Un'orribile maschera.
Inviato: domenica 20 dicembre 2020, 11:26
«Chi c’è?», domandò infastidito Ryan sentendo aprirsi la porta della stanza. Nonostante la sua mente fosse ancora altrove, intrappolata nel flusso dei pensieri, riconobbe facilmente la chioma di boccoli biondi ricadenti sul volto di Stephanie. «Oh ciao, Steph!», esclamò accennando un sorriso ed eliminando dalla propria voce ogni nota di contrarietà, «Che ci fai qui?».
«Papà mi ha detto che eri ritornato nel tuo covo. Marie ha confermato che sei qui da solo da tre ore. Spero di non averti infastidito», replicò la ragazza in tono remissivo, avvicinandosi cautamente alla balaustra marmorea su cui Ryan teneva ben ferme le proprie mani.
Lui accorciò la distanza che li separava, compiendo qualche passo verso di lei prima di tirarla a sé e cingerle la vita con le mani gelide. «Ma che dici? Non potresti mai infastidirmi!», dichiarò, sfoggiando un sorriso a trentadue denti per poi premere le proprie labbra su quelle di Stephanie.
Nel frattempo la giovane divenne vittima di un incontrollato tremore, che le scosse tutto il corpo a partire dalla pianta del piede destro. Le guance invece erano arrossite e l’intera gestualità della biondina mostrava i sintomi di un vago imbarazzo e di una reticenza contro cui combatteva inconsciamente.
Quando il capo di Steph si allontanò dal suo, Ryan comprese cosa stesse passando per la testa alla sua fidanzata. «Ehi, è tutto ok, tranquilla!», la rassicurò, accarezzandole il viso con la mano destra.
«Lo so, è che ho sempre una strana sensazione…ho paura che mio padre entri all’improvviso e ci veda e…», ribatté Stephanie, cercando di trovare una giustificazione per qualcosa che lei stessa giudicava insensato.
«E cosa potrebbe dirci? Lui come chiunque altro, intendo. In fondo, siamo solo due adolescenti innamorati che si baciano in cima ai resti della Statua della Libertà, di fronte ad una New York distrutta dall’ennesimo conflitto bellico di portata mondiale. Saremmo veramente noi il problema?», la rimbeccò lui in un ghigno beffardo.
«Quanto sei melodrammatico!», si lamentò la ragazza. «E le tue mani sono gelide! Ti ho già avvisato che fa troppo freddo quassù…dovresti indossare dei guanti, se non vuoi…»
«Stai sviando!», la interruppe lui. «E sai che non lo sopporto!»
«Va bene», si arrese Stephanie accostando nuovamente le proprie labbra a quelle dell’altro e tornando a baciarlo prima di spingerlo indietro di qualche centimetro verso la balaustra. «Non siamo noi il problema», ammise prima di raggiungere la sporgenza marmorea e scrutare da lì il tessuto di costruzioni di vario genere, edifici fatiscenti e casupole che si stendeva a diversi metri sotto di loro.
Delle fenici dalle piume scarlatte e dorate s’impennavano nel cielo, disegnando una scia simile a quella dei fuochi d’artificio. Alcuni di quei volatili, dopo aver trafitto le nuvole generando rade pioggerelline, ritornavano in picchiata nei villaggi per accendere il fuoco in rudimentali caminetti. Dei pegasi, aggiogati a sbarre metalliche ancorate a basse case di mattoni, innalzavano lamenti che si diffondevano a chilometri di distanza. Piccole imbarcazioni che parevano realizzate al solo scopo della navigazione, in realtà fluttuavano, grazie a piccoli congegni elettronici, in direzione di colossali palazzi che si profilavano a varie leghe di distanza sotto forma di ombre minacciose e dalla geometria alquanto spigolosa.
«Sembra tutto molto tragico, ma non è così male alla fine!», sentenziò Ryan, facendo spallucce al di sotto della leggera giacca nera con diverse zip laterali sulla manica destra. Quando si accorse dell’espressione nostalgica e turbata dipinta sul volto di Steph, cercò però di smussare il valore di quella frase. «Supereremo anche questa, vedrai, e riusciremo a trovare tua madre!», concluse, stringendo forte a sé la biondina e scostando le lunghe ciocche di capelli per baciare teneramente il suo collo; gli occhi verdi e furbetti dell’uno si specchiarono frattanto in quelli cerulei e lacrimosi dell’altra.
Al di là di quella fortezza improvvisata, lo specchio dell’acqua s’increspava e la serenità di quella superficie veniva turbata dall’improvvisa comparsa di esigui gruppi di sirene. Mentre tali creature sfogavano nel proprio canto tutta la frustrazione accumulata per via dell’attenzione loro negata dai marinai, Stephanie lasciò scorrere lungo la base del collo le proprie dita, che si ritrassero di scatto dopo il contatto con il gelido metallo della catenina donatale dalla madre pochi giorni prima che la sua realtà venisse sconvolta.
«Buon compleanno, tesoro mio!», esclamò sua madre chiudendole la catenina intorno al collo. «So che non è il regalo più alla moda che si possa trovare in circolazione…sicuramente le tue amiche avranno ricevuto qualcosa di molto più costoso o prezioso per i loro sedici anni, ma quest’oggetto viene tramandato nella famiglia Middler da generazioni, e ci tenevo che tu lo avessi.», si giustificò la donna mentre le leggere rughe che si facevano largo in mezzo alle guance assumevano un’espressione malinconica. Delle lacrime cominciarono a sgorgarle dagli occhi dopo che ebbe avvicinato a sé il minuscolo manufatto e, tenendolo tra il pollice e l’indice, ne ebbe esaminato i bordi deteriorati dal tempo. «Uh, guarda, è anche rovinato! Mi dispiace veramente, se non vuoi indossarlo non fa niente, cara… Magari non vuoi farti vedere con indosso questo ciarpame da quel tuo ragazzo… Si chiama Ryan, giusto?»
«Mamma, tranquilla.», la bloccò commossa Stephanie avvinghiandole delicatamente i polsi con le proprie mani. «Mi piace. È stupendo! E Ryan, beh, diciamo che ha un gusto insolito per le cose un po’ vintage!», commentò, ridendo, prima di gettare le braccia attorno al collo della madre.
Stephanie ne era certa: sua madre era senz’ombra di dubbio la persona migliore che avesse conosciuto. Grace Middler in Blackwater era sempre apparsa agli occhi di tutti come una donna gentile nei modi, onesta e disposta ad aiutare gli altri anche al costo di sacrificare se stessa in ogni singola occasione. Amava alla follia suo marito e sua figlia, con la quale non aveva esitato a mostrare severità qualora ve ne fosse stato bisogno. Quando la famiglia aveva attraversato un periodo di difficoltà economica, lei era stata la prima a compiere sforzi aggiuntivi e sacrificare persino l’indispensabile. L’aspetto contribuiva a delinearne il carattere angelico: occhi grigi e capelli biondi, quasi perlacei, a causa di un invecchiamento precoce forse dovuto all’affaticamento, fisico esile e a tratti ossuto, l’altezza non tropo rilevante.
«Toc, toc, sveglia dormigliona! Ci sono novità di sotto!»
«Meow!»
Steph smise di giocherellare con l’ovale della catenina, che presentava, al centro di una pittura dorata con decorazioni dall’andamento sinuoso, un frammento di rubino ben incastonato. Era come se l’intero manufatto fosse stato realizzato allo scopo di proteggere quel tesoro. La ragazza aveva trascorso così tanto tempo a fissare quella modesta eredità che si era dimenticata dell’esistenza del mondo attorno a lei. «Arrivo.», rispose con voce assonnata. Era riuscita vagamente a identificare le voci con i sensi parzialmente assopiti. Probabilmente anche le gambe si erano intorpidite perché, saltando con goffaggine giù dal letto, aveva rischiato fortemente di crollare sulle assi del pavimento.
Dopo aver raggiunto con difficoltà la maniglia della porta, Stephanie la tirò indietro permettendo l’accesso ai visitatori. Ryan e Persefone, il gatto che puntualmente Steph si dimenticava di accudire, comparvero sull’uscio leggermente infastiditi.
«Persy!», esclamò la biondina, ignorando le espressioni contrariate e accucciandosi accanto all’animale mentre il pesante giacchetto verde militare disegnava lunghe pieghe dietro di lei. «Sai che qui puoi anche trasformarti, no? Quanto ti manca per terminare le due ore giornaliere sotto forma di micetto domestico?», chiese con i lineamenti del volto contratti ad assumere una buffa fisionomia.
Il gatto controbatté con un miagolio indifferente, ripiegando leggermente l’orecchio destro parzialmente lacerato e alzando la zampa anteriore sinistra causando il leggero tintinnio del campanellino legato al collo. Dopo nemmeno un secondo, Steph fu costretta a retrocedere di qualche decina di centimetri. Al docile animaletto che stava accarezzando si sostituì infatti una gigantesca pantera nera dal manto lucido e nero come il carbone. Essa cominciò a raschiare con gli artigli delle zampe voluminose la superficie lignea sotto di sé, producendo un fastidioso stridore. Gli occhi parevano pietre d’ambra perfettamente intagliati al solo scopo di essere incastonati e custoditi nel muso dell’animale. I candidi denti aguzzi delineavano con la bocca un’espressione che manifestava desiderio di libertà, azione, avventura.
«Le ho terminate proprio ora!», confermò giuliva la bestia, lasciando piovere per la contentezza un quantitativo non indifferente di bava sul pavimento. Ryan si ritrasse allora d’istinto, ancora incapace di accettare che la creatura potesse parlare. «Tuo padre ci aspetta giù! Forza, muoviti!», la incitò Persefone prima di voltarsi e compiere un balzo sul pianerottolo d’ingresso per poi prendere lo slancio lungo le scale.
Stephanie cercò lo sguardo del suo fidanzato, che si era addossato al corrimano arrugginito. I capelli scuri del ragazzo erano arruffati e completamente in disordine. Probabilmente era stato bruscamente risvegliato dal suo consueto riposo pomeridiano. Intercettata l’occhiata di Steffy, si limitò a risponderle con un’alzata di spalle e un cenno in direzione della rampa di assi che si dispiegava sotto di loro.
Una volta che i due giovani ebbero raggiunto la sala in cui si riunivano gli abitanti della fatiscente fortezza, la porta ruotò sui cardini e lasciò intravedere un’adolescente dalla pelle scura e lunghi ricci color miele seduta a gambe incrociate su un vecchio tappeto rosso dalle trame dorate. Intorno a lei, diversi uomini e donne di ogni età dagli abiti consunti avevano preso posto su sedie di vimini mal riassestate.
«Marie, cosa sta…?», chiese Steph, lievemente turbata, oltrepassando l’uscio.
«Vieni qui, Stephanie. C’è qualcosa di cui dobbiamo parlare.», replicò l’altra tenendo gli occhi chiusi e invitando la biondina ad avvicinarsi con il braccio disteso e un gesto eloquente della mano.
Gregorius Blackwater squadrò sua figlia con aria tesa; riconosceva in lei molti tratti di sua moglie, in particolare un’innocenza e una bontà d’animo congenite. Solitamente, il suo problema più grande sarebbe stato quello di vederla in compagnia di Ryan; in quell’istante specifico però aveva preso il sopravvento l’apprensione per la futura rivelazione della giovane strega.
Ad ogni passo che compiva verso il tappeto logoro, la biondina si sentiva una criminale; gli occhi fissi su di lei non aiutavano. Ryan le aveva lasciato intendere di volerla accompagnare, ma lei aveva mostrato con pochi semplici gesti il coraggioso desiderio di affrontare da sola l’ostacolo. Il moretto aveva quindi preso posto a gambe incrociate di fronte alla porta appena chiusasi, sperando che non succedesse niente di brutto alla ragazza che lui, diffidente e recalcitrante rispetto ad ogni forma di legame affettivo, amava più dell’idea stessa di essere vivo.
«Tranquilla, non hai fatto niente di male.», la rassicurò con voce dolce e tranquilla Marie McAllan, abbandonando quanto di ancestrale era stato presente nella sua voce e riaprendo gli occhi. «Ho capito che il vero problema non sei tu. Scusa la pressione, ma dovevo accertarmene.» Dopodiché, con un movimento repentino del giacchetto viola, la strega prese tra le mani l’ovale della catenina di Stephanie. «Chi te l’ha regalato?», chiese con freddezza e una punta d’ira.
«Mia madre...perché?», domandò l’altra stupita, slacciandosi dal collo l’oggetto e riponendolo con cura nel palmo aperto dell’amica.
«Perché ha qualcosa che non va. Vorrei sbagliarmi, ma so che questo succede molto raramente.», sentenziò Marie, prima di far levitare l’accessorio sopra di sé e di scomporlo in parti, articolando suoni primordiali.
La pantera, accucciata in un angolo poco distante della stanza, alzò il capo e puntò con ammirazione gli occhi su quell’incanto, in mezzo al quale si muovevano scintille e sottili fili variopinti che scagliavano i frammenti in ogni direzione, prima che tornassero inesorabilmente a congiungersi.
«Un maleficio.», spiegò Marie con un’indifferenza che si apriva soltanto al ribrezzo. «Devo trovare il punto di sblocco». L’artefatto ricadde con un piccolo tonfo tra le mani della McAllan, che ne esaminò la superficie con meticolosa attenzione. Inizialmente ritenne che fosse la pittura rovinata sul bordo dell’ovale a celare il sortilegio, ma l’ipotesi fu respinta appena le dita ebbero tastato il frammento di rubino incastonato nel mezzo. «Geniale! Anche se francamente mi aspettavo di più!», commentò tamburellandosi il mento con l’indice sinistro, mentre da quello destro si diffondevano scintille scarlatte causa di minuscole crepe nella zona superiore della pietra preziosa.
«Una buona imitazione, quantomeno!», sentenziò quando fu trascorso un minuto di silenzio carico di tensione e la porzione di rubino, spezzata in ogni suo millimetro, si riversò sotto forma di polvere sulle setole assediate dai tarli. Marie sillabò allora in una sorta di sussurro un nuovo incantesimo e la copertura anteriore dell’ovale si disintegrò, rivelando un oggetto vitreo delle dimensioni di una lente che nella sua geometria ineccepibile pareva uno specchio in scala molto ridotta. Con un gesto la strega scagliò contro il muro il resto della catenina; dopodiché allungò il braccio per raccogliere a mezz’aria quel sinistro tesoro.
Stephanie era incredula di fronte a quanto stava accadendo, così come suo padre, che tormentava con le dita alternativamente i baffi e i capelli brizzolati. I peggiori sospetti e timori s’impadronirono dei presenti, ma il panico si manifestò nella sua essenza più pura quando la giovane strega, premendo sulla superficie vitrea, riuscì gradualmente a estenderne i bordi, ricavando da esso un gigantesco specchio. Marie costrinse l’artefatto maledetto a sorvolare il pavimento sino a fermarsi a mezzo metro di distanza dall’ingresso, ordinando nel frattempo a tutti di farsi da parte.
Fu questione di un solo istante: il contorno dell’oggetto iniziò a emanare bagliori argentei, il riflesso lucido s’infranse in un vorticare d’immagini e, sotto gli occhi allibiti di Ryan, una donna munita di pugnale e con indosso un’elegante veste blu notte varcò il passaggio, urlando come in preda a una follia omicida.
Stephanie era avvolta in una pesante giacca nera, una sciarpa dello stesso colore le copriva il collo e fungeva da mezzo per asciugare le lacrime. Il vento ruggiva, spingendo i capelli a nasconderle il volto livido. Di fronte a lei, tra i ciuffi d’erba bagnati, una fredda lapide marmorea le ricordava il caro prezzo pagato e la ammoniva per le sue azioni.
«Non puoi sentirti in colpa, era l’unico modo.», le disse una voce grave nel vano tentativo di consolarla.
«Lo so», commentò lei puntando con rassegnazione gli occhi verso la scritta incisa nella pietra.
Ryan rotolò di scatto verso uno degli angoli della sala; seppur tentasse di nasconderla, la paura era evidente nei suoi occhi. Estrasse la pistola dal fodero che teneva agganciato alla cintura. Caricò l’arma e la puntò alla spalla dell’avversaria, ma si rese presto conto che sparare sarebbe stato inutile. Quella pazza incedeva sicura di sé e le bastava sfiorare i suoi contendenti per spedirli a terra in preda ad una crisi di panico.
Stephanie sentì il sangue raggelarsi nelle sue vene e uno strano nodo allo stomaco. Lasciò intendere a Marie di voler gestire da sola la situazione e la strega si teletrasportò nell’abitato limitrofo per allestirvi una barriera protettiva. Mentre avanzava tra i corpi in preda alle convulsioni, Steph si rimproverò spesso quella decisione, ma ogni volta il pensiero che a provocare quel caos fosse stata sua madre sopprimeva ogni titubanza. «Mamma», disse una volta giunta dietro la donna, nel bel mezzo di un’accesa colluttazione con Ryan, ormai disarmato. «Non so cosa ti sia successo e se questo sia uno scherzo o meno, ma può bastare così.»
Grace si voltò. Non vedeva sua figlia da parecchio tempo, ma non credeva possibile che le appartenessero lo sguardo fermo e la pacatezza con cui erano state pronunciate quelle parole, prive di ogni forma di risentimento. «Tesoro mio! Quanto mi sei mancata! Quindi sei stata tu a rompere il sigillo? Sai già tutto? Sei pronta a venire via con me?», replicò con voce leziosa mentre si accingeva ad abbracciare la ragazza.
«Non so di cosa tu stia parlando.», rispose con freddezza l’altra, scansandosi e scrutando con circospezione le pareti lungo le quali i membri della comunità, suo padre e Persefone compresi, ricadevano pesantemente, tossendo o autoinfliggendosi ferite.
«Come no? Beh, allora dovrò rimediare. Ma prima devo eliminare ogni testimone! È la parte che preferisco, sai?», annunciò Grace ridendo ed indicando con il pugnale Ryan, piegato a terra, confuso e dolorante.
«Non ci pensare nemmeno!», sbottò Stephanie, scagliando dal palmo aperto della mano un getto infuocato che tramutò in cenere l’arma.
«Bravissima, tesoro!», squittì la donna in un applauso. «Sei già in grado di rendere concrete le tue illusioni! Mi rendi così fiera di te!», gioì asciugandosi le lacrime di contentezza con un fazzoletto comparso dal nulla. Poi, notando che sua figlia era caduta in ginocchio, terrorizzata, e stringeva il polso sinistro con la mano destra, spiegò: «Sì, lo so che ti sembra assurdo, ma pensi davvero che sia la prima volta in cui usi i tuoi poteri? Chissà quante volte l’hai fatto senza accorgertene! Sei un’illusionista, Steffy, per discendenza dalla famiglia Middler».
Trascorsero alcuni secondi, durante i quali la tensione fu accresciuta dalle urla di disperazione degli altri presenti nella stanza. Ryan provò a rialzarsi, ma, sotto gli occhi terrorizzati della figlia, Grace lo pugnalò tre volte al petto prima di sfiorargli la fronte con la mano ed invadergli la mente con grottesche visioni nelle quali i cadaveri di coloro che aveva perduto strappavano le sue carni e si divertivano a giocarci mentre le divoravano. Infine il moretto, gettando un’ultima occhiata speranzosa a Steph, si accasciò alla parete.
La donna si avvicinò allora a Stephanie con lo sguardo carico d’ira e l’indice teso: «Non immagini nemmeno il tuo potenziale: saresti in grado di generare un simile caos anche tu, semplicemente stendendo un braccio. Guarda come si dimenano per qualche piccola allucinazione…patetici! Vieni con me!».
«Mai!», sbottò la ragazza, facendo apparire una spada nella sua mano e dirigendola verso il collo della madre.
«Cosa vorresti fare?», rise l’altra, accentuando così l’agghiacciante contrasto tra la tinta intensa del rossetto e il pallore del viso. «Io ho dato tutto per te! Ho nascosto i miei poteri, finto di essere una persona che detestavo, sopportato tuo padre e la gente schifosa che ci circondava solo per poterti stare accanto ed aiutarti a sviluppare il tuo vero potenziale e…ughk!»
La lama affilata raggiunse la carotide, provocando la fuoriuscita di un enorme flusso scarlatto. Dopodiché il metallo scese più in basso, conficcandosi nel cuore.
«Era un mostro. Non meritava di vivere, così come quelli che l’hanno aiutata a far scoppiare la guerra. Non dovrei nemmeno piangerla soltanto per il modo in cui ti ha torturato!»
«Ma non sapeva niente dei miei poteri di autoguarigione. Posso sopportare un po’ di dolore fisico, Steph; le uniche cicatrici vere sono le tue.»
«Ti amo, Ryan.», ammise infine lei lasciando scorrere le braccia all’interno della giacca aperta del ragazzo, dietro la schiena calda, viva. «Spero che almeno tu mi dimostri che non esistono solo false apparenze e che si può veramente essere bu…». Non riuscì a finire la frase e lo baciò tra le lacrime.
«Tranquilla», la rincuorò lui, «Ti ho già detto che niente è tragico come sembra».
Valerio Covaia
«Papà mi ha detto che eri ritornato nel tuo covo. Marie ha confermato che sei qui da solo da tre ore. Spero di non averti infastidito», replicò la ragazza in tono remissivo, avvicinandosi cautamente alla balaustra marmorea su cui Ryan teneva ben ferme le proprie mani.
Lui accorciò la distanza che li separava, compiendo qualche passo verso di lei prima di tirarla a sé e cingerle la vita con le mani gelide. «Ma che dici? Non potresti mai infastidirmi!», dichiarò, sfoggiando un sorriso a trentadue denti per poi premere le proprie labbra su quelle di Stephanie.
Nel frattempo la giovane divenne vittima di un incontrollato tremore, che le scosse tutto il corpo a partire dalla pianta del piede destro. Le guance invece erano arrossite e l’intera gestualità della biondina mostrava i sintomi di un vago imbarazzo e di una reticenza contro cui combatteva inconsciamente.
Quando il capo di Steph si allontanò dal suo, Ryan comprese cosa stesse passando per la testa alla sua fidanzata. «Ehi, è tutto ok, tranquilla!», la rassicurò, accarezzandole il viso con la mano destra.
«Lo so, è che ho sempre una strana sensazione…ho paura che mio padre entri all’improvviso e ci veda e…», ribatté Stephanie, cercando di trovare una giustificazione per qualcosa che lei stessa giudicava insensato.
«E cosa potrebbe dirci? Lui come chiunque altro, intendo. In fondo, siamo solo due adolescenti innamorati che si baciano in cima ai resti della Statua della Libertà, di fronte ad una New York distrutta dall’ennesimo conflitto bellico di portata mondiale. Saremmo veramente noi il problema?», la rimbeccò lui in un ghigno beffardo.
«Quanto sei melodrammatico!», si lamentò la ragazza. «E le tue mani sono gelide! Ti ho già avvisato che fa troppo freddo quassù…dovresti indossare dei guanti, se non vuoi…»
«Stai sviando!», la interruppe lui. «E sai che non lo sopporto!»
«Va bene», si arrese Stephanie accostando nuovamente le proprie labbra a quelle dell’altro e tornando a baciarlo prima di spingerlo indietro di qualche centimetro verso la balaustra. «Non siamo noi il problema», ammise prima di raggiungere la sporgenza marmorea e scrutare da lì il tessuto di costruzioni di vario genere, edifici fatiscenti e casupole che si stendeva a diversi metri sotto di loro.
Delle fenici dalle piume scarlatte e dorate s’impennavano nel cielo, disegnando una scia simile a quella dei fuochi d’artificio. Alcuni di quei volatili, dopo aver trafitto le nuvole generando rade pioggerelline, ritornavano in picchiata nei villaggi per accendere il fuoco in rudimentali caminetti. Dei pegasi, aggiogati a sbarre metalliche ancorate a basse case di mattoni, innalzavano lamenti che si diffondevano a chilometri di distanza. Piccole imbarcazioni che parevano realizzate al solo scopo della navigazione, in realtà fluttuavano, grazie a piccoli congegni elettronici, in direzione di colossali palazzi che si profilavano a varie leghe di distanza sotto forma di ombre minacciose e dalla geometria alquanto spigolosa.
«Sembra tutto molto tragico, ma non è così male alla fine!», sentenziò Ryan, facendo spallucce al di sotto della leggera giacca nera con diverse zip laterali sulla manica destra. Quando si accorse dell’espressione nostalgica e turbata dipinta sul volto di Steph, cercò però di smussare il valore di quella frase. «Supereremo anche questa, vedrai, e riusciremo a trovare tua madre!», concluse, stringendo forte a sé la biondina e scostando le lunghe ciocche di capelli per baciare teneramente il suo collo; gli occhi verdi e furbetti dell’uno si specchiarono frattanto in quelli cerulei e lacrimosi dell’altra.
Al di là di quella fortezza improvvisata, lo specchio dell’acqua s’increspava e la serenità di quella superficie veniva turbata dall’improvvisa comparsa di esigui gruppi di sirene. Mentre tali creature sfogavano nel proprio canto tutta la frustrazione accumulata per via dell’attenzione loro negata dai marinai, Stephanie lasciò scorrere lungo la base del collo le proprie dita, che si ritrassero di scatto dopo il contatto con il gelido metallo della catenina donatale dalla madre pochi giorni prima che la sua realtà venisse sconvolta.
«Buon compleanno, tesoro mio!», esclamò sua madre chiudendole la catenina intorno al collo. «So che non è il regalo più alla moda che si possa trovare in circolazione…sicuramente le tue amiche avranno ricevuto qualcosa di molto più costoso o prezioso per i loro sedici anni, ma quest’oggetto viene tramandato nella famiglia Middler da generazioni, e ci tenevo che tu lo avessi.», si giustificò la donna mentre le leggere rughe che si facevano largo in mezzo alle guance assumevano un’espressione malinconica. Delle lacrime cominciarono a sgorgarle dagli occhi dopo che ebbe avvicinato a sé il minuscolo manufatto e, tenendolo tra il pollice e l’indice, ne ebbe esaminato i bordi deteriorati dal tempo. «Uh, guarda, è anche rovinato! Mi dispiace veramente, se non vuoi indossarlo non fa niente, cara… Magari non vuoi farti vedere con indosso questo ciarpame da quel tuo ragazzo… Si chiama Ryan, giusto?»
«Mamma, tranquilla.», la bloccò commossa Stephanie avvinghiandole delicatamente i polsi con le proprie mani. «Mi piace. È stupendo! E Ryan, beh, diciamo che ha un gusto insolito per le cose un po’ vintage!», commentò, ridendo, prima di gettare le braccia attorno al collo della madre.
Stephanie ne era certa: sua madre era senz’ombra di dubbio la persona migliore che avesse conosciuto. Grace Middler in Blackwater era sempre apparsa agli occhi di tutti come una donna gentile nei modi, onesta e disposta ad aiutare gli altri anche al costo di sacrificare se stessa in ogni singola occasione. Amava alla follia suo marito e sua figlia, con la quale non aveva esitato a mostrare severità qualora ve ne fosse stato bisogno. Quando la famiglia aveva attraversato un periodo di difficoltà economica, lei era stata la prima a compiere sforzi aggiuntivi e sacrificare persino l’indispensabile. L’aspetto contribuiva a delinearne il carattere angelico: occhi grigi e capelli biondi, quasi perlacei, a causa di un invecchiamento precoce forse dovuto all’affaticamento, fisico esile e a tratti ossuto, l’altezza non tropo rilevante.
«Toc, toc, sveglia dormigliona! Ci sono novità di sotto!»
«Meow!»
Steph smise di giocherellare con l’ovale della catenina, che presentava, al centro di una pittura dorata con decorazioni dall’andamento sinuoso, un frammento di rubino ben incastonato. Era come se l’intero manufatto fosse stato realizzato allo scopo di proteggere quel tesoro. La ragazza aveva trascorso così tanto tempo a fissare quella modesta eredità che si era dimenticata dell’esistenza del mondo attorno a lei. «Arrivo.», rispose con voce assonnata. Era riuscita vagamente a identificare le voci con i sensi parzialmente assopiti. Probabilmente anche le gambe si erano intorpidite perché, saltando con goffaggine giù dal letto, aveva rischiato fortemente di crollare sulle assi del pavimento.
Dopo aver raggiunto con difficoltà la maniglia della porta, Stephanie la tirò indietro permettendo l’accesso ai visitatori. Ryan e Persefone, il gatto che puntualmente Steph si dimenticava di accudire, comparvero sull’uscio leggermente infastiditi.
«Persy!», esclamò la biondina, ignorando le espressioni contrariate e accucciandosi accanto all’animale mentre il pesante giacchetto verde militare disegnava lunghe pieghe dietro di lei. «Sai che qui puoi anche trasformarti, no? Quanto ti manca per terminare le due ore giornaliere sotto forma di micetto domestico?», chiese con i lineamenti del volto contratti ad assumere una buffa fisionomia.
Il gatto controbatté con un miagolio indifferente, ripiegando leggermente l’orecchio destro parzialmente lacerato e alzando la zampa anteriore sinistra causando il leggero tintinnio del campanellino legato al collo. Dopo nemmeno un secondo, Steph fu costretta a retrocedere di qualche decina di centimetri. Al docile animaletto che stava accarezzando si sostituì infatti una gigantesca pantera nera dal manto lucido e nero come il carbone. Essa cominciò a raschiare con gli artigli delle zampe voluminose la superficie lignea sotto di sé, producendo un fastidioso stridore. Gli occhi parevano pietre d’ambra perfettamente intagliati al solo scopo di essere incastonati e custoditi nel muso dell’animale. I candidi denti aguzzi delineavano con la bocca un’espressione che manifestava desiderio di libertà, azione, avventura.
«Le ho terminate proprio ora!», confermò giuliva la bestia, lasciando piovere per la contentezza un quantitativo non indifferente di bava sul pavimento. Ryan si ritrasse allora d’istinto, ancora incapace di accettare che la creatura potesse parlare. «Tuo padre ci aspetta giù! Forza, muoviti!», la incitò Persefone prima di voltarsi e compiere un balzo sul pianerottolo d’ingresso per poi prendere lo slancio lungo le scale.
Stephanie cercò lo sguardo del suo fidanzato, che si era addossato al corrimano arrugginito. I capelli scuri del ragazzo erano arruffati e completamente in disordine. Probabilmente era stato bruscamente risvegliato dal suo consueto riposo pomeridiano. Intercettata l’occhiata di Steffy, si limitò a risponderle con un’alzata di spalle e un cenno in direzione della rampa di assi che si dispiegava sotto di loro.
Una volta che i due giovani ebbero raggiunto la sala in cui si riunivano gli abitanti della fatiscente fortezza, la porta ruotò sui cardini e lasciò intravedere un’adolescente dalla pelle scura e lunghi ricci color miele seduta a gambe incrociate su un vecchio tappeto rosso dalle trame dorate. Intorno a lei, diversi uomini e donne di ogni età dagli abiti consunti avevano preso posto su sedie di vimini mal riassestate.
«Marie, cosa sta…?», chiese Steph, lievemente turbata, oltrepassando l’uscio.
«Vieni qui, Stephanie. C’è qualcosa di cui dobbiamo parlare.», replicò l’altra tenendo gli occhi chiusi e invitando la biondina ad avvicinarsi con il braccio disteso e un gesto eloquente della mano.
Gregorius Blackwater squadrò sua figlia con aria tesa; riconosceva in lei molti tratti di sua moglie, in particolare un’innocenza e una bontà d’animo congenite. Solitamente, il suo problema più grande sarebbe stato quello di vederla in compagnia di Ryan; in quell’istante specifico però aveva preso il sopravvento l’apprensione per la futura rivelazione della giovane strega.
Ad ogni passo che compiva verso il tappeto logoro, la biondina si sentiva una criminale; gli occhi fissi su di lei non aiutavano. Ryan le aveva lasciato intendere di volerla accompagnare, ma lei aveva mostrato con pochi semplici gesti il coraggioso desiderio di affrontare da sola l’ostacolo. Il moretto aveva quindi preso posto a gambe incrociate di fronte alla porta appena chiusasi, sperando che non succedesse niente di brutto alla ragazza che lui, diffidente e recalcitrante rispetto ad ogni forma di legame affettivo, amava più dell’idea stessa di essere vivo.
«Tranquilla, non hai fatto niente di male.», la rassicurò con voce dolce e tranquilla Marie McAllan, abbandonando quanto di ancestrale era stato presente nella sua voce e riaprendo gli occhi. «Ho capito che il vero problema non sei tu. Scusa la pressione, ma dovevo accertarmene.» Dopodiché, con un movimento repentino del giacchetto viola, la strega prese tra le mani l’ovale della catenina di Stephanie. «Chi te l’ha regalato?», chiese con freddezza e una punta d’ira.
«Mia madre...perché?», domandò l’altra stupita, slacciandosi dal collo l’oggetto e riponendolo con cura nel palmo aperto dell’amica.
«Perché ha qualcosa che non va. Vorrei sbagliarmi, ma so che questo succede molto raramente.», sentenziò Marie, prima di far levitare l’accessorio sopra di sé e di scomporlo in parti, articolando suoni primordiali.
La pantera, accucciata in un angolo poco distante della stanza, alzò il capo e puntò con ammirazione gli occhi su quell’incanto, in mezzo al quale si muovevano scintille e sottili fili variopinti che scagliavano i frammenti in ogni direzione, prima che tornassero inesorabilmente a congiungersi.
«Un maleficio.», spiegò Marie con un’indifferenza che si apriva soltanto al ribrezzo. «Devo trovare il punto di sblocco». L’artefatto ricadde con un piccolo tonfo tra le mani della McAllan, che ne esaminò la superficie con meticolosa attenzione. Inizialmente ritenne che fosse la pittura rovinata sul bordo dell’ovale a celare il sortilegio, ma l’ipotesi fu respinta appena le dita ebbero tastato il frammento di rubino incastonato nel mezzo. «Geniale! Anche se francamente mi aspettavo di più!», commentò tamburellandosi il mento con l’indice sinistro, mentre da quello destro si diffondevano scintille scarlatte causa di minuscole crepe nella zona superiore della pietra preziosa.
«Una buona imitazione, quantomeno!», sentenziò quando fu trascorso un minuto di silenzio carico di tensione e la porzione di rubino, spezzata in ogni suo millimetro, si riversò sotto forma di polvere sulle setole assediate dai tarli. Marie sillabò allora in una sorta di sussurro un nuovo incantesimo e la copertura anteriore dell’ovale si disintegrò, rivelando un oggetto vitreo delle dimensioni di una lente che nella sua geometria ineccepibile pareva uno specchio in scala molto ridotta. Con un gesto la strega scagliò contro il muro il resto della catenina; dopodiché allungò il braccio per raccogliere a mezz’aria quel sinistro tesoro.
Stephanie era incredula di fronte a quanto stava accadendo, così come suo padre, che tormentava con le dita alternativamente i baffi e i capelli brizzolati. I peggiori sospetti e timori s’impadronirono dei presenti, ma il panico si manifestò nella sua essenza più pura quando la giovane strega, premendo sulla superficie vitrea, riuscì gradualmente a estenderne i bordi, ricavando da esso un gigantesco specchio. Marie costrinse l’artefatto maledetto a sorvolare il pavimento sino a fermarsi a mezzo metro di distanza dall’ingresso, ordinando nel frattempo a tutti di farsi da parte.
Fu questione di un solo istante: il contorno dell’oggetto iniziò a emanare bagliori argentei, il riflesso lucido s’infranse in un vorticare d’immagini e, sotto gli occhi allibiti di Ryan, una donna munita di pugnale e con indosso un’elegante veste blu notte varcò il passaggio, urlando come in preda a una follia omicida.
Stephanie era avvolta in una pesante giacca nera, una sciarpa dello stesso colore le copriva il collo e fungeva da mezzo per asciugare le lacrime. Il vento ruggiva, spingendo i capelli a nasconderle il volto livido. Di fronte a lei, tra i ciuffi d’erba bagnati, una fredda lapide marmorea le ricordava il caro prezzo pagato e la ammoniva per le sue azioni.
«Non puoi sentirti in colpa, era l’unico modo.», le disse una voce grave nel vano tentativo di consolarla.
«Lo so», commentò lei puntando con rassegnazione gli occhi verso la scritta incisa nella pietra.
Ryan rotolò di scatto verso uno degli angoli della sala; seppur tentasse di nasconderla, la paura era evidente nei suoi occhi. Estrasse la pistola dal fodero che teneva agganciato alla cintura. Caricò l’arma e la puntò alla spalla dell’avversaria, ma si rese presto conto che sparare sarebbe stato inutile. Quella pazza incedeva sicura di sé e le bastava sfiorare i suoi contendenti per spedirli a terra in preda ad una crisi di panico.
Stephanie sentì il sangue raggelarsi nelle sue vene e uno strano nodo allo stomaco. Lasciò intendere a Marie di voler gestire da sola la situazione e la strega si teletrasportò nell’abitato limitrofo per allestirvi una barriera protettiva. Mentre avanzava tra i corpi in preda alle convulsioni, Steph si rimproverò spesso quella decisione, ma ogni volta il pensiero che a provocare quel caos fosse stata sua madre sopprimeva ogni titubanza. «Mamma», disse una volta giunta dietro la donna, nel bel mezzo di un’accesa colluttazione con Ryan, ormai disarmato. «Non so cosa ti sia successo e se questo sia uno scherzo o meno, ma può bastare così.»
Grace si voltò. Non vedeva sua figlia da parecchio tempo, ma non credeva possibile che le appartenessero lo sguardo fermo e la pacatezza con cui erano state pronunciate quelle parole, prive di ogni forma di risentimento. «Tesoro mio! Quanto mi sei mancata! Quindi sei stata tu a rompere il sigillo? Sai già tutto? Sei pronta a venire via con me?», replicò con voce leziosa mentre si accingeva ad abbracciare la ragazza.
«Non so di cosa tu stia parlando.», rispose con freddezza l’altra, scansandosi e scrutando con circospezione le pareti lungo le quali i membri della comunità, suo padre e Persefone compresi, ricadevano pesantemente, tossendo o autoinfliggendosi ferite.
«Come no? Beh, allora dovrò rimediare. Ma prima devo eliminare ogni testimone! È la parte che preferisco, sai?», annunciò Grace ridendo ed indicando con il pugnale Ryan, piegato a terra, confuso e dolorante.
«Non ci pensare nemmeno!», sbottò Stephanie, scagliando dal palmo aperto della mano un getto infuocato che tramutò in cenere l’arma.
«Bravissima, tesoro!», squittì la donna in un applauso. «Sei già in grado di rendere concrete le tue illusioni! Mi rendi così fiera di te!», gioì asciugandosi le lacrime di contentezza con un fazzoletto comparso dal nulla. Poi, notando che sua figlia era caduta in ginocchio, terrorizzata, e stringeva il polso sinistro con la mano destra, spiegò: «Sì, lo so che ti sembra assurdo, ma pensi davvero che sia la prima volta in cui usi i tuoi poteri? Chissà quante volte l’hai fatto senza accorgertene! Sei un’illusionista, Steffy, per discendenza dalla famiglia Middler».
Trascorsero alcuni secondi, durante i quali la tensione fu accresciuta dalle urla di disperazione degli altri presenti nella stanza. Ryan provò a rialzarsi, ma, sotto gli occhi terrorizzati della figlia, Grace lo pugnalò tre volte al petto prima di sfiorargli la fronte con la mano ed invadergli la mente con grottesche visioni nelle quali i cadaveri di coloro che aveva perduto strappavano le sue carni e si divertivano a giocarci mentre le divoravano. Infine il moretto, gettando un’ultima occhiata speranzosa a Steph, si accasciò alla parete.
La donna si avvicinò allora a Stephanie con lo sguardo carico d’ira e l’indice teso: «Non immagini nemmeno il tuo potenziale: saresti in grado di generare un simile caos anche tu, semplicemente stendendo un braccio. Guarda come si dimenano per qualche piccola allucinazione…patetici! Vieni con me!».
«Mai!», sbottò la ragazza, facendo apparire una spada nella sua mano e dirigendola verso il collo della madre.
«Cosa vorresti fare?», rise l’altra, accentuando così l’agghiacciante contrasto tra la tinta intensa del rossetto e il pallore del viso. «Io ho dato tutto per te! Ho nascosto i miei poteri, finto di essere una persona che detestavo, sopportato tuo padre e la gente schifosa che ci circondava solo per poterti stare accanto ed aiutarti a sviluppare il tuo vero potenziale e…ughk!»
La lama affilata raggiunse la carotide, provocando la fuoriuscita di un enorme flusso scarlatto. Dopodiché il metallo scese più in basso, conficcandosi nel cuore.
«Era un mostro. Non meritava di vivere, così come quelli che l’hanno aiutata a far scoppiare la guerra. Non dovrei nemmeno piangerla soltanto per il modo in cui ti ha torturato!»
«Ma non sapeva niente dei miei poteri di autoguarigione. Posso sopportare un po’ di dolore fisico, Steph; le uniche cicatrici vere sono le tue.»
«Ti amo, Ryan.», ammise infine lei lasciando scorrere le braccia all’interno della giacca aperta del ragazzo, dietro la schiena calda, viva. «Spero che almeno tu mi dimostri che non esistono solo false apparenze e che si può veramente essere bu…». Non riuscì a finire la frase e lo baciò tra le lacrime.
«Tranquilla», la rincuorò lui, «Ti ho già detto che niente è tragico come sembra».
Valerio Covaia