Viaggio introspettivo
Inviato: venerdì 18 dicembre 2020, 18:44
È buio.
Un buio talmente intenso da sembrare tangibile.
Non vedo niente, non so dove sono, né se sono davvero qualcuno.
All’improvviso una musica mi colpisce in pieno, come un segnale di luce in mezzo a questa oscurità, e sento le lacrime corrermi lungo le guance.
Il mio corpo prende finalmente forma. Una forma a me conosciuta.
Braccia, gambe, testa e busto riappaiono come per magia.
Mi ripeto nella mente i concetti base.
“Sono Alysia, ho sedici anni e non so dove mi trovo”.
Provo a scavare nella memoria alla ricerca del mio ultimo ricordo, ma senza successo.
“Forse sono sotto shock”.
La musica che sento nell’aria dirada a poco a poco l’oscurità. È una melodia che non conosco, ma allo stesso tempo mi pare familiare.
Mi guardo attorno.
Un campo di fiori, completamente grigio si estende sotto i miei piedi per diversi chilometri.
Il mio sguardo può spaziare libero fino a un’immensa barriera blu come la notte, che mi impedisce di vedere oltre.
- Pensi di rimanere ferma qui ancora a lungo?
Sobbalzo per la sorpresa e mi guardo attorno.
Sono sola in mezzo al prato grigio. L’unica cosa che vedo accanto a me è un albero e da questo albero spunta una lanterna.
Sono un po’ confusa, ma la lanterna gira sui suoi cardini e si rivolge nuovamente a me.
- C’è qualche problema?
“Ok, un lampione mi sta parlando”. Forse sono impazzita, ma decido di rispondergli.
- Da dove cominciare…
La lanterna non sembra cogliere l’ironia.
- Beh, potresti cominciare oltrepassando la barriera. A meno che tu voglia rimanere qui impalata insieme a me.
Non so perché, ma oltrepassare il muro blu non mi sembra una grande idea. Tuttavia, neanche rimanere qui mi alletta molto; questo grigio infinito sembra risucchiarmi le energie.
- Cosa c’è oltre la barriera?
- Tu.
Risponde semplicemente il lampione.
“Ok, questo strano albero/lanterna è completamente inutile, ma magari potrebbe diventare il Virgilio di quello che ha tutta l’aria di essere il mio inferno personale”.
- Sembra buio, verresti con me?
Lui si inclina come se stesse riflettendo.
- D’accordo - dice infine - ma ti avverto, potrò accompagnarti solo fino a un certo punto.
- Meglio di niente, ma come farai a seguirmi?
Senza degnarmi di una risposta la lanterna si stacca dall’albero e si contorce implodendo su se stessa.
Quando la trasformazione termina, accanto a me c’è una lucciola.
- La luce ha varie forme.
Risponde semplicemente alla mia domanda inespressa, accoccolandosi sulla mia spalla.
Decido che è meglio non farsi troppe domande.
Mi volto verso la barriera, inspiro profondamente, come se stessi per tuffarmi in mare, e avanzo.
Attraverso un muro che ha la consistenza di un budino.
Non è una sensazione piacevole, ma in pochi attimi sono dall’altra parte e mi scontro con qualcosa di morbido.
Alzo la testa per cercare di capire contro cosa ho sbattuto.
- Questo non è un enorme orsetto di peluche?
Chiedo a bocca aperta.
- Trovi? Io direi invece, che è la tua infanzia.
Ribatte la lucciola.
- La mia infanzia?
- Non ti sembra familiare?
Guardo con attenzione e, sebbene sia davvero enorme, noto tanti piccoli dettagli che fanno riaffiorare in me ricordi sbiaditi che pensavo persi per sempre.
- È Teddy Mac Tenerello, ma perché è così grande?
- L’infanzia è una parte importante della nostra vita e ha una prospettiva delle cose tutta sua.
Si limita a rispondere la lucciola, mentre prende il volo e mi incita a proseguire.
Avanzando arrivo alla quasi completa consapevolezza di essere impazzita. Intorno a me c’è una foresta che non è una foresta.
Le forme sembrano riconoscibili, ma tutto è colorato da pennellate pastello infantili, con alcuni spazi vuoti e altri troppo carichi di colore, senza che i contorni siano stati rispettati.
Vedo castelli di sabbia che nuotano dell’aria con tanto di pinne, braccioli e boccale.
Vedo cespugli cambiare forma per prendere le sembianze di disegni chiaramente nati dalla mano di un bambino.
La mia guida, tuttavia, prosegue decisa.
- Guarda, un fiume.
Noto all’improvviso.
Non so perché, ma mi sembra la prima cosa sensata che vedo.
- Quello non è un fiume - ribatte la lucciola - guarda meglio.
“Ovviamente” penso “perché dovrei stupirmi se c’è un fiume che non è un fiume”.
Mi avvicino alla riva, pensando di essere ormai pronta a tutto.
Non potrei essere più in errore.
La prima cosa che vedo è il viso paffuto di una bambina.
Sobbalzo dalla paura, ma la mia guida mi spinge a continuare a guardare.
Mi faccio coraggio e ritento.
La bambina paffuta non è nell’acqua come pensavo, ma è come se stessi guardando un film proiettato nel fiume. Come una pellicola.
La bambina sta gattonando felice verso due grosse mani e all’improvviso si tira in piedi e comincia a camminare. Dopo due passi cade rovinosamente sul tappeto.
Mia madre mi raccontava sempre che la prima volta che ho camminato ho fatto solo due passi prima di schiantarmi a terra.
Seguendo il corso del fiume la scena cambia. La bambina è più grande e sta piangendo a dirotto, mentre qualcuno la sta lasciando all’asilo.
- Questi sono i miei ricordi?
La lucciola non risponde.
Quando mi volto vedo che sta osservando il fiume come ipnotizzata. Poco sopra di lei appare uno specchio. Ha una forma strana, come se la parte inferiore fosse inclinata all’indietro, come un parabrezza.
- E quello cos’è?
La lucciola finalmente distoglie lo sguardo dal fiume e guarda nella direzione indicata.
- Io non vedo niente, proseguiamo.
Lo specchio, però è ancora lì e mi sta mostrando quelli che sembrano due coni di luce e una strada.
Una fitta dolorosissima mi trapassa la testa e comincio a respirare affannosamente.
- Cosa ti prende?
Chiede la lucciola.
Lo specchio è sparito e al suo pasto è tornata la melodia che avevo sentito prima.
Il dolore alla testa cessa di colpo. Decido di non darci peso, altrimenti non uscirò sana di mente da questo posto.
- Niente, andiamo.
Costeggiamo il fiume lasciandoci alle spalle fiori a forma di pastelli colorati e altalene a forma di porta o viceversa. Non mi è chiaro.
Il fiume, ad un certo punto, si divide.
Una parte continua a proseguire mantenendo un colore lucido e trasparente fino a diventare solo un piccolo ruscelletto, mentre l’altra parte, la più grande, inizia a diventare torbida e mossa, come un mare in tempesta.
Mi affaccio per cercare di capire il motivo del cambiamento, ma dopo aver visto un letto vuoto e una lapide con inciso un nome che non riesco a leggere, mi accorgo che la lucciola non mi sta seguendo.
- Cosa succede?
Le chiedo temendo un pericolo imminente.
- Non posso proseguire.
- Cosa? Non puoi mica abbandonarmi qui da sola.
- Non vorrei, ma l’ho già fatto.
La lucciola si trasforma nuovamente in lampione, poi sembra svanire.
La luce, però, sembra rimanere per permettermi di vedere, un po’ più chiaramente, quel posto innaturale.
La foresta sembra trasformarsi, tutto quello che prima era infantile e gioioso adesso è più adulto e cupo.
Ho paura di quello che mi aspetta qui.
Vorrei tornare da Teddy Mac Tenerello, lì mi sentivo sicura, ma guardando indietro vedo che il paesaggio pastello sta perdendo colore. Tutto quello che mi sono lasciata alle spalle perde a poco a poco vita e diventa grigio.
Inizio a correre, per paura che quell’assenza di colori inglobi anche me.
Un cespuglio di rovi, con delle lingue al posto delle spine, mi blocca il passaggio. Cerco di superarlo mentre le lingue mi feriscono la pelle come piccoli aghi.
Ho già provato questa sensazione. Un ricordo riaffiora e vedo le mie compagne di scuola che mi deridono per il mio peso eccessivo.
Scaccio quell’immagine, non è qualcosa che voglio ricordare. Superato il cespuglio di rovi vedo che alcune lingue mi sono rimaste attaccate addosso e non riesco a togliermele.
Il dolore che provocano continua a lacerarmi la pelle e il cuore.
Avanzando trovo un albero imponente con rami altissimi, impossibili da raggiungere.
Guardando distrattamente riesco a scorgere, sul ramo più basso, un frutto a forma di torta di compleanno.
Mi sembra di riconoscere il dolce che mia mamma aveva fatto per il mio dodicesimo compleanno e che io mi sono rifiutata di mangiare, per paura di ingrassare. Ricordo l’espressione sul suo viso.
Anche gli altri rami sono carichi di pietanze, ma non li guardo neanche. Io e il cibo non abbiamo un buon rapporto.
Lo specchio di prima appare di nuovo di fronte a me, sospeso in aria, e sempre inclinato. Rallento.
Qualcosa dentro di me mi urla di non guardare, ma non riesco a distogliere lo sguardo.
Scorgo nuovamente i coni di luce e la strada.
Un possente albero appare nello specchio, sulla sinistra, in lontananza, mentre la carreggiata comincia ad oscillare. L’immagine diventa sfocata, come se fosse stata immersa in acqua.
La fitta alla testa torna prepotente e il dolore quasi mi acceca.
Vedo giochi di luce davanti a me e sento un senso di oppressione al petto.
La musica si insinua nuovamente nel mio dolore e attenua a poco a poco la fitta.
Torno al presente, lo specchio è sparito.
“Non guarderò più quello strano oggetto, questo è poco, ma sicuro”.
Ricomincio a correre, ma all’improvviso inciampo e cado rovinosamente a terra.
Con le braccia mi proteggo il volto, ma non sento dolore.
Mi metto subito a sedere e noto che le mani non sono ferite.
Allora, mi volto e guardo cosa mi ha fatto cadere e vedo un bastone con una punta brillante che attira la mia attenzione.
Lo prendo in mano e noto che la parte alta ha la forma di un kiwi. L’uccello non il frutto.
Un ricordo si forma nella sua mente. Emily, la mia migliore amica, mi aveva regalato un ciondolo con quella forma, spiegandomi che il kiwi era l’unico uccello senza ali e coda.
Penso volesse comunicarmi qualcosa, ma non l’ho mai capito. L’ho tenuto al collo per diversi anni.
Torno al presente e riprendo il cammino aiutandomi col bastone.
Continuo a voltarmi indietro per paura di vedere il grigio avvicinarsi.
Il bastone mi sorregge in diverse occasioni, ma non mi accorgo di un crepaccio, nascosto dalla vegetazione insolita, e cado giù rovinosamente perdendo di vista il bastone.
Il volo non è altissimo, ma mi toglie il fiato.
La vista è appannata.
Aspetto che il respiro torni normale e mi tiro a sedere.
Mi accorgo di essere finita in una pianura piena di geyser che, invece di spruzzare acqua, eruttano fumo.
Non era la mia vista a essere appannata, ma è quel posto che è immerso nella nebbia dei fumi.
Provo a cercare di risalire il crepaccio, ma senza riuscirci.
Non ho alternativa che attraversare quel luogo impervio.
Devo fare continuamente attenzione a dove metto i piedi, mentre il fumo mi annebbia la mente e rende i suoni ovattati.
È una sensazione familiare. Un altro ricordo riaffiora. Sono sdraiata in una stanza, rido come una scema, mentre la musica e il fumo riempiono tutti gli spazi. Le facce degli altri sono confuse, ma riconosco Emily che cerca di portarmi fuori mentre io la mando via in malo modo.
Torno al presente, gli occhi pieni di lacrime, ripendo a correre.
Non voglio rimanere in questo posto un minuto di più. Voglio tornare a casa, ovunque sia.
Lo strano specchio riappare, ma questa volta non lo degno d'uno sguardo.
Sento il suono di uno schianto, ma nulla mi ferma.
Finalmente raggiungo la fine di quel terribile luogo e davanti a me c’è di nuovo la barriera blu.
Non so se è la via d’uscita, ma mi ci fiondo dentro.
Questa volta, però, la barriera mi respinge e ritorno indietro.
Ricomincio a piangere.
- Fammi uscire, non voglio rimanere qui.
Grido.
Tiro pugni e lancio tutti gli oggetti che trovo per terra, ma la parete rimane impassibile e restituisce tutto quello che le viene scagliato contro.
Mi volto col fiatone per vedere se qualcuno può aiutarmi. L’unica cosa che noto, però, è il grigio che avanza.
Chiamo la lucciola, urlo il nome di Emily, piagnucolo che voglio la mamma, invoco la musica familiare, ma nulla accade.
Il grigio sta per raggiungermi, ma non mi voglio dare per vinta.
Inizio a correre lungo la muraglia alla ricerca di un via d’uscita.
Corro a lungo, con tutte le mie forze. A intervalli regolari mi fermo per provare a uscire, ma vengo sempre rispedita indietro.
A un certo punto le energie mi vengono meno e mi accascio a terra.
Sento che la fine è vicina, ma non riesco a rassegnarmi.
Il grigio ormai lambisce la mia ombra. Ancora pochi istanti e mi inghiottirà.
Lo specchio appare nuovamente davanti a me con i suoi coni luminosi.
- Vattene.
Gli urlo.
Lui, però, rimane lì.
Gli lancio contro una pietra che, invece di romperlo, lo attraversa.
“Ecco la via d’uscita” penso.
Non ci rifletto, non voglio pensare a cosa mi aspetta lì, ma mi ci tuffo dentro a occhi chiusi, poco prima che il grigio mi raggiunga.
Sono alla guida di un’auto. Quella realtà riconoscibile stona messa a confronto con la foresta soprannaturale di poco fa.
La macchina è quella di mia madre che qualche volta prendevo in prestito con o senza il suo consenso.
Sul sedile accanto a me c’è una bottiglia mezza vuota di rum.
Non vedo bene la strada. Sono strafatta e sto piangendo. Il parabrezza è sporco di polvere.
Scorgo un possente albero, dall’altra parte della strada, farsi sempre più vicino.
So cosa sta per accadere e non voglio vederlo.
Cerco di frenare, ma il mio corpo non risponde, come se io fossi solo una mera spettatrice.
Voglio chiudere gli occhi, ma non posso fare neanche questo.
Provo a urlare, ma non odo nessun suono.
Il cuore batte all’impazzata.
La macchina continua sbandare.
Mi vedo cambiare corsia e andare incontro alla morte.
- Smettila. Lo so cosa sta per succedere. Fallo smettere.
Non voglio essere qui, ma l’auto procede inesorabile.
All’improvviso capisco cosa lo specchio si aspetti da me.
- D’accordo lo ammetto: l’incidente è stato colpa mia, volevo morire. Adesso, però, portami via.
Urlo con tutto il fiato che ho in corpo, e questa volta riesco a udire la mia voce.
Sento lo schianto, ma ormai sono lontana. Fluttuo in aria e mi sento leggera, senza peso.
Poi il dolore mi colpisce inaspettatamente, come un pugno.
Ho male ovunque. La testa e le braccia pulsano sofferenti e respirare è insopportabile.
Apro gli occhi.
La luce del giorno mi ferisce.
Sono in una stanza che non riconosco.
Sono attaccata a delle macchine che non smettono di fare bip.
Seduto sotto la finestra vedo James. Il mio amico di sempre, sta canticchiando una melodia familiare.
Emily è addormentata con la testa appoggiata sul mio letto.
Sento dei passi nel corridoio, volto la testa e vedo mia madre entrare in stanza.
Ci mette un attimo ad accorgersi che sono sveglia.
- Alysia.
Urla e corre ad abbracciarmi tra le lacrime.
Emily si sveglia e, insieme a James, mi avvolgono tra le loro braccia confortanti.
Loro singhiozzano, io piango.
- È stata colpa mia, ho deciso io di andare contro quell’albero.
Mugugno e finalmente, dopo quel l'ammissione, mi sento leggera e libera da un peso opprimente e pronta a ricominciare.
Loro, però, non ci fanno neanche caso e continuano a stringermi forte.
Alzo lo sguardo e vedo una foto appoggiata sul comodino.
Mio padre e la me bambina ridono felici, circondati dalle lucciole.
- Grazie.
Mormoro semplicemente. Poi, con un sospiro, accetto l’affetto dei miei cari, come un balsamo sulle ferite.
Un buio talmente intenso da sembrare tangibile.
Non vedo niente, non so dove sono, né se sono davvero qualcuno.
All’improvviso una musica mi colpisce in pieno, come un segnale di luce in mezzo a questa oscurità, e sento le lacrime corrermi lungo le guance.
Il mio corpo prende finalmente forma. Una forma a me conosciuta.
Braccia, gambe, testa e busto riappaiono come per magia.
Mi ripeto nella mente i concetti base.
“Sono Alysia, ho sedici anni e non so dove mi trovo”.
Provo a scavare nella memoria alla ricerca del mio ultimo ricordo, ma senza successo.
“Forse sono sotto shock”.
La musica che sento nell’aria dirada a poco a poco l’oscurità. È una melodia che non conosco, ma allo stesso tempo mi pare familiare.
Mi guardo attorno.
Un campo di fiori, completamente grigio si estende sotto i miei piedi per diversi chilometri.
Il mio sguardo può spaziare libero fino a un’immensa barriera blu come la notte, che mi impedisce di vedere oltre.
- Pensi di rimanere ferma qui ancora a lungo?
Sobbalzo per la sorpresa e mi guardo attorno.
Sono sola in mezzo al prato grigio. L’unica cosa che vedo accanto a me è un albero e da questo albero spunta una lanterna.
Sono un po’ confusa, ma la lanterna gira sui suoi cardini e si rivolge nuovamente a me.
- C’è qualche problema?
“Ok, un lampione mi sta parlando”. Forse sono impazzita, ma decido di rispondergli.
- Da dove cominciare…
La lanterna non sembra cogliere l’ironia.
- Beh, potresti cominciare oltrepassando la barriera. A meno che tu voglia rimanere qui impalata insieme a me.
Non so perché, ma oltrepassare il muro blu non mi sembra una grande idea. Tuttavia, neanche rimanere qui mi alletta molto; questo grigio infinito sembra risucchiarmi le energie.
- Cosa c’è oltre la barriera?
- Tu.
Risponde semplicemente il lampione.
“Ok, questo strano albero/lanterna è completamente inutile, ma magari potrebbe diventare il Virgilio di quello che ha tutta l’aria di essere il mio inferno personale”.
- Sembra buio, verresti con me?
Lui si inclina come se stesse riflettendo.
- D’accordo - dice infine - ma ti avverto, potrò accompagnarti solo fino a un certo punto.
- Meglio di niente, ma come farai a seguirmi?
Senza degnarmi di una risposta la lanterna si stacca dall’albero e si contorce implodendo su se stessa.
Quando la trasformazione termina, accanto a me c’è una lucciola.
- La luce ha varie forme.
Risponde semplicemente alla mia domanda inespressa, accoccolandosi sulla mia spalla.
Decido che è meglio non farsi troppe domande.
Mi volto verso la barriera, inspiro profondamente, come se stessi per tuffarmi in mare, e avanzo.
Attraverso un muro che ha la consistenza di un budino.
Non è una sensazione piacevole, ma in pochi attimi sono dall’altra parte e mi scontro con qualcosa di morbido.
Alzo la testa per cercare di capire contro cosa ho sbattuto.
- Questo non è un enorme orsetto di peluche?
Chiedo a bocca aperta.
- Trovi? Io direi invece, che è la tua infanzia.
Ribatte la lucciola.
- La mia infanzia?
- Non ti sembra familiare?
Guardo con attenzione e, sebbene sia davvero enorme, noto tanti piccoli dettagli che fanno riaffiorare in me ricordi sbiaditi che pensavo persi per sempre.
- È Teddy Mac Tenerello, ma perché è così grande?
- L’infanzia è una parte importante della nostra vita e ha una prospettiva delle cose tutta sua.
Si limita a rispondere la lucciola, mentre prende il volo e mi incita a proseguire.
Avanzando arrivo alla quasi completa consapevolezza di essere impazzita. Intorno a me c’è una foresta che non è una foresta.
Le forme sembrano riconoscibili, ma tutto è colorato da pennellate pastello infantili, con alcuni spazi vuoti e altri troppo carichi di colore, senza che i contorni siano stati rispettati.
Vedo castelli di sabbia che nuotano dell’aria con tanto di pinne, braccioli e boccale.
Vedo cespugli cambiare forma per prendere le sembianze di disegni chiaramente nati dalla mano di un bambino.
La mia guida, tuttavia, prosegue decisa.
- Guarda, un fiume.
Noto all’improvviso.
Non so perché, ma mi sembra la prima cosa sensata che vedo.
- Quello non è un fiume - ribatte la lucciola - guarda meglio.
“Ovviamente” penso “perché dovrei stupirmi se c’è un fiume che non è un fiume”.
Mi avvicino alla riva, pensando di essere ormai pronta a tutto.
Non potrei essere più in errore.
La prima cosa che vedo è il viso paffuto di una bambina.
Sobbalzo dalla paura, ma la mia guida mi spinge a continuare a guardare.
Mi faccio coraggio e ritento.
La bambina paffuta non è nell’acqua come pensavo, ma è come se stessi guardando un film proiettato nel fiume. Come una pellicola.
La bambina sta gattonando felice verso due grosse mani e all’improvviso si tira in piedi e comincia a camminare. Dopo due passi cade rovinosamente sul tappeto.
Mia madre mi raccontava sempre che la prima volta che ho camminato ho fatto solo due passi prima di schiantarmi a terra.
Seguendo il corso del fiume la scena cambia. La bambina è più grande e sta piangendo a dirotto, mentre qualcuno la sta lasciando all’asilo.
- Questi sono i miei ricordi?
La lucciola non risponde.
Quando mi volto vedo che sta osservando il fiume come ipnotizzata. Poco sopra di lei appare uno specchio. Ha una forma strana, come se la parte inferiore fosse inclinata all’indietro, come un parabrezza.
- E quello cos’è?
La lucciola finalmente distoglie lo sguardo dal fiume e guarda nella direzione indicata.
- Io non vedo niente, proseguiamo.
Lo specchio, però è ancora lì e mi sta mostrando quelli che sembrano due coni di luce e una strada.
Una fitta dolorosissima mi trapassa la testa e comincio a respirare affannosamente.
- Cosa ti prende?
Chiede la lucciola.
Lo specchio è sparito e al suo pasto è tornata la melodia che avevo sentito prima.
Il dolore alla testa cessa di colpo. Decido di non darci peso, altrimenti non uscirò sana di mente da questo posto.
- Niente, andiamo.
Costeggiamo il fiume lasciandoci alle spalle fiori a forma di pastelli colorati e altalene a forma di porta o viceversa. Non mi è chiaro.
Il fiume, ad un certo punto, si divide.
Una parte continua a proseguire mantenendo un colore lucido e trasparente fino a diventare solo un piccolo ruscelletto, mentre l’altra parte, la più grande, inizia a diventare torbida e mossa, come un mare in tempesta.
Mi affaccio per cercare di capire il motivo del cambiamento, ma dopo aver visto un letto vuoto e una lapide con inciso un nome che non riesco a leggere, mi accorgo che la lucciola non mi sta seguendo.
- Cosa succede?
Le chiedo temendo un pericolo imminente.
- Non posso proseguire.
- Cosa? Non puoi mica abbandonarmi qui da sola.
- Non vorrei, ma l’ho già fatto.
La lucciola si trasforma nuovamente in lampione, poi sembra svanire.
La luce, però, sembra rimanere per permettermi di vedere, un po’ più chiaramente, quel posto innaturale.
La foresta sembra trasformarsi, tutto quello che prima era infantile e gioioso adesso è più adulto e cupo.
Ho paura di quello che mi aspetta qui.
Vorrei tornare da Teddy Mac Tenerello, lì mi sentivo sicura, ma guardando indietro vedo che il paesaggio pastello sta perdendo colore. Tutto quello che mi sono lasciata alle spalle perde a poco a poco vita e diventa grigio.
Inizio a correre, per paura che quell’assenza di colori inglobi anche me.
Un cespuglio di rovi, con delle lingue al posto delle spine, mi blocca il passaggio. Cerco di superarlo mentre le lingue mi feriscono la pelle come piccoli aghi.
Ho già provato questa sensazione. Un ricordo riaffiora e vedo le mie compagne di scuola che mi deridono per il mio peso eccessivo.
Scaccio quell’immagine, non è qualcosa che voglio ricordare. Superato il cespuglio di rovi vedo che alcune lingue mi sono rimaste attaccate addosso e non riesco a togliermele.
Il dolore che provocano continua a lacerarmi la pelle e il cuore.
Avanzando trovo un albero imponente con rami altissimi, impossibili da raggiungere.
Guardando distrattamente riesco a scorgere, sul ramo più basso, un frutto a forma di torta di compleanno.
Mi sembra di riconoscere il dolce che mia mamma aveva fatto per il mio dodicesimo compleanno e che io mi sono rifiutata di mangiare, per paura di ingrassare. Ricordo l’espressione sul suo viso.
Anche gli altri rami sono carichi di pietanze, ma non li guardo neanche. Io e il cibo non abbiamo un buon rapporto.
Lo specchio di prima appare di nuovo di fronte a me, sospeso in aria, e sempre inclinato. Rallento.
Qualcosa dentro di me mi urla di non guardare, ma non riesco a distogliere lo sguardo.
Scorgo nuovamente i coni di luce e la strada.
Un possente albero appare nello specchio, sulla sinistra, in lontananza, mentre la carreggiata comincia ad oscillare. L’immagine diventa sfocata, come se fosse stata immersa in acqua.
La fitta alla testa torna prepotente e il dolore quasi mi acceca.
Vedo giochi di luce davanti a me e sento un senso di oppressione al petto.
La musica si insinua nuovamente nel mio dolore e attenua a poco a poco la fitta.
Torno al presente, lo specchio è sparito.
“Non guarderò più quello strano oggetto, questo è poco, ma sicuro”.
Ricomincio a correre, ma all’improvviso inciampo e cado rovinosamente a terra.
Con le braccia mi proteggo il volto, ma non sento dolore.
Mi metto subito a sedere e noto che le mani non sono ferite.
Allora, mi volto e guardo cosa mi ha fatto cadere e vedo un bastone con una punta brillante che attira la mia attenzione.
Lo prendo in mano e noto che la parte alta ha la forma di un kiwi. L’uccello non il frutto.
Un ricordo si forma nella sua mente. Emily, la mia migliore amica, mi aveva regalato un ciondolo con quella forma, spiegandomi che il kiwi era l’unico uccello senza ali e coda.
Penso volesse comunicarmi qualcosa, ma non l’ho mai capito. L’ho tenuto al collo per diversi anni.
Torno al presente e riprendo il cammino aiutandomi col bastone.
Continuo a voltarmi indietro per paura di vedere il grigio avvicinarsi.
Il bastone mi sorregge in diverse occasioni, ma non mi accorgo di un crepaccio, nascosto dalla vegetazione insolita, e cado giù rovinosamente perdendo di vista il bastone.
Il volo non è altissimo, ma mi toglie il fiato.
La vista è appannata.
Aspetto che il respiro torni normale e mi tiro a sedere.
Mi accorgo di essere finita in una pianura piena di geyser che, invece di spruzzare acqua, eruttano fumo.
Non era la mia vista a essere appannata, ma è quel posto che è immerso nella nebbia dei fumi.
Provo a cercare di risalire il crepaccio, ma senza riuscirci.
Non ho alternativa che attraversare quel luogo impervio.
Devo fare continuamente attenzione a dove metto i piedi, mentre il fumo mi annebbia la mente e rende i suoni ovattati.
È una sensazione familiare. Un altro ricordo riaffiora. Sono sdraiata in una stanza, rido come una scema, mentre la musica e il fumo riempiono tutti gli spazi. Le facce degli altri sono confuse, ma riconosco Emily che cerca di portarmi fuori mentre io la mando via in malo modo.
Torno al presente, gli occhi pieni di lacrime, ripendo a correre.
Non voglio rimanere in questo posto un minuto di più. Voglio tornare a casa, ovunque sia.
Lo strano specchio riappare, ma questa volta non lo degno d'uno sguardo.
Sento il suono di uno schianto, ma nulla mi ferma.
Finalmente raggiungo la fine di quel terribile luogo e davanti a me c’è di nuovo la barriera blu.
Non so se è la via d’uscita, ma mi ci fiondo dentro.
Questa volta, però, la barriera mi respinge e ritorno indietro.
Ricomincio a piangere.
- Fammi uscire, non voglio rimanere qui.
Grido.
Tiro pugni e lancio tutti gli oggetti che trovo per terra, ma la parete rimane impassibile e restituisce tutto quello che le viene scagliato contro.
Mi volto col fiatone per vedere se qualcuno può aiutarmi. L’unica cosa che noto, però, è il grigio che avanza.
Chiamo la lucciola, urlo il nome di Emily, piagnucolo che voglio la mamma, invoco la musica familiare, ma nulla accade.
Il grigio sta per raggiungermi, ma non mi voglio dare per vinta.
Inizio a correre lungo la muraglia alla ricerca di un via d’uscita.
Corro a lungo, con tutte le mie forze. A intervalli regolari mi fermo per provare a uscire, ma vengo sempre rispedita indietro.
A un certo punto le energie mi vengono meno e mi accascio a terra.
Sento che la fine è vicina, ma non riesco a rassegnarmi.
Il grigio ormai lambisce la mia ombra. Ancora pochi istanti e mi inghiottirà.
Lo specchio appare nuovamente davanti a me con i suoi coni luminosi.
- Vattene.
Gli urlo.
Lui, però, rimane lì.
Gli lancio contro una pietra che, invece di romperlo, lo attraversa.
“Ecco la via d’uscita” penso.
Non ci rifletto, non voglio pensare a cosa mi aspetta lì, ma mi ci tuffo dentro a occhi chiusi, poco prima che il grigio mi raggiunga.
Sono alla guida di un’auto. Quella realtà riconoscibile stona messa a confronto con la foresta soprannaturale di poco fa.
La macchina è quella di mia madre che qualche volta prendevo in prestito con o senza il suo consenso.
Sul sedile accanto a me c’è una bottiglia mezza vuota di rum.
Non vedo bene la strada. Sono strafatta e sto piangendo. Il parabrezza è sporco di polvere.
Scorgo un possente albero, dall’altra parte della strada, farsi sempre più vicino.
So cosa sta per accadere e non voglio vederlo.
Cerco di frenare, ma il mio corpo non risponde, come se io fossi solo una mera spettatrice.
Voglio chiudere gli occhi, ma non posso fare neanche questo.
Provo a urlare, ma non odo nessun suono.
Il cuore batte all’impazzata.
La macchina continua sbandare.
Mi vedo cambiare corsia e andare incontro alla morte.
- Smettila. Lo so cosa sta per succedere. Fallo smettere.
Non voglio essere qui, ma l’auto procede inesorabile.
All’improvviso capisco cosa lo specchio si aspetti da me.
- D’accordo lo ammetto: l’incidente è stato colpa mia, volevo morire. Adesso, però, portami via.
Urlo con tutto il fiato che ho in corpo, e questa volta riesco a udire la mia voce.
Sento lo schianto, ma ormai sono lontana. Fluttuo in aria e mi sento leggera, senza peso.
Poi il dolore mi colpisce inaspettatamente, come un pugno.
Ho male ovunque. La testa e le braccia pulsano sofferenti e respirare è insopportabile.
Apro gli occhi.
La luce del giorno mi ferisce.
Sono in una stanza che non riconosco.
Sono attaccata a delle macchine che non smettono di fare bip.
Seduto sotto la finestra vedo James. Il mio amico di sempre, sta canticchiando una melodia familiare.
Emily è addormentata con la testa appoggiata sul mio letto.
Sento dei passi nel corridoio, volto la testa e vedo mia madre entrare in stanza.
Ci mette un attimo ad accorgersi che sono sveglia.
- Alysia.
Urla e corre ad abbracciarmi tra le lacrime.
Emily si sveglia e, insieme a James, mi avvolgono tra le loro braccia confortanti.
Loro singhiozzano, io piango.
- È stata colpa mia, ho deciso io di andare contro quell’albero.
Mugugno e finalmente, dopo quel l'ammissione, mi sento leggera e libera da un peso opprimente e pronta a ricominciare.
Loro, però, non ci fanno neanche caso e continuano a stringermi forte.
Alzo lo sguardo e vedo una foto appoggiata sul comodino.
Mio padre e la me bambina ridono felici, circondati dalle lucciole.
- Grazie.
Mormoro semplicemente. Poi, con un sospiro, accetto l’affetto dei miei cari, come un balsamo sulle ferite.