GroundGlass

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) Il primo dicembre sveleremo il tema deciso da Flavia Imperi. I partecipanti dovranno scrivere un racconto e postarlo sul forum.
2) Gli autori si leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Il BOSS assegnerà la vittoria.
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Eugene Fitzherbert
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GroundGlass

Messaggio#1 » domenica 20 dicembre 2020, 19:38

GroundGlass
Di Eugene Fitzherbert


Sono scossa da un singhiozzo. Stesa sul pavimento del bagno della scuola, mi rannicchio e stringo i pugni sulle labbra gonfie. Sussulto e il mio corpo mi fa eco con dolori da tutte le parti.
Ci sono andate giù duro, quelle stronze.
Strizzo gli occhi bagnati lacrime.
«E la prossima volta tieni quella bocca lontano da mia sorella, leccavongole!» Luana si piega su di me, mi afferra per i capelli. Ha il respiro affannato per avermi presa a calci fino a farmi vomitare. «Mi fai schifo, invertita.»
Lo sputo mi centra sulla guancia: è caldo, ma l’umiliazione brucia di più.
Mi sbatte la testa sul pavimento.
E ancora.
«Penso che sia abbastanza, Lu.» È Barbara, con il suo cappellino. «Lasciala fottere.»
Luana torna a guardarmi: «Mi hai capito, Yole? Un’altra volta vicino a mia sorella e ti strappo gli occhi. Sei una femmina, deve piacerti il cazzo.»
Fanculo. È quello che vorrei dirle, ma mi esce un rantolo gorgogliante. Metà della faccia è un inferno di dolore e il mio occhio destro è stato ingoiato dalla palpebra gonfia.
Luana e Barbara escono fuori dal bagno. Lo stipite della porta si blocca e fa capolino la testa di Desirèe. Sgrana gli occhi e sghignazza. «Così sei più bella, Yole.» E mi lancia un bacio con la mano.
Stronza.
Mi metto carponi. Un conato di vomito mi scuote. Non ce la faccio più.
Leccavongole.
Invertita.
Troia.
Lesbica.
Non so cosa sono. Non so cosa mi piace. CHI mi piace.
Fanculo.
Zoppico fino al lavandino. Mi sciacquo la faccia: c’è una sola via d’uscita.
GroundGlass.


1.
«Fabio, stiamo per toglierti le bende.»
La voce della dottoressa Karnevitch mi arriva dal vuoto, come tutte le voci che ho udito per i sedici anni della mia vita. Sono seduto sul letto con la schiena dritta e stringo due lembi delle lenzuola.
Le dita della dottoressa si insinuano tra la fasciatura e i capelli corti. Scorrono fino alla nuca e ritornano in avanti. Le bende si tendono e stringono. Con un fruscio, gli strati di garze e ovatta si staccano dalla mia testa.
Ho le palpebre chiuse: il buio si trasforma in un chiarore rossastro, cangiante. Una singola lacrima cade dall’occhio sinistro e mi scivola sulla guancia. Il cuore mi corre nel petto.
Apro gli occhi.
Vedo!
Stacco le mani dal lenzuolo: i dorsi sono solcati da vene e sulle unghie del medio e dell’indice ci sono dei segnetti bianchi. Le ruoto: i palmi sono segnati da rughe, orizzontali e verticali che si incrociano in un disegno magico.
Il letto ha le lenzuola candide, stropicciate. Muovo i piedi e le coperte si arricciano ancora di più. Alla mia destra c’è il comodino: ha uno sportellino verde con la maniglia cromata e un ripiano regolabile, per il cibo, su cui è posata una bottiglia di succo di pesca.
«Allora? Come va?»
La dottoressa Karnevitch ha i capelli scuri, gli occhi verdi cerchiati da un paio di occhiali dalla montatura dorata. Il naso affilato taglia il volto in due metà simmetriche. Le labbra rosse sorridono e i denti sono perfetti.
Tra le dita stringe ancora i resti della garza: il cotone è screziato dal disinfettante e da qualche macchia rossa di sangue.
Mi porto le mani agli occhi: sono… normali. Hanno le palpebre, le ciglia, le sopracciglia. Aggrotto la fronte.
«Gli impianti sono invisibili.» Karnevitch sorride. «Sono tutti interni.»
Palpo le tempie, e sotto la pelle, in profondità, schiaccio i cavi, sottili come spaghetti, che corrono verso le orecchie. Li seguo con le dita fino alla nuca, dove affondano dentro il cranio.
«Abbiamo fatto un lavoro a regola d’arte. Com’è vedere
Mi fissa in attesa della risposta.
Io non ho parole. Come potrei averne? Per la prima volta, il mondo si mostra a me, dopo avermi masticato in un ovattato universo fatto di quattro sensi. Esistono delle parole che possono sintetizzare una rinascita di questo genere? Sono appena nato in un vagito di forme e colori.
«È…» Deglutisco. «È… meraviglioso. La luce. Non pensavo che fosse così…» Chiudo la bocca. «Luminosa.»
Lei mi sorride. «Funziona tutto, allora? Di che colore sono i miei capelli?»
«Neri, credo. Insomma, scuri. Non so scegliere la parola giusta. Per me i colori sono parole, concetti. Però, ecco… Vi vedo e questo è incredibile per me.» Un’altra lacrima scivola lungo il naso. La pulisco con il dorso della mano. «Scusi.»
«Non preoccuparti. Lacrimazione improvvisa, bruciore, senso di tumefazione agli occhi sono sensazioni che avvertirai per tutta la convalescenza. Così come un leggero mal di testa o un senso di vertigine.» Si avvicina e si china all’altezza del mio sguardo. «Segui il mio dito.» Sposta l’indice da destra verso sinistra.
Io tengo lo sguardo fisso sulla punta.
Si rialza. «Bene, non c’è nistagmo, non c’è difetto di accomodazione e convergenza, non c’è laterodeviazione dello sguardo. I tuoi occhi funzionano bene. Domani faremo altri test. Per ora, rilassati e riposati.» Le scarpe della dottoressa ticchettano sul pavimento. Si volta verso di me. «Non lasciare la tua stanza. Non vorrei che ti perdessi, ok?»
Non attende una mia risposta: apre la porta e se la richiude alle spalle.
Getto le coperte di lato e mi metto seduto con le gambe fuori dal letto. I piedi toccano il pavimento freddo. Mi metto in piedi e attendo che la vertigine passi. Mi sorreggo alla testiera del letto e contraggo i muscoli delle gambe per riattivarli.
Mi avvicino alla porta. L’oblò rettangolare mi arriva davanti agli occhi: oltre, c’è un corridoio malamente illuminato da neon freddi. Deserto. Ci sono delle porte a destra e a sinistra, ma sono chiuse e senza insegne. Sono stanze di degenza? Uffici? Bagni?
Poso la mano sulla maniglia…
E mi gira tra le dita.
Stringo la presa e la blocco.
Al di là dell’oblò, il volto di una ragazza mi fissa: ha i capelli corti, che sparano da tutte le parti, la fronte è spaziosa e le sopracciglia sottili sono inarcate in un’espressione di sorpresa. Il naso è piccolo e le labbra sono coperte di rossetto scuro. Ha un piercing al labbro inferiore. Gli occhi sono due gocce di cromo incastonate tra le palpebre strette. Sono opachi e zigrinati, come vetro smerigliato.
Mi ritraggo dall’oblò e non mollo la maniglia.
Dall’altra della porta, la ragazza batte con la mano libera. «Fammi entrare, cazzo! Chi sei? Perché sei qui?» Urla e goccioline di saliva macchiano il vetro. «Non devi essere qui!» Strattona la porta che vibra contro lo stipite.
«Cosa vuoi da me? Chi sei?» Che sia scappata dal reparto psichiatrico?
«Vaffanculo! Non dovresti essere qui! Questo non è il tuo posto. Dannazione!» L’ultima parola è un ringhio rabbioso.
Il volto sparisce dalla vista.
Il corridoio sembra vuoto.
Chi diavolo era?
Apro la porta.

2.
Il corridoio si snoda nel completo silenzio, illuminato dai neon sul soffitto. A metà strada, la ragazza sconosciuta si infila in una porta e se la chiude alle spalle con un clac.
Stringo le mani. Non posso uscire dalla mia stanza, la dottoressa è stata chiara. Se mi sentissi male, nessuno saprebbe sono mi trovo. Potrebbe essere pericoloso.
Però…
Quel volto. Quei capelli. Quel rossetto. E poi le parole che mi ha urlato attraverso il vetro della porta. Non posso lasciare perdere.
Avanzo: mi appoggio al muro, anche se non ho vertigini. Il contatto tra la mano e l’intonaco mi dà sicurezza, una vecchia parte di me che non riesce ancora ad abituarsi alla vista.
La porta dove si è cacciata la ragazza ha una targhetta: ci sono dei segni, delle lettere, credo, ma non so leggere. Ci passo il dito sopra: sono lisce.
Il cuore accelera nel petto. Sbatto le palpebre e stringo i muscoli della mandibola. Apro la porta.
La stanza è grande, con scrivanie e computer. La luce soffusa e azzurrognola emana dalle pareti stesse, dove è appesa una serie di pannelli luminosi. Sui pannelli sono fissati delle lastre in un tripudio di ossa, costole, teschi, bacini. Forse è radiologia.
Sposto una sedia con le rotelle e avanzo tra due file di scrivanie. Non c’è segno della ragazza.
La penombra rende tutto il mobilio spettrale, impasta i particolari che diventano sfuggenti. Ci sono raccoglitori di documenti, armadietti con i cassetti corredati da etichette, stampanti e fasci di fogli compilati.
Un rumore di passi scalzi alle mie spalle mi fa sobbalzare e una spallata mi fa barcollare in avanti. Mi appoggio alla scrivania e mi volto.
La sconosciuta – ma è davvero sconosciuta? – mi fissa con i suoi occhi argentati, che riflettono la luce azzurrognola. «Perché sei venuto qui? Non dovresti esserci. Mi stai rovinando la vita!»
«Io non ti conosco, perché mi stai facendo questo?» Allungo un braccio verso di lei, ma quella si chiude la porta alle spalle.
Mi lancio e afferro la maniglia. Il clangore della chiave che gira nella serratura mi vibra nella mano. Questa volta sono io a battere i pugni sul legno. «Ehi! Fammi uscire! Che significa tutto questo?»
«Non puoi restare qui. Sei la mia rovina!»
Sono singhiozzi quelli che vengono dall’altra parte della porta? «La tua rovina? Ma non ti conosco nemmeno.»
«Fanculo…»
Batto ancora con il pugno.
La luce soffusa della stanza aumenta di intensità e inizia a sfarfallare. Mi volto: le pareti luminose lampeggiano e le lastre appese tremolano come spostate da una corrente d’aria.
Le immagini retroilluminate si gonfiano e perdono il loro aspetto bidimensionale. Sgrano gli occhi: le ossa stanno emergendo dalle lastre, come se si stessero solidificando.
Una dopo l’altra, le radiografie cadono dalle pareti, spinte dal peso stesso delle ossa che contengono. Il rumore è quello secco di bacchette di legno che cadono al suolo: tloc, tloc, tloc.
La luce lampeggia sempre più forte.
A terra, le lastre continuano a solidificarsi, scivolano sul pavimento e si avvicinano l’una all’altra. Si stanno componendo.
«Ehi, ci sei? Fammi uscire, per favore.» Busso più forte sulla porta.
Torno a guardare dietro di me: oh mio dio!
Dietro la scrivania, in piedi, c’è uno scheletro dalle ossa luminose, come se dentro scorresse una luce azzurra evanescente. Il teschio è rivolto verso di me. Alle spalle del primo se ne solleva un secondo e poco più a destra un terzo.
Batto con tutte e due le mani sulla porta. «Dai, cazzo! Apri questa porta!» Mi aggrappo alla maniglia, la ruoto e la strattono. È tutto inutile. «Avanti! Perché fai questo? Chi diavolo sei?»
Una morsa si stringe sulla mia spalla e mi tira indietro. Cado di schiena a terra. Mollo un calcio alla cieca e colpisco una delle gambe. Guadagno un po’ di tempo: mi metto carponi e mi spingo verso la porta. Mani di ossa mi afferrano per il pigiama e mi rimettono giù.
Arriva il primo colpo sulla spalla. Il dolore è lancinante. Urlo, ma la voce è soffocata da un calcio alla pancia. Mi rannicchio e mi copro la testa con le braccia per proteggere gli occhi. Un altro colpo mi raggiunge alle gambe. È come essere picchiati con una mazza della scopa.
Scalcio ancora alla cieca. Colpisco qualcosa con il piede nudo: lo sento bagnato e appiccicoso. Picchio di nuovo e la pianta del piede affonda in qualcosa di spugnoso.
Mi arriva un colpo sulla spalla, ma è più morbido e mi lascia umido, come se mi avessero lanciato uno straccio intriso di acqua.
Mi hanno ferito?
Apro gli occhi: sulle ossa luminose serpeggiano e guizzano brani di carne sanguinolenta, che si contraggono a ogni movimento. I mostri guadagnano muscoli e sprizzano sangue, i tessuti si creano dal nulla intorno alle articolazioni. Ogni colpo che mi raggiunge alza schizzi rossi per la stanza. Li sento in faccia e sono freddi, morti.
Un calcio sulla schiena mi fa inarcare per il dolore. Stringo i denti e grugnisco. Uno degli scheletri si piega e mi afferra per i capelli.
No, no!
Mi sbatte la testa a terra. Il dolore alla guancia esplode.
I miei occhi! Mi aggrappo al braccio e lo stringo. I calci mi colpiscono ai reni, alle gambe, ma gli occhi sono più importanti. «Lasciami andare.» Stringo le dita e i muscoli carnosi si strizzano come stracci bagnati di acqua fredda.
Il mostro mi scuote la testa ma non mollo la presa. Brani di muscoli mi scivolano tra le nocche e mi coprono la mano.
Mi sta incorporando!
Sfilo la mano ma resta incastrata nella carne. Con uno strappo riesco a liberare una mano. Schiaffeggio il mostro e lo scalcio. Gli altri due continuano a pestarmi.
«Ehi! Aiutami!» Mi sbraccio per parare un altro pugno e mi spingo con i talloni per sfuggire alla gragnuola di colpi. Scivolo sul sangue raccolto a terra. Non so se sia mio o delle cose intorno a me, ma non mi interessa.
Una morsa mi stringe la gamba. Ritraggo il piede e lo sfilo dalle mani di una ragazza. Anche gli altri due mostri hanno preso le sembianze di ragazze.
«Leccavongole!» Quella che mi aveva preso per i capelli si china su di me ancora. «Deve piacerti il cazzo!»
Un calcio nella pancia mi toglie il respiro.
Mi metto carponi e gattono verso la porta. Raggiungo la maniglia e mi aggrappo con tutto il mio peso. Mi tiro su. «Ehi tu! Sei là fuori? Apri questa porta!»
La ragazza che mi ha parlato mi schiaccia contro il battente. «Questa volta ti faccio fuori, invertita!» Mi sussurra nell’orecchio. Il suo mento è poggiato sulla mia spalla e mi guarda con i suoi occhi luminosi come le ossa.
«Ammazzala, Lu.» È l’altra a parlare. Anche lei ha gli occhi azzurrognoli
Lu mi prende per i capelli e allontana la mia faccia dalla porta.
Ansimo e oppongo resistenza, ma è inutile. Chiudo gli occhi pronto ad attutire il colpo.
Un clac risuona lungo tutto il telaio della porta, che si apre. Una mano emerge dallo spiraglio, poi un braccio. Mi aggrappo a quell’arto, lo stringo e vengo strattonato lontano dalla morsa di Lu. Esco fuori dalla stanza e cado a terra nel corridoio.
La ragazza con gli occhi a specchio richiude la porta e gira la chiave.
Mi metto seduto. Ho il fiato corto e il cuore che mi martella nel petto. «Chi sei?» Ansimo. «Cos’erano quelle cose e cosa volevano da me?»
L’altra non mi risponde. Si volta e se ne va.
«Ehi!» Mi metto in piedi. «Dove vai?»
«Seguimi.» Ed entra in un’altra stanza.
«Proprio per niente. Tre mostri hanno appena cercato di uccidermi, con questo giochino.»
I suoi occhi a specchio compaiono oltre lo stipite. «Qui non ti accadrà nulla. Se vuoi una risposta, vieni.»
Mi mordo il labbro e stringo i pugni. Mi vuole fregare, ma è anche l’unica che può farmi capire cosa diavolo sta accadendo. Anche se è la prima ragazza che vedo in assoluto, c’è qualcosa che mi attrae.
Con un sospiro varco la porta.

3.
La ragazza è seduta su un secchio rovesciato, tra gli scaffali pieni di prodotti per le pulizie. Ha i gomiti appoggiati alle ginocchia allargate e la testa penzoloni tra le spalle. «Perché?» Alza gli occhi su di me. «Speravo di riuscire a farla finita…»
Non varco la soglia. «Chi sei e che vuoi da me?»
«Pensavo dovesse essere più facile.» Alza lo sguardo. È pallida e il piercing al labbro ha lo stesso colore degli occhi. «Mi chiamo Yole.»
«Yole?» Un nome che mi risuona. «Questo non spiega perché mi hai rinchiuso in quella stanza con le luci.»
«Sala di refertazione.» Si strofina il naso. «Era un tentativo per fare il lavoro senza sporcarmi le mani. Ma non funziona così. Non so perché ma era come se non potessi lasciarti lì dentro. Ho dovuto salvarti, anche se non so il tuo nome.»
«Mi chiamo Fabio, e ti ricordo che mi hai chiuso in quell’inferno, prima di salvarmi…»
«Sono confusa anch’io.» Si alza. «Sono qui per un motivo ben preciso, ma continuo a chiedermi: come sei arrivato qui? Perché siamo vicini? Che senso ha tutto ciò?»
Mi appoggio allo stipite della porta. «Io sono qui perché sono stato operato: ero cieco.»
«E prima?» Il sorrisetto sbilenco sulla bocca è odioso.
«Prima ero…» Chiudo la bocca. Sbatto le palpebre. E prima?
«Ecco. Questo è il punto. Tu inizi qui. Ora.» Fa un passo verso di me. Allunga la mano e la posa sulla mia spalla. «Solo che non mi capisco…» Scuote la testa. «…perché non riesca a ucciderti!»
Mi prende per un braccio e mi scaraventa per terra sulla schiena. Con un balzo si mette a cavalcioni sul petto e mi blocca le braccia con le ginocchia. Ansimo sotto il peso del suo corpo.
Yole ha le sopracciglia aggrottate e le labbra piegate verso il basso. Il naso è incastonato tra due rughe profonde che arrivano quasi al mento.
«Devo farlo io con le mia mani, ormai è chiaro.» Mi cinge il collo con le dita. I pollici premono sulla trachea.
«No, aspetta. Perché devi uccidermi? Che ti ho fatto?»
«Perché tu non c’entri niente con me! Da quando esisti non fai altro che incasinarmi la vita!» Gli occhi si ingrandiscono, due pozze di mercurio si allargano sulla faccia e cancellano le guance, le sopracciglia sottili, fino ad arrivare sulla fronte, verso l’attaccatura dei capelli corti che sparano da tutte le parti.
Si piega su di me. Io tossisco. In quegli occhi cromati per la prima volta vedo me stesso: l’espressione sofferente, il colorito violaceo, ma anche le labbra strette, le sopracciglia sottili e i capelli che sparano da tutte le parti. «Oh mio dio… Noi… Siamo… Uguali.»
Gli occhi di Yole, enormi, si estroflettono, colano fuori come due stalattiti di metallo fuso. Tremolano verso la mia faccia.
«Siamo uguali! Perché devi uccidermi?» Gracchio queste parole con gli ultimi ansiti che riesco a inalare.
Gli occhi di Yole toccano i miei.

Sono seduta alla scrivania, la mia cameretta è illuminata solo dal chiarore spettrale dello schermo del computer.
Il browser è puntato sul forum del GroundGlass, in uno dei meandri della BlackNet. “Prendete due pillole e mettetevi a letto. Fatevi il viaggio della vita.”, scrive l’utente Krx56. “Vi risveglierete come nuovi e i vostri problemi saranno risolti.”
“Dite addio ai vostri dubbi, alle incertezze e alle vostre paure. Finalmente potrete essere voi stessi. Non è una passeggiata, ma FUNZIONA!” SteveArgh è entusiasta.
Il resto dei commenti è sullo stesso tono. Due pillole di GroundGlass, un trip e la guarigione.
Appoggio la testa sulle braccia conserte. Nel buio caldo ritornano il pestaggio, Luana e le sue amiche. Mi viene da piangere. Non posso continuare così, tra insulti, botte, e scherzi. Ma non posso continuare a stare al mondo senza sapere da che parte stare. È vero ho baciato la sorella di Luana, ma lei me l’aveva chiesto e non mi sembrava una brutta idea.
Sono una ragazza? Non lo so. Forse no. Porto i capelli corti, anche se non significa niente. Mi sento maschio, e mi porto dietro questi cromosomi come un’opinione che non posso cambiare. A volte vomito per la tensione, cerco una via d’uscita che non appare da nessuna parte.
Apro il cassetto e tiro fuori una scatolina grigia. Dentro ci sono due capsule blu. Le faccio scivolare da una parte all’altra.
Mi mordicchio il piercing.
“Il GroundGlass non mente. Una volta dentro la propria testa non c’è via di scampo: si ritrova se stessi e si riesce rinati!” E perché mai non dovrei credere a UhuruPax?
Mi stendo a letto e poso la scatolina sul petto, in mezzo a quell’accenno di tette che neanche si vedono.
E sia!
Ribalto la scatolina sulle labbra e lascio cadere le pillole in bocca. Le deglutisco con un bolo di saliva acida.
Aspetto a occhi chiusi.
Il buio è l’ultimo pensiero che mi attraversa la testa. Mi sembra di essere cieca.
Sprofondo nel sonno, dentro di me. Alla ricerca di me.

5.
Spalanco gli occhi e mi metto a sedere. Ansimo.
Uno dei trip più tremendi della mia vita.
Siamo uguali! Perché devi uccidermi?
Le parole mi vorticano in testa.
Metto i piedi fuori dal letto. La stanza è buia: non so neanche quanto tempo sono stato fuori. Mi prendo la testa tra le mani. Dovrei sentirmi diverso, ma il mio corpo è quello di sempre. Mi passo le mani tra i capelli corti, mi strofino le braccia e mi friziono le gambe.
Tutto come prima.
Una cosa è certa: sono stanchissimo e incazzato per quello che hanno detto sui forum. Dannata BlackNet. Sono lo stesso di prima.
Mi blocco.
Ritorno sui miei pensieri.
Sono stanco. Sono lo stesso di prima.
Cristo.
Chi sono?
Siamo uguali. Perché devi uccidermi?
Dopo quella frase, i nostri occhi si sono incontrati, si sono toccati.
Si sono fusi!
Corro in bagno. Mi appoggio al lavandino e avvicino la faccia allo specchio: non c’è niente di nuovo. «Chi sei?» Chiedo al mio riflesso.
«Fabyole,» mi risponde.
Sorrido.
GroundGlass. Ha funzionato. Ha risolto il mio problema. Dannato BlackNet! Hanno sempre ragione!
Ultima modifica di Eugene Fitzherbert il domenica 20 dicembre 2020, 21:39, modificato 2 volte in totale.



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Re: GroundGlass

Messaggio#2 » domenica 20 dicembre 2020, 19:42

Dedicato a tutt* quell* adolescenti che cercano disperatamente il loro posto nel mondo.

I bonus ci sono tutti:

Young Adult Il/la protagonista è una sedicenne.
Sense of Wonder: Ci sono due momenti di sense of wonder: il primo quando tolgono le bende a Fabio e il secondo nel finale rivelatore.
Specchio: gli occhi a specchio e lo specchio finale sono cruciali per lo svolgimento della storia.
Flashback: il primo capitolo in corsivo e il penultimo sono flashback, perché descrivono le azioni che hanno portato alle vicende di Fabio.

Enjoy.
Per motivi di spazio, as usual, ho sacrificato gran parte delle idee e ho dovuto semplificare tantissimo la trama, per ridurla ai minimi termini. Mi aspetto un commento articolato a questa specificazione che deve contenere almeno una volta STI CAZZI, in maiuscolo. Grazie per la collaborazione.

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Re: GroundGlass

Messaggio#3 » lunedì 21 dicembre 2020, 22:23

A TUTTI I PARTECIPANTI:
Se volete che La Sfida diventi qualcosa di più di un esercizio di scrittura sta a voi impegnarvi. Anche nella fase dei commenti cercate di superare i vostri limiti. Fate critiche costruttive, cercate le lacune dei racconti che dovete leggere e non fatevi problemi nell’esprimere il vostro pensiero in maniera onesta.
La perfezione non passa da queste parti ma insieme potete aiutarvi a migliorare.
Ultima nota, affinché la comunità cresca, se non l’avete fatto vi consiglio di iscrivervi al gruppo Facebook de La Sfida a…
https://www.facebook.com/groups/215238252346692

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Re: GroundGlass

Messaggio#4 » sabato 26 dicembre 2020, 22:30

Il tuo racconto non è per niente facile da commentare, Eugene. Parto dagli aspetti più prettamente tecnici. Opera una leggera revisione. Ti riporto di seguito alcuni casi di passaggi che dovresti ricontrollare: "Strizzo gli occhi bagnati lacrime."; "Dall’altra della porta"; " sono mi trovo "; "emana dalle pareti stesse". Per il resto, lo stile è abbastanza scorrevole, anche se avrei preferito che non ci fosse la netta divisione delle sequenze consecutive che hanno come ambientazione la clinica. Ci sono poi nel testo molti spunti interessanti ed un'originale interpretazione della tematica del bullismo. Devo ammettere però che non è facile seguire tutti i passaggi, forse anche a causa della riduzione delle idee messe in campo a cui accennavi nella postilla. Se puoi, mi piacerebbe, avere qualche delucidazione in più sulla risoluzione finale. Confermo la presenza di tutti i bonus e l'aderenza al tema. Complimenti!

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Giovanni Attanasio
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Re: GroundGlass

Messaggio#5 » mercoledì 30 dicembre 2020, 14:17

Ciao!

L'incipit è molto bello e molto forte, casca proprio su un genere e una tematica che adoro.
La mia interpretazione della trama è che questo tizio vuole scoprire se stesso e lotta/dialoga col proprio lato femminile. Giusto? La droga è il mezzo attraverso cui realizzare questo processo di scoperta di sè. Corretto? Suppongo che il personaggio di partenza sia Fabio, e Yole sia la visione della droga con cui poi lui si è fuso per accettare il proprio lato femminile.
Forse la trama meritava più spazio che avresti potuto recuperare riducendo di molto la sequenza dello scontro contro gli schelezombimostri ma, in fin dei conti, STI CAZZI.
Una piccola nota legata alle descrizioni, soprattutto dei personaggi: potresti provare a distribuire le descrizioni nel testo, anziché incastrarle in un solo paragrafetto. Fai qualche tentativo e vedi se rende bene.
ps: mi aspettavo la megatrama con la ragazza lesbica bullizzata fortissimo e la redenzione finale. Sarà per la prossima volta. :P

Alla prossima lettura, ciao!
"Scrivo quello che voglio e come voglio. Fatevelo piacere."

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Re: GroundGlass

Messaggio#6 » mercoledì 30 dicembre 2020, 18:26

Grazie a Giovanni e Red Robin per i commenti e i suggerimenti.

Purtroppo è evidente che qualcosa non è passato dalla mia narrazione. Quindi per rispondere a tutti e due contemporaneamente, la sequenza degli eventi è questa:
YOLE (nella realtà narrativa) è bullizzata per essere non ancora convinta della sua sessualità. Prende una droga, il groundglass che dovrebbe aiutarla a sbarazzarsi del PROBLEMA. Lei crede che si sbarazzerà della sua metà 'maschile' che l'ha spinta a baciare la sua amica, ma la soluzione è che lei ABBRACCIA questa realtà, tanto che quando si riprende dal trip usa una serie di aggettivi al maschile nonostante la sua immagine sia ancora quella di sempre. LEI e FABIO si sono uniti in un'unica entità.

Detto così è pure facile, ma quel cazzo di Flashback nella cameretta di YOLE, che è diventato la chiave di lettura dell'intero racconto, mi ha dato un sacco di problemi di comprensibilità.

[BTW, la mia vecchia idea, che forse svilupperò in un secondo momento, era quella di fare innamorare Fabio e la ragazza con gli occhi a specchio, per arrivare al finale in cui capiscono di essere la stessa persona. Purtroppo non sono riuscito a ficcarci tutto in un racconto di 20000 caratteri. Mi sono accontentato di incasinare tutto, riducendo la storia a una scena e un colpo di scena. Shame on me.]

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Re: GroundGlass

Messaggio#7 » mercoledì 30 dicembre 2020, 20:16

Eugene Fitzherbert ha scritto:Grazie a Giovanni e Red Robin per i commenti e i suggerimenti.

Purtroppo è evidente che qualcosa non è passato dalla mia narrazione. Quindi per rispondere a tutti e due contemporaneamente, la sequenza degli eventi è questa:
YOLE (nella realtà narrativa) è bullizzata per essere non ancora convinta della sua sessualità. Prende una droga, il groundglass che dovrebbe aiutarla a sbarazzarsi del PROBLEMA. Lei crede che si sbarazzerà della sua metà 'maschile' che l'ha spinta a baciare la sua amica, ma la soluzione è che lei ABBRACCIA questa realtà, tanto che quando si riprende dal trip usa una serie di aggettivi al maschile nonostante la sua immagine sia ancora quella di sempre. LEI e FABIO si sono uniti in un'unica entità.

Detto così è pure facile, ma quel cazzo di Flashback nella cameretta di YOLE, che è diventato la chiave di lettura dell'intero racconto, mi ha dato un sacco di problemi di comprensibilità.

[BTW, la mia vecchia idea, che forse svilupperò in un secondo momento, era quella di fare innamorare Fabio e la ragazza con gli occhi a specchio, per arrivare al finale in cui capiscono di essere la stessa persona. Purtroppo non sono riuscito a ficcarci tutto in un racconto di 20000 caratteri. Mi sono accontentato di incasinare tutto, riducendo la storia a una scena e un colpo di scena. Shame on me.]


Vabbè, c'ero quasi, o no? Avevo solo capito il contrario xD Per quanto riguarda il flashback, I feel you bro: mi sono sparato nei piedi, tutti e due.
"Scrivo quello che voglio e come voglio. Fatevelo piacere."

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Re: GroundGlass

Messaggio#8 » martedì 5 gennaio 2021, 15:30

Ciao Eugene.
Devo dirlo: il tuo racconto mi è piaciuto. Sì, ha qualche incertezza nel finale (ci tornerò) ma a livello generale si pone su ottime basi sostenute da uno stile pulito e con poche sbavature, e comunque nulla che non si possa risolvere in fase di seconda stesura.
Ammetto che all’inizio l’eccesso d’informazioni descrittive mi ha lasciato un attimo perplesso, ma appena compreso che il tutto derivava dalla precedente cecità di Fabio (btw, metafora ben integrata con il senso del racconto), ho trovato la soluzione stilistica da te adottata davvero ottima. Unico dubbio riguarda i colori: come tu stesso scrivi, per Fabio i colori sono concetti, eppure all’inizio li identifica senza problemi. Premesso che sarebbe interessante un racconto dove tutte le informazioni visive vengono “tradotte” da un neovedente, qui sarebbe forse bastata una frase iniziale tale da far capire la non piena affidabilità del personaggio narratore riguardo i colori da lui percepiti.

Un rumore di passi scalzi alle mie spalle mi fa sobbalzare e una spallata mi fa barcollare in avanti. Mi appoggio alla scrivania e mi volto.

Ecco, questo è l’unico passaggio che proprio non mi è piaciuto dell’intero racconto. Quella quadrupla ripetizione di “mi” (e doppia del “mi fa”) accompagnata dalla semi ripetizione di spalle/spallata provoca una sonorità e una pesantezza nella costruzione che a mio avviso andrebbero corrette. Butto giù una possibile proposta (tieni presente che il mio è solo un esempio basato sul mio modo di scrivere, non sto dicendo che il passaggio andrebbe riscritto così):

Un rumore di passi scalzi mi sorprende alle spalle. Non faccio in tempo a girarmi che qualcosa mi colpisce. Barcollo in avanti e afferro il bordo della scrivania per non cadere. Mi volto.


La sconosciuta – ma è davvero sconosciuta? – mi fissa con i suoi occhi argentati

Quel “ma è davvero una sconosciuta”, oltretutto piazzato all’interno di un inciso, grida INDIIIIIZIO lontano un miglio. Io lo eliminerei senza problemi, soprattutto considerando che ci troviamo a metà circa del racconto, un po’ troppo presto per esporti con così largo anticipo (e lo dice uno che ha fatto un errore simile nel suo racconto).

Mi volto: le pareti luminose lampeggiano e le lastre appese tremolano come spostate da una corrente d’aria.
Le immagini retroilluminate si gonfiano e perdono il loro aspetto bidimensionale. Sgrano gli occhi: le ossa stanno emergendo dalle lastre, come se si stessero solidificando.
Una dopo l’altra, le radiografie cadono dalle pareti, spinte dal peso stesso delle ossa che contengono.

L’ho scritto anche riferito ad altri racconti: purtroppo non appena leggo un “come” i miei sensi di ragno saltano sull’attenti. Prendiamo i due che compaiono nelle righe sopra citate. Il primo (come spostate da una corrente d’aria) è perfetto, in quanto il personaggio-narratore sta facendo una congettura su qualcosa che non vede. Il secondo invece (le ossa stanno emergendo dalle lastre, come se si stessero solidificando) un po’ meno, in quanto la loro "solidità" è già espressa in maniera esplicita nella frase successiva. Inoltre tu stesso scrivi poche righe più avanti che le ossa si stanno davvero solidificando (a terra, le lastre continuano a solidificarsi). Personalmente farei finire la frase con “le ossa stanno emergendo dalle lastre”, in quanto l’immagine è già chiarissima così senza bisogno d’ulteriori informazioni.

È come essere picchiati con una mazza della scopa.

Visto che non stiamo parlando di una scopa in particolare, ma di una scopa teorica, credo sarebbe più corretto scrivere “È come essere picchiati con il manico di una scopa”.

E arriviamo alla conclusione. Fin qui, a parte le magagne minori di cui sopra (che, sia chiaro, non inficiano più di tanto sulla qualità generale e che, anzi, ti ho segnalato proprio nella speranza che tu possa passare il turno e rivedere il testo), il brano risulta molto ben strutturato. Questo almeno fino alla scena in corsivo. Ho letto che tu stesso non ne sei soddisfatto, e fai bene a non esserlo. Il mio consiglio? Eliminala, limitandoti a fondere le informazioni principali (quelle legate allo schermo del computer) al paragrafo finale. Se la tua paura è di non far così comprendere il finale, la mia risposta è semplice: STI CAZZI. Fidati: il finale è comprendibilissimo anche senza quella scena. Anzi, ne verrebbe rafforzato.
A tal proposito, un’ultima nota. Fossi in te eliminerei anche l’ultima riga (GroundGlass. Ha funzionato. Ha risolto il mio problema. Dannato BlackNet! Hanno sempre ragione!). Il fulcro del tuo racconto è infatti racchiuso nell’epifania finale, con Yole che si fonde a Fabio e da vita a Fabyole. Non hai bisogno d’altro. Concedimi l’immagine: quella tua riga finale è come se alla fine di un film drammatico comparisse Porky Pig che grida “That’s all folks!”.
Detto questo, ancora complimenti per essere riuscito a dar vita a un brano capace di raccontare la difficoltà nel prendere coscienza della propria identità tipica dell’adolescenza. Spero vivamente di rivedere il tuo brano ben limato nella seconda fase. A presto.
lupus in fabula

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Stefano.Moretto
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Re: GroundGlass

Messaggio#9 » martedì 5 gennaio 2021, 19:13

Ciao Eugene
Allora. Qui c'è tanto potenziale, veramente tanto. La storia nel complesso è bella, ha un buon tema centrale e sai generare conflitto ed empatia nel personaggio. L'evoluzione psicologica poi è stata gestita veramente bene, nel complesso non mi è dispiaciuto affatto leggerlo.
MA.
Ecco, purtroppo ci sono dei grossi "ma" che te lo vanno a rovinare. Partiamo subito con la parte maschile del(la) protagonista:
«Neri, credo. Insomma, scuri. Non so scegliere la parola giusta. Per me i colori sono parole, concetti. Però, ecco… Vi vedo e questo è incredibile per me.»

Il discorso dei colori è molto problematico. Stando al racconto è la prima volta che lui possiede la vista, ma descrive tutto ciò che vede senza nessun problema, persino i colori che non può sapere cosa siano. Ad esempio, sa che il sangue è rosso, okay, ma per lui è un'etichetta senza valore. La garza ha una macchia che potrebbe benissimo essere blu per il disinfettante per quanto ne sa, come fa a sapere che quel colore è il rosso del sangue? Anche avendone l'intuizione non può essere un'informazione così automatica, avrebbe richiesto quantomeno un po' di incertezza. Stesso discorso per i capelli neri: sa che il nero è il colore più "buio" e quindi può andare a intuito, ma qui si lancia nella risposta senza neanche ragionarci, come se fosse naturale.
Il colore verde dello sportello poi non poteva indovinarlo neanche a intuito; stesso discorso per la bottiglia di succo di pesca: come fa a sapere che è succo di pesca se non sa leggere (come dice dopo, giustamente) e se non ha idea di come sia fatta una pesca se non al tatto? Con la foto del frutto poteva arrivarci, ma non così istantaneo. Un senso nuovo appena acquisito ti rilascia una quantità immensa di informazioni nuove che devi interpretare da zero, è come se tu avessi appena iniziato a studiare la termodinamica dei fluidi e ti mettessero davanti a un video di un corso universitario magistrale in cui si vedono fluidi che reagiscono tra loro. Puoi intuire qualcosa a grandi linee (es: la descrizione delle linee sulle mani è buona), ma è impossibile che tu guardi il video e capisci tutto alla prima: non ne hai le competenze.
Questo discorso vale anche per tutto il pezzo dopo: riconosce un sacco di cose a una prima occhiata, tipo le ossa umane. Come può sapere cos'è una costola se non l'ha mai vista e soprattutto di sicuro non ne ha mai presa una in mano?
Più che un ragazzo che vede per la prima volta l'impressione che ho avuto è stata quella di un ragazzo che una volta ci vedeva, ma che ha perso la vista per un po' di tempo (forse anni?) e che l'ha appena riacquistata.
Peccato perché dando quel senso in più di "meraviglia" avresti avuto un ottimo effetto. Ti faccio un esempio (lo scrivo un po' così come viene viene, giusto per rendere l'idea, non pretende di essere la cosa più bella mai scritta): "c'è una bottiglia con sopra una foto. Dalla forma sembra uno dei frutti che di solito riconosco al tatto, un po' tozzo, a forma sferica col nocciolo grande... ah, è una pesca!"
Oppure, dato che la sua riacquisizione della vista non è un fattore rilevante, avresti potuto renderti la vita molto molto più facile togliendo proprio tutto questo. Potevi trovare un altro motivo per farlo stare in ospedale (ad esempio: si era appena svegliato da un coma?) oppure ambientavi il tutto in un altro posto. L'impressione che ho avuto è che tu abbia voluto rafforzare l'effetto emotivo di meraviglia del "tutto nuovo" senza però saper sfruttare bene l'idea, il che è un gran peccato.
Un altro problema di comprensione: quando vede per la prima volta la ragazza dice che i suoi occhi sono gocce di cromo. Io qui non sono riuscito a capire subito che si trattava di specchi sempre per lo stesso motivo: è la prima volta che il ragazzo ci vede, come devo "filtrare" queste informazioni? Nel senso che le iridi sono grigie? Che la sclera è di un colore strano? E come fa il ragazzo a sapere cos'è il cromo, e soprattutto il suo colore? Qui non c'è proprio nessuna scusa, lui non può fisicamente avere idea di che colore sia il cromo, figurarsi usarlo come metro di paragone.
L'obiezione può essere "sì ma in realtà lui è lei e quindi inconsciamente sa i colori e—" no: è tutto vero, ma il lettore non lo sa quindi non può essere una motivazione valida. Le informazioni che vengono date al lettore non possono giustificare informazioni date prima che hanno causato un distacco dall'immersione.

Nel complesso: la trama che avevi in testa, secondo me, è molto bella e apprezzabile. Tratti un tema delicato in modo non banale (a mio avviso) e seppure lo "sdoppiamento" di personalità verso metà inizia a diventare un po' troppo citofonato il racconto mi è piaciuto. Purtroppo viene molto penalizzato dal modo in cui hai voluto introdurre Fabio: l'idea alla base ci stava ed era valida, ma non hai saputo sfruttarla fino in fondo.

Per motivi di spazio, as usual, ho sacrificato gran parte delle idee e ho dovuto semplificare tantissimo la trama, per ridurla ai minimi termini. Mi aspetto un commento articolato a questa specificazione che deve contenere almeno una volta STI CAZZI, in maiuscolo. Grazie per la collaborazione.

Parlo sinceramente: questo racconto è stato forse l'unico del tuo girone che mi ha dato esattamente l'impressione opposta, ovvero 20k caratteri erano lo spazio esatto in cui andava collocato, né più né meno. Solitamente si sente sempre la mancanza di qualcosa, oppure ci sono elementi di worldbuilding che vengono lasciati in sospeso per cui il lettore vorrebbe qualcosa di più ampio per avere più informazioni. Qui non ho avvertito questo bisogno, quindi qualsiasi cosa tu abbia tagliato o era già superflua oppure sei riuscito a recidere ogni riferimento a essa in modo da non farmene avvertire il bisogno. In ogni caso hai fatto un ottimo lavoro di taglia e cuci, tanto che durante la lettura non me ne sono accorto e senza il tuo commento avrei pensato che avevi strutturato la storia pensandola esattamente così. Il fatto che tu sia riuscito a darmi questo effetto è a mio parere un grosso punto a favore.

p.s.: sono dello stesso parere di Red Robin riguardo la divisione delle scene: il fatto che tu abbia diviso con dei numeri delle sequenze che in realtà non hanno stacco temporale mi ha confuso.

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Artemis Entreri
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Re: GroundGlass

Messaggio#10 » sabato 9 gennaio 2021, 19:52

Ciao, piacere di leggerti.
Nel complesso il racconto mi è piaciuto davvero molto, anche se da un certo punto in poi sembra scritto con minore attenzione.
La prima scena è molto d'impatto, ben pensata e strutturata. Il cambio di scena, però, ci presenta un nuovo protagonista che ci viene detto essere privo della vista dalla nascita. Come può fare a prima vista a collegare così nomi e oggetti, a sapere che un piercing è di fatto un piercing solo vedendolo, se prima di quel momento era cieco? Come può fare paragoni fra oggetti che non ha mai visto prima e nemmeno sono presenti in quel momento?
Nel finale si scopre che ciò cui abbiamo assistito è stato solo un viaggio mentale e questo giustifica il saper collocare colori e oggetti, è vero. Tuttavia per il protagonista in quel momento era la realtà, visto che la viveva in modo lucido e non era cosciente di stare allucinando. Avrebbe dovuto porsi la domanda sul come mai fosse in grado di distinguere, da cosa gli derivassero quelle informazioni, almeno una volta.
Al di là di questo, belle descrizioni e sequenze molto evocative. Azzeccato anche il finale, con le due facce della protagonista che si fondono. Peccato che più o meno dal momento in cui Fabio incontra 'la pazza' i dialoghi siano diventati poco spontanei e mal costruiti. Per molti di essi ci si aspetta che esprimano enfasi, invece vengono chiusi dal punto fermo, contraddicendo l'evidente panico/sorpresa di chi li pronuncia.
Ottima aderenza al tema e presenza dei bonus.

Ti segnalo qualche frase che - secondo la mia sensibilità - andrebbe rivista e qualche typo, sperando di essere d'aiuto (sono pigra e non uso l'HTML per citare, abbi pazienza).
Per prima cosa, i puntini di sospensione messi all'inizio di una frase vanno staccati dalla parola che precedono.
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Mauro Lenzi
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Re: GroundGlass

Messaggio#11 » lunedì 11 gennaio 2021, 0:01

Ciao Eugene, eccomi che arrivo bello come il sole. Ti mancava il mio giudizio, eh?

A livello tecnico il mio giudizio complessivo è positivo; quel poco che avrei potuto suggerirti è già stato detto, inclusa quella frase coi “mi fa”; ma se può servirti come feedback, anche io ho notato i dettagli troppo definiti per uno che vede per la prima volta. Nell’esposizione è stato quanto strideva di più, ai miei occhi.

Ho trovato coinvolgenti le scene iniziali di Yole e Fabio; per quanto mi riguarda il sense of wonder l’avevi già reso con la visione di un non vedente che vede per la prima volta. Poi incontra Yole, le storie hanno iniziato a convergere… ma dall’inseguimento in poi ho iniziato a essere meno convinto e coinvolto. In primis per quelle descrizioni visive, in più ho trovato troppo lunga la parte del “ma chi è questa?”. Il senso di confusione - comprensibile - di Fabio si è esteso troppo senza darmi altri tasselli, confondendo anche me.
Nella parte delle radiografie che diventano scheletri e poi le tre bulle non sapevo proprio cosa pensare, ma ho apprezzato come le due storie iniziavano a ricongiungersi anche negli elementi che andavano oltre la compresenza dei due personaggi. Per quanto sia possibile dare una spiegazione, per i miei gusti Fabio è stato troppo passivo e l’intervento di Yole da deus ex machina.
Nel loro dialogo mi aspettavo finalmente di ritrovare un senso, eppure ho trovato irritante come lei continuasse a girare attorno all’argomento senza arrivare al dunque… in parte perché rifletteva tra sé, in parte perché era confusa anche lei. Alla fine prova a ucciderlo e i due sembrano fondersi fisicamente.
Suggestivo ma la mia sospensione di incredulità è stata minata dalla mia incapacità di connettere i vari elementi. Dico così perché a leggere i commenti degli altri sembra che per loro sia tutto chiaro. Io anche a successive riletture faccio fatica a capire tutto e sarà un limite mio.
Poi alla fine lei ha questo dialogo con se stessa. Bello come inizi a rivolgersi a sé al maschile senza rendersene conto. Però, questo mi ha dato la chiave per capire cosa era successo prima? Diciamo che non l’ho trovata. Mi sono detto che la storia è stata un trip, un’allucinazione in cui lei senza rendersene conto è in un suo altro sé, e che incontra il vecchio sé che vuole ucciderlo, e i due si fondono assieme nel sogno, e poi anche nella realtà.
Però ho avuto bisogno delle spiegazioni successive per arrivarci, e anche così ho trovato l’idea di fondo suggestiva, ma il suo sviluppo non mi ha coinvolto né come logica né emotivamente (non che mi abbia lasciato freddo, ma come ti dicevo la parta di confusione si è protratta troppo). Forse è riduttivo dire che non incontra i miei gusti: il fatto che ci siano cose che non abbiano senso, ha senso per il fatto che nascano da un trip: ma per me a parte la giustificazione, rimangono comunque cose cui ho fatto fatica a dare un senso.

Se vorrai rimettere mano alla storia, il mio consiglio è di ridurre la parte in cui Fabio non ha idea di cosa sia Yole: magari con qualche risposta in più di Yole e flash di consapevolezza di Fabio.

Cmq ebbravo Eugene, tra l’altro vedo che continui a mettere con intelligenza la tua competenza nell’ambito sanitario, la sensazione di credibilità è tangibile.
Alla prossima

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