli.»
Teresa strinse i denti e sfiorò il grilletto col dito. La notte brillò di nuovo, per l’ultima volta. Mentre le lacrime le correvano sul viso, un guizzo argentato le rimbalzò sul volto: la luna aveva trovato qualcosa su cui specchiarsi, dimenticato tra dita fredde.
«Quando mi sentirò sola parlerò allo specchio: ci sarai tu ad ascoltarmi dall’altro lato, vero? Tu, e le mie menzogne.»