GroundGlass
Inviato: domenica 20 dicembre 2020, 19:38
GroundGlass
Di Eugene Fitzherbert
Sono scossa da un singhiozzo. Stesa sul pavimento del bagno della scuola, mi rannicchio e stringo i pugni sulle labbra gonfie. Sussulto e il mio corpo mi fa eco con dolori da tutte le parti.
Ci sono andate giù duro, quelle stronze.
Strizzo gli occhi bagnati lacrime.
«E la prossima volta tieni quella bocca lontano da mia sorella, leccavongole!» Luana si piega su di me, mi afferra per i capelli. Ha il respiro affannato per avermi presa a calci fino a farmi vomitare. «Mi fai schifo, invertita.»
Lo sputo mi centra sulla guancia: è caldo, ma l’umiliazione brucia di più.
Mi sbatte la testa sul pavimento.
E ancora.
«Penso che sia abbastanza, Lu.» È Barbara, con il suo cappellino. «Lasciala fottere.»
Luana torna a guardarmi: «Mi hai capito, Yole? Un’altra volta vicino a mia sorella e ti strappo gli occhi. Sei una femmina, deve piacerti il cazzo.»
Fanculo. È quello che vorrei dirle, ma mi esce un rantolo gorgogliante. Metà della faccia è un inferno di dolore e il mio occhio destro è stato ingoiato dalla palpebra gonfia.
Luana e Barbara escono fuori dal bagno. Lo stipite della porta si blocca e fa capolino la testa di Desirèe. Sgrana gli occhi e sghignazza. «Così sei più bella, Yole.» E mi lancia un bacio con la mano.
Stronza.
Mi metto carponi. Un conato di vomito mi scuote. Non ce la faccio più.
Leccavongole.
Invertita.
Troia.
Lesbica.
Non so cosa sono. Non so cosa mi piace. CHI mi piace.
Fanculo.
Zoppico fino al lavandino. Mi sciacquo la faccia: c’è una sola via d’uscita.
GroundGlass.
1.
«Fabio, stiamo per toglierti le bende.»
La voce della dottoressa Karnevitch mi arriva dal vuoto, come tutte le voci che ho udito per i sedici anni della mia vita. Sono seduto sul letto con la schiena dritta e stringo due lembi delle lenzuola.
Le dita della dottoressa si insinuano tra la fasciatura e i capelli corti. Scorrono fino alla nuca e ritornano in avanti. Le bende si tendono e stringono. Con un fruscio, gli strati di garze e ovatta si staccano dalla mia testa.
Ho le palpebre chiuse: il buio si trasforma in un chiarore rossastro, cangiante. Una singola lacrima cade dall’occhio sinistro e mi scivola sulla guancia. Il cuore mi corre nel petto.
Apro gli occhi.
Vedo!
Stacco le mani dal lenzuolo: i dorsi sono solcati da vene e sulle unghie del medio e dell’indice ci sono dei segnetti bianchi. Le ruoto: i palmi sono segnati da rughe, orizzontali e verticali che si incrociano in un disegno magico.
Il letto ha le lenzuola candide, stropicciate. Muovo i piedi e le coperte si arricciano ancora di più. Alla mia destra c’è il comodino: ha uno sportellino verde con la maniglia cromata e un ripiano regolabile, per il cibo, su cui è posata una bottiglia di succo di pesca.
«Allora? Come va?»
La dottoressa Karnevitch ha i capelli scuri, gli occhi verdi cerchiati da un paio di occhiali dalla montatura dorata. Il naso affilato taglia il volto in due metà simmetriche. Le labbra rosse sorridono e i denti sono perfetti.
Tra le dita stringe ancora i resti della garza: il cotone è screziato dal disinfettante e da qualche macchia rossa di sangue.
Mi porto le mani agli occhi: sono… normali. Hanno le palpebre, le ciglia, le sopracciglia. Aggrotto la fronte.
«Gli impianti sono invisibili.» Karnevitch sorride. «Sono tutti interni.»
Palpo le tempie, e sotto la pelle, in profondità, schiaccio i cavi, sottili come spaghetti, che corrono verso le orecchie. Li seguo con le dita fino alla nuca, dove affondano dentro il cranio.
«Abbiamo fatto un lavoro a regola d’arte. Com’è vedere?»
Mi fissa in attesa della risposta.
Io non ho parole. Come potrei averne? Per la prima volta, il mondo si mostra a me, dopo avermi masticato in un ovattato universo fatto di quattro sensi. Esistono delle parole che possono sintetizzare una rinascita di questo genere? Sono appena nato in un vagito di forme e colori.
«È…» Deglutisco. «È… meraviglioso. La luce. Non pensavo che fosse così…» Chiudo la bocca. «Luminosa.»
Lei mi sorride. «Funziona tutto, allora? Di che colore sono i miei capelli?»
«Neri, credo. Insomma, scuri. Non so scegliere la parola giusta. Per me i colori sono parole, concetti. Però, ecco… Vi vedo e questo è incredibile per me.» Un’altra lacrima scivola lungo il naso. La pulisco con il dorso della mano. «Scusi.»
«Non preoccuparti. Lacrimazione improvvisa, bruciore, senso di tumefazione agli occhi sono sensazioni che avvertirai per tutta la convalescenza. Così come un leggero mal di testa o un senso di vertigine.» Si avvicina e si china all’altezza del mio sguardo. «Segui il mio dito.» Sposta l’indice da destra verso sinistra.
Io tengo lo sguardo fisso sulla punta.
Si rialza. «Bene, non c’è nistagmo, non c’è difetto di accomodazione e convergenza, non c’è laterodeviazione dello sguardo. I tuoi occhi funzionano bene. Domani faremo altri test. Per ora, rilassati e riposati.» Le scarpe della dottoressa ticchettano sul pavimento. Si volta verso di me. «Non lasciare la tua stanza. Non vorrei che ti perdessi, ok?»
Non attende una mia risposta: apre la porta e se la richiude alle spalle.
Getto le coperte di lato e mi metto seduto con le gambe fuori dal letto. I piedi toccano il pavimento freddo. Mi metto in piedi e attendo che la vertigine passi. Mi sorreggo alla testiera del letto e contraggo i muscoli delle gambe per riattivarli.
Mi avvicino alla porta. L’oblò rettangolare mi arriva davanti agli occhi: oltre, c’è un corridoio malamente illuminato da neon freddi. Deserto. Ci sono delle porte a destra e a sinistra, ma sono chiuse e senza insegne. Sono stanze di degenza? Uffici? Bagni?
Poso la mano sulla maniglia…
E mi gira tra le dita.
Stringo la presa e la blocco.
Al di là dell’oblò, il volto di una ragazza mi fissa: ha i capelli corti, che sparano da tutte le parti, la fronte è spaziosa e le sopracciglia sottili sono inarcate in un’espressione di sorpresa. Il naso è piccolo e le labbra sono coperte di rossetto scuro. Ha un piercing al labbro inferiore. Gli occhi sono due gocce di cromo incastonate tra le palpebre strette. Sono opachi e zigrinati, come vetro smerigliato.
Mi ritraggo dall’oblò e non mollo la maniglia.
Dall’altra della porta, la ragazza batte con la mano libera. «Fammi entrare, cazzo! Chi sei? Perché sei qui?» Urla e goccioline di saliva macchiano il vetro. «Non devi essere qui!» Strattona la porta che vibra contro lo stipite.
«Cosa vuoi da me? Chi sei?» Che sia scappata dal reparto psichiatrico?
«Vaffanculo! Non dovresti essere qui! Questo non è il tuo posto. Dannazione!» L’ultima parola è un ringhio rabbioso.
Il volto sparisce dalla vista.
Il corridoio sembra vuoto.
Chi diavolo era?
Apro la porta.
2.
Il corridoio si snoda nel completo silenzio, illuminato dai neon sul soffitto. A metà strada, la ragazza sconosciuta si infila in una porta e se la chiude alle spalle con un clac.
Stringo le mani. Non posso uscire dalla mia stanza, la dottoressa è stata chiara. Se mi sentissi male, nessuno saprebbe sono mi trovo. Potrebbe essere pericoloso.
Però…
Quel volto. Quei capelli. Quel rossetto. E poi le parole che mi ha urlato attraverso il vetro della porta. Non posso lasciare perdere.
Avanzo: mi appoggio al muro, anche se non ho vertigini. Il contatto tra la mano e l’intonaco mi dà sicurezza, una vecchia parte di me che non riesce ancora ad abituarsi alla vista.
La porta dove si è cacciata la ragazza ha una targhetta: ci sono dei segni, delle lettere, credo, ma non so leggere. Ci passo il dito sopra: sono lisce.
Il cuore accelera nel petto. Sbatto le palpebre e stringo i muscoli della mandibola. Apro la porta.
La stanza è grande, con scrivanie e computer. La luce soffusa e azzurrognola emana dalle pareti stesse, dove è appesa una serie di pannelli luminosi. Sui pannelli sono fissati delle lastre in un tripudio di ossa, costole, teschi, bacini. Forse è radiologia.
Sposto una sedia con le rotelle e avanzo tra due file di scrivanie. Non c’è segno della ragazza.
La penombra rende tutto il mobilio spettrale, impasta i particolari che diventano sfuggenti. Ci sono raccoglitori di documenti, armadietti con i cassetti corredati da etichette, stampanti e fasci di fogli compilati.
Un rumore di passi scalzi alle mie spalle mi fa sobbalzare e una spallata mi fa barcollare in avanti. Mi appoggio alla scrivania e mi volto.
La sconosciuta – ma è davvero sconosciuta? – mi fissa con i suoi occhi argentati, che riflettono la luce azzurrognola. «Perché sei venuto qui? Non dovresti esserci. Mi stai rovinando la vita!»
«Io non ti conosco, perché mi stai facendo questo?» Allungo un braccio verso di lei, ma quella si chiude la porta alle spalle.
Mi lancio e afferro la maniglia. Il clangore della chiave che gira nella serratura mi vibra nella mano. Questa volta sono io a battere i pugni sul legno. «Ehi! Fammi uscire! Che significa tutto questo?»
«Non puoi restare qui. Sei la mia rovina!»
Sono singhiozzi quelli che vengono dall’altra parte della porta? «La tua rovina? Ma non ti conosco nemmeno.»
«Fanculo…»
Batto ancora con il pugno.
La luce soffusa della stanza aumenta di intensità e inizia a sfarfallare. Mi volto: le pareti luminose lampeggiano e le lastre appese tremolano come spostate da una corrente d’aria.
Le immagini retroilluminate si gonfiano e perdono il loro aspetto bidimensionale. Sgrano gli occhi: le ossa stanno emergendo dalle lastre, come se si stessero solidificando.
Una dopo l’altra, le radiografie cadono dalle pareti, spinte dal peso stesso delle ossa che contengono. Il rumore è quello secco di bacchette di legno che cadono al suolo: tloc, tloc, tloc.
La luce lampeggia sempre più forte.
A terra, le lastre continuano a solidificarsi, scivolano sul pavimento e si avvicinano l’una all’altra. Si stanno componendo.
«Ehi, ci sei? Fammi uscire, per favore.» Busso più forte sulla porta.
Torno a guardare dietro di me: oh mio dio!
Dietro la scrivania, in piedi, c’è uno scheletro dalle ossa luminose, come se dentro scorresse una luce azzurra evanescente. Il teschio è rivolto verso di me. Alle spalle del primo se ne solleva un secondo e poco più a destra un terzo.
Batto con tutte e due le mani sulla porta. «Dai, cazzo! Apri questa porta!» Mi aggrappo alla maniglia, la ruoto e la strattono. È tutto inutile. «Avanti! Perché fai questo? Chi diavolo sei?»
Una morsa si stringe sulla mia spalla e mi tira indietro. Cado di schiena a terra. Mollo un calcio alla cieca e colpisco una delle gambe. Guadagno un po’ di tempo: mi metto carponi e mi spingo verso la porta. Mani di ossa mi afferrano per il pigiama e mi rimettono giù.
Arriva il primo colpo sulla spalla. Il dolore è lancinante. Urlo, ma la voce è soffocata da un calcio alla pancia. Mi rannicchio e mi copro la testa con le braccia per proteggere gli occhi. Un altro colpo mi raggiunge alle gambe. È come essere picchiati con una mazza della scopa.
Scalcio ancora alla cieca. Colpisco qualcosa con il piede nudo: lo sento bagnato e appiccicoso. Picchio di nuovo e la pianta del piede affonda in qualcosa di spugnoso.
Mi arriva un colpo sulla spalla, ma è più morbido e mi lascia umido, come se mi avessero lanciato uno straccio intriso di acqua.
Mi hanno ferito?
Apro gli occhi: sulle ossa luminose serpeggiano e guizzano brani di carne sanguinolenta, che si contraggono a ogni movimento. I mostri guadagnano muscoli e sprizzano sangue, i tessuti si creano dal nulla intorno alle articolazioni. Ogni colpo che mi raggiunge alza schizzi rossi per la stanza. Li sento in faccia e sono freddi, morti.
Un calcio sulla schiena mi fa inarcare per il dolore. Stringo i denti e grugnisco. Uno degli scheletri si piega e mi afferra per i capelli.
No, no!
Mi sbatte la testa a terra. Il dolore alla guancia esplode.
I miei occhi! Mi aggrappo al braccio e lo stringo. I calci mi colpiscono ai reni, alle gambe, ma gli occhi sono più importanti. «Lasciami andare.» Stringo le dita e i muscoli carnosi si strizzano come stracci bagnati di acqua fredda.
Il mostro mi scuote la testa ma non mollo la presa. Brani di muscoli mi scivolano tra le nocche e mi coprono la mano.
Mi sta incorporando!
Sfilo la mano ma resta incastrata nella carne. Con uno strappo riesco a liberare una mano. Schiaffeggio il mostro e lo scalcio. Gli altri due continuano a pestarmi.
«Ehi! Aiutami!» Mi sbraccio per parare un altro pugno e mi spingo con i talloni per sfuggire alla gragnuola di colpi. Scivolo sul sangue raccolto a terra. Non so se sia mio o delle cose intorno a me, ma non mi interessa.
Una morsa mi stringe la gamba. Ritraggo il piede e lo sfilo dalle mani di una ragazza. Anche gli altri due mostri hanno preso le sembianze di ragazze.
«Leccavongole!» Quella che mi aveva preso per i capelli si china su di me ancora. «Deve piacerti il cazzo!»
Un calcio nella pancia mi toglie il respiro.
Mi metto carponi e gattono verso la porta. Raggiungo la maniglia e mi aggrappo con tutto il mio peso. Mi tiro su. «Ehi tu! Sei là fuori? Apri questa porta!»
La ragazza che mi ha parlato mi schiaccia contro il battente. «Questa volta ti faccio fuori, invertita!» Mi sussurra nell’orecchio. Il suo mento è poggiato sulla mia spalla e mi guarda con i suoi occhi luminosi come le ossa.
«Ammazzala, Lu.» È l’altra a parlare. Anche lei ha gli occhi azzurrognoli
Lu mi prende per i capelli e allontana la mia faccia dalla porta.
Ansimo e oppongo resistenza, ma è inutile. Chiudo gli occhi pronto ad attutire il colpo.
Un clac risuona lungo tutto il telaio della porta, che si apre. Una mano emerge dallo spiraglio, poi un braccio. Mi aggrappo a quell’arto, lo stringo e vengo strattonato lontano dalla morsa di Lu. Esco fuori dalla stanza e cado a terra nel corridoio.
La ragazza con gli occhi a specchio richiude la porta e gira la chiave.
Mi metto seduto. Ho il fiato corto e il cuore che mi martella nel petto. «Chi sei?» Ansimo. «Cos’erano quelle cose e cosa volevano da me?»
L’altra non mi risponde. Si volta e se ne va.
«Ehi!» Mi metto in piedi. «Dove vai?»
«Seguimi.» Ed entra in un’altra stanza.
«Proprio per niente. Tre mostri hanno appena cercato di uccidermi, con questo giochino.»
I suoi occhi a specchio compaiono oltre lo stipite. «Qui non ti accadrà nulla. Se vuoi una risposta, vieni.»
Mi mordo il labbro e stringo i pugni. Mi vuole fregare, ma è anche l’unica che può farmi capire cosa diavolo sta accadendo. Anche se è la prima ragazza che vedo in assoluto, c’è qualcosa che mi attrae.
Con un sospiro varco la porta.
3.
La ragazza è seduta su un secchio rovesciato, tra gli scaffali pieni di prodotti per le pulizie. Ha i gomiti appoggiati alle ginocchia allargate e la testa penzoloni tra le spalle. «Perché?» Alza gli occhi su di me. «Speravo di riuscire a farla finita…»
Non varco la soglia. «Chi sei e che vuoi da me?»
«Pensavo dovesse essere più facile.» Alza lo sguardo. È pallida e il piercing al labbro ha lo stesso colore degli occhi. «Mi chiamo Yole.»
«Yole?» Un nome che mi risuona. «Questo non spiega perché mi hai rinchiuso in quella stanza con le luci.»
«Sala di refertazione.» Si strofina il naso. «Era un tentativo per fare il lavoro senza sporcarmi le mani. Ma non funziona così. Non so perché ma era come se non potessi lasciarti lì dentro. Ho dovuto salvarti, anche se non so il tuo nome.»
«Mi chiamo Fabio, e ti ricordo che mi hai chiuso in quell’inferno, prima di salvarmi…»
«Sono confusa anch’io.» Si alza. «Sono qui per un motivo ben preciso, ma continuo a chiedermi: come sei arrivato qui? Perché siamo vicini? Che senso ha tutto ciò?»
Mi appoggio allo stipite della porta. «Io sono qui perché sono stato operato: ero cieco.»
«E prima?» Il sorrisetto sbilenco sulla bocca è odioso.
«Prima ero…» Chiudo la bocca. Sbatto le palpebre. E prima?
«Ecco. Questo è il punto. Tu inizi qui. Ora.» Fa un passo verso di me. Allunga la mano e la posa sulla mia spalla. «Solo che non mi capisco…» Scuote la testa. «…perché non riesca a ucciderti!»
Mi prende per un braccio e mi scaraventa per terra sulla schiena. Con un balzo si mette a cavalcioni sul petto e mi blocca le braccia con le ginocchia. Ansimo sotto il peso del suo corpo.
Yole ha le sopracciglia aggrottate e le labbra piegate verso il basso. Il naso è incastonato tra due rughe profonde che arrivano quasi al mento.
«Devo farlo io con le mia mani, ormai è chiaro.» Mi cinge il collo con le dita. I pollici premono sulla trachea.
«No, aspetta. Perché devi uccidermi? Che ti ho fatto?»
«Perché tu non c’entri niente con me! Da quando esisti non fai altro che incasinarmi la vita!» Gli occhi si ingrandiscono, due pozze di mercurio si allargano sulla faccia e cancellano le guance, le sopracciglia sottili, fino ad arrivare sulla fronte, verso l’attaccatura dei capelli corti che sparano da tutte le parti.
Si piega su di me. Io tossisco. In quegli occhi cromati per la prima volta vedo me stesso: l’espressione sofferente, il colorito violaceo, ma anche le labbra strette, le sopracciglia sottili e i capelli che sparano da tutte le parti. «Oh mio dio… Noi… Siamo… Uguali.»
Gli occhi di Yole, enormi, si estroflettono, colano fuori come due stalattiti di metallo fuso. Tremolano verso la mia faccia.
«Siamo uguali! Perché devi uccidermi?» Gracchio queste parole con gli ultimi ansiti che riesco a inalare.
Gli occhi di Yole toccano i miei.
Sono seduta alla scrivania, la mia cameretta è illuminata solo dal chiarore spettrale dello schermo del computer.
Il browser è puntato sul forum del GroundGlass, in uno dei meandri della BlackNet. “Prendete due pillole e mettetevi a letto. Fatevi il viaggio della vita.”, scrive l’utente Krx56. “Vi risveglierete come nuovi e i vostri problemi saranno risolti.”
“Dite addio ai vostri dubbi, alle incertezze e alle vostre paure. Finalmente potrete essere voi stessi. Non è una passeggiata, ma FUNZIONA!” SteveArgh è entusiasta.
Il resto dei commenti è sullo stesso tono. Due pillole di GroundGlass, un trip e la guarigione.
Appoggio la testa sulle braccia conserte. Nel buio caldo ritornano il pestaggio, Luana e le sue amiche. Mi viene da piangere. Non posso continuare così, tra insulti, botte, e scherzi. Ma non posso continuare a stare al mondo senza sapere da che parte stare. È vero ho baciato la sorella di Luana, ma lei me l’aveva chiesto e non mi sembrava una brutta idea.
Sono una ragazza? Non lo so. Forse no. Porto i capelli corti, anche se non significa niente. Mi sento maschio, e mi porto dietro questi cromosomi come un’opinione che non posso cambiare. A volte vomito per la tensione, cerco una via d’uscita che non appare da nessuna parte.
Apro il cassetto e tiro fuori una scatolina grigia. Dentro ci sono due capsule blu. Le faccio scivolare da una parte all’altra.
Mi mordicchio il piercing.
“Il GroundGlass non mente. Una volta dentro la propria testa non c’è via di scampo: si ritrova se stessi e si riesce rinati!” E perché mai non dovrei credere a UhuruPax?
Mi stendo a letto e poso la scatolina sul petto, in mezzo a quell’accenno di tette che neanche si vedono.
E sia!
Ribalto la scatolina sulle labbra e lascio cadere le pillole in bocca. Le deglutisco con un bolo di saliva acida.
Aspetto a occhi chiusi.
Il buio è l’ultimo pensiero che mi attraversa la testa. Mi sembra di essere cieca.
Sprofondo nel sonno, dentro di me. Alla ricerca di me.
5.
Spalanco gli occhi e mi metto a sedere. Ansimo.
Uno dei trip più tremendi della mia vita.
Siamo uguali! Perché devi uccidermi?
Le parole mi vorticano in testa.
Metto i piedi fuori dal letto. La stanza è buia: non so neanche quanto tempo sono stato fuori. Mi prendo la testa tra le mani. Dovrei sentirmi diverso, ma il mio corpo è quello di sempre. Mi passo le mani tra i capelli corti, mi strofino le braccia e mi friziono le gambe.
Tutto come prima.
Una cosa è certa: sono stanchissimo e incazzato per quello che hanno detto sui forum. Dannata BlackNet. Sono lo stesso di prima.
Mi blocco.
Ritorno sui miei pensieri.
Sono stanco. Sono lo stesso di prima.
Cristo.
Chi sono?
Siamo uguali. Perché devi uccidermi?
Dopo quella frase, i nostri occhi si sono incontrati, si sono toccati.
Si sono fusi!
Corro in bagno. Mi appoggio al lavandino e avvicino la faccia allo specchio: non c’è niente di nuovo. «Chi sei?» Chiedo al mio riflesso.
«Fabyole,» mi risponde.
Sorrido.
GroundGlass. Ha funzionato. Ha risolto il mio problema. Dannato BlackNet! Hanno sempre ragione!
Di Eugene Fitzherbert
Sono scossa da un singhiozzo. Stesa sul pavimento del bagno della scuola, mi rannicchio e stringo i pugni sulle labbra gonfie. Sussulto e il mio corpo mi fa eco con dolori da tutte le parti.
Ci sono andate giù duro, quelle stronze.
Strizzo gli occhi bagnati lacrime.
«E la prossima volta tieni quella bocca lontano da mia sorella, leccavongole!» Luana si piega su di me, mi afferra per i capelli. Ha il respiro affannato per avermi presa a calci fino a farmi vomitare. «Mi fai schifo, invertita.»
Lo sputo mi centra sulla guancia: è caldo, ma l’umiliazione brucia di più.
Mi sbatte la testa sul pavimento.
E ancora.
«Penso che sia abbastanza, Lu.» È Barbara, con il suo cappellino. «Lasciala fottere.»
Luana torna a guardarmi: «Mi hai capito, Yole? Un’altra volta vicino a mia sorella e ti strappo gli occhi. Sei una femmina, deve piacerti il cazzo.»
Fanculo. È quello che vorrei dirle, ma mi esce un rantolo gorgogliante. Metà della faccia è un inferno di dolore e il mio occhio destro è stato ingoiato dalla palpebra gonfia.
Luana e Barbara escono fuori dal bagno. Lo stipite della porta si blocca e fa capolino la testa di Desirèe. Sgrana gli occhi e sghignazza. «Così sei più bella, Yole.» E mi lancia un bacio con la mano.
Stronza.
Mi metto carponi. Un conato di vomito mi scuote. Non ce la faccio più.
Leccavongole.
Invertita.
Troia.
Lesbica.
Non so cosa sono. Non so cosa mi piace. CHI mi piace.
Fanculo.
Zoppico fino al lavandino. Mi sciacquo la faccia: c’è una sola via d’uscita.
GroundGlass.
1.
«Fabio, stiamo per toglierti le bende.»
La voce della dottoressa Karnevitch mi arriva dal vuoto, come tutte le voci che ho udito per i sedici anni della mia vita. Sono seduto sul letto con la schiena dritta e stringo due lembi delle lenzuola.
Le dita della dottoressa si insinuano tra la fasciatura e i capelli corti. Scorrono fino alla nuca e ritornano in avanti. Le bende si tendono e stringono. Con un fruscio, gli strati di garze e ovatta si staccano dalla mia testa.
Ho le palpebre chiuse: il buio si trasforma in un chiarore rossastro, cangiante. Una singola lacrima cade dall’occhio sinistro e mi scivola sulla guancia. Il cuore mi corre nel petto.
Apro gli occhi.
Vedo!
Stacco le mani dal lenzuolo: i dorsi sono solcati da vene e sulle unghie del medio e dell’indice ci sono dei segnetti bianchi. Le ruoto: i palmi sono segnati da rughe, orizzontali e verticali che si incrociano in un disegno magico.
Il letto ha le lenzuola candide, stropicciate. Muovo i piedi e le coperte si arricciano ancora di più. Alla mia destra c’è il comodino: ha uno sportellino verde con la maniglia cromata e un ripiano regolabile, per il cibo, su cui è posata una bottiglia di succo di pesca.
«Allora? Come va?»
La dottoressa Karnevitch ha i capelli scuri, gli occhi verdi cerchiati da un paio di occhiali dalla montatura dorata. Il naso affilato taglia il volto in due metà simmetriche. Le labbra rosse sorridono e i denti sono perfetti.
Tra le dita stringe ancora i resti della garza: il cotone è screziato dal disinfettante e da qualche macchia rossa di sangue.
Mi porto le mani agli occhi: sono… normali. Hanno le palpebre, le ciglia, le sopracciglia. Aggrotto la fronte.
«Gli impianti sono invisibili.» Karnevitch sorride. «Sono tutti interni.»
Palpo le tempie, e sotto la pelle, in profondità, schiaccio i cavi, sottili come spaghetti, che corrono verso le orecchie. Li seguo con le dita fino alla nuca, dove affondano dentro il cranio.
«Abbiamo fatto un lavoro a regola d’arte. Com’è vedere?»
Mi fissa in attesa della risposta.
Io non ho parole. Come potrei averne? Per la prima volta, il mondo si mostra a me, dopo avermi masticato in un ovattato universo fatto di quattro sensi. Esistono delle parole che possono sintetizzare una rinascita di questo genere? Sono appena nato in un vagito di forme e colori.
«È…» Deglutisco. «È… meraviglioso. La luce. Non pensavo che fosse così…» Chiudo la bocca. «Luminosa.»
Lei mi sorride. «Funziona tutto, allora? Di che colore sono i miei capelli?»
«Neri, credo. Insomma, scuri. Non so scegliere la parola giusta. Per me i colori sono parole, concetti. Però, ecco… Vi vedo e questo è incredibile per me.» Un’altra lacrima scivola lungo il naso. La pulisco con il dorso della mano. «Scusi.»
«Non preoccuparti. Lacrimazione improvvisa, bruciore, senso di tumefazione agli occhi sono sensazioni che avvertirai per tutta la convalescenza. Così come un leggero mal di testa o un senso di vertigine.» Si avvicina e si china all’altezza del mio sguardo. «Segui il mio dito.» Sposta l’indice da destra verso sinistra.
Io tengo lo sguardo fisso sulla punta.
Si rialza. «Bene, non c’è nistagmo, non c’è difetto di accomodazione e convergenza, non c’è laterodeviazione dello sguardo. I tuoi occhi funzionano bene. Domani faremo altri test. Per ora, rilassati e riposati.» Le scarpe della dottoressa ticchettano sul pavimento. Si volta verso di me. «Non lasciare la tua stanza. Non vorrei che ti perdessi, ok?»
Non attende una mia risposta: apre la porta e se la richiude alle spalle.
Getto le coperte di lato e mi metto seduto con le gambe fuori dal letto. I piedi toccano il pavimento freddo. Mi metto in piedi e attendo che la vertigine passi. Mi sorreggo alla testiera del letto e contraggo i muscoli delle gambe per riattivarli.
Mi avvicino alla porta. L’oblò rettangolare mi arriva davanti agli occhi: oltre, c’è un corridoio malamente illuminato da neon freddi. Deserto. Ci sono delle porte a destra e a sinistra, ma sono chiuse e senza insegne. Sono stanze di degenza? Uffici? Bagni?
Poso la mano sulla maniglia…
E mi gira tra le dita.
Stringo la presa e la blocco.
Al di là dell’oblò, il volto di una ragazza mi fissa: ha i capelli corti, che sparano da tutte le parti, la fronte è spaziosa e le sopracciglia sottili sono inarcate in un’espressione di sorpresa. Il naso è piccolo e le labbra sono coperte di rossetto scuro. Ha un piercing al labbro inferiore. Gli occhi sono due gocce di cromo incastonate tra le palpebre strette. Sono opachi e zigrinati, come vetro smerigliato.
Mi ritraggo dall’oblò e non mollo la maniglia.
Dall’altra della porta, la ragazza batte con la mano libera. «Fammi entrare, cazzo! Chi sei? Perché sei qui?» Urla e goccioline di saliva macchiano il vetro. «Non devi essere qui!» Strattona la porta che vibra contro lo stipite.
«Cosa vuoi da me? Chi sei?» Che sia scappata dal reparto psichiatrico?
«Vaffanculo! Non dovresti essere qui! Questo non è il tuo posto. Dannazione!» L’ultima parola è un ringhio rabbioso.
Il volto sparisce dalla vista.
Il corridoio sembra vuoto.
Chi diavolo era?
Apro la porta.
2.
Il corridoio si snoda nel completo silenzio, illuminato dai neon sul soffitto. A metà strada, la ragazza sconosciuta si infila in una porta e se la chiude alle spalle con un clac.
Stringo le mani. Non posso uscire dalla mia stanza, la dottoressa è stata chiara. Se mi sentissi male, nessuno saprebbe sono mi trovo. Potrebbe essere pericoloso.
Però…
Quel volto. Quei capelli. Quel rossetto. E poi le parole che mi ha urlato attraverso il vetro della porta. Non posso lasciare perdere.
Avanzo: mi appoggio al muro, anche se non ho vertigini. Il contatto tra la mano e l’intonaco mi dà sicurezza, una vecchia parte di me che non riesce ancora ad abituarsi alla vista.
La porta dove si è cacciata la ragazza ha una targhetta: ci sono dei segni, delle lettere, credo, ma non so leggere. Ci passo il dito sopra: sono lisce.
Il cuore accelera nel petto. Sbatto le palpebre e stringo i muscoli della mandibola. Apro la porta.
La stanza è grande, con scrivanie e computer. La luce soffusa e azzurrognola emana dalle pareti stesse, dove è appesa una serie di pannelli luminosi. Sui pannelli sono fissati delle lastre in un tripudio di ossa, costole, teschi, bacini. Forse è radiologia.
Sposto una sedia con le rotelle e avanzo tra due file di scrivanie. Non c’è segno della ragazza.
La penombra rende tutto il mobilio spettrale, impasta i particolari che diventano sfuggenti. Ci sono raccoglitori di documenti, armadietti con i cassetti corredati da etichette, stampanti e fasci di fogli compilati.
Un rumore di passi scalzi alle mie spalle mi fa sobbalzare e una spallata mi fa barcollare in avanti. Mi appoggio alla scrivania e mi volto.
La sconosciuta – ma è davvero sconosciuta? – mi fissa con i suoi occhi argentati, che riflettono la luce azzurrognola. «Perché sei venuto qui? Non dovresti esserci. Mi stai rovinando la vita!»
«Io non ti conosco, perché mi stai facendo questo?» Allungo un braccio verso di lei, ma quella si chiude la porta alle spalle.
Mi lancio e afferro la maniglia. Il clangore della chiave che gira nella serratura mi vibra nella mano. Questa volta sono io a battere i pugni sul legno. «Ehi! Fammi uscire! Che significa tutto questo?»
«Non puoi restare qui. Sei la mia rovina!»
Sono singhiozzi quelli che vengono dall’altra parte della porta? «La tua rovina? Ma non ti conosco nemmeno.»
«Fanculo…»
Batto ancora con il pugno.
La luce soffusa della stanza aumenta di intensità e inizia a sfarfallare. Mi volto: le pareti luminose lampeggiano e le lastre appese tremolano come spostate da una corrente d’aria.
Le immagini retroilluminate si gonfiano e perdono il loro aspetto bidimensionale. Sgrano gli occhi: le ossa stanno emergendo dalle lastre, come se si stessero solidificando.
Una dopo l’altra, le radiografie cadono dalle pareti, spinte dal peso stesso delle ossa che contengono. Il rumore è quello secco di bacchette di legno che cadono al suolo: tloc, tloc, tloc.
La luce lampeggia sempre più forte.
A terra, le lastre continuano a solidificarsi, scivolano sul pavimento e si avvicinano l’una all’altra. Si stanno componendo.
«Ehi, ci sei? Fammi uscire, per favore.» Busso più forte sulla porta.
Torno a guardare dietro di me: oh mio dio!
Dietro la scrivania, in piedi, c’è uno scheletro dalle ossa luminose, come se dentro scorresse una luce azzurra evanescente. Il teschio è rivolto verso di me. Alle spalle del primo se ne solleva un secondo e poco più a destra un terzo.
Batto con tutte e due le mani sulla porta. «Dai, cazzo! Apri questa porta!» Mi aggrappo alla maniglia, la ruoto e la strattono. È tutto inutile. «Avanti! Perché fai questo? Chi diavolo sei?»
Una morsa si stringe sulla mia spalla e mi tira indietro. Cado di schiena a terra. Mollo un calcio alla cieca e colpisco una delle gambe. Guadagno un po’ di tempo: mi metto carponi e mi spingo verso la porta. Mani di ossa mi afferrano per il pigiama e mi rimettono giù.
Arriva il primo colpo sulla spalla. Il dolore è lancinante. Urlo, ma la voce è soffocata da un calcio alla pancia. Mi rannicchio e mi copro la testa con le braccia per proteggere gli occhi. Un altro colpo mi raggiunge alle gambe. È come essere picchiati con una mazza della scopa.
Scalcio ancora alla cieca. Colpisco qualcosa con il piede nudo: lo sento bagnato e appiccicoso. Picchio di nuovo e la pianta del piede affonda in qualcosa di spugnoso.
Mi arriva un colpo sulla spalla, ma è più morbido e mi lascia umido, come se mi avessero lanciato uno straccio intriso di acqua.
Mi hanno ferito?
Apro gli occhi: sulle ossa luminose serpeggiano e guizzano brani di carne sanguinolenta, che si contraggono a ogni movimento. I mostri guadagnano muscoli e sprizzano sangue, i tessuti si creano dal nulla intorno alle articolazioni. Ogni colpo che mi raggiunge alza schizzi rossi per la stanza. Li sento in faccia e sono freddi, morti.
Un calcio sulla schiena mi fa inarcare per il dolore. Stringo i denti e grugnisco. Uno degli scheletri si piega e mi afferra per i capelli.
No, no!
Mi sbatte la testa a terra. Il dolore alla guancia esplode.
I miei occhi! Mi aggrappo al braccio e lo stringo. I calci mi colpiscono ai reni, alle gambe, ma gli occhi sono più importanti. «Lasciami andare.» Stringo le dita e i muscoli carnosi si strizzano come stracci bagnati di acqua fredda.
Il mostro mi scuote la testa ma non mollo la presa. Brani di muscoli mi scivolano tra le nocche e mi coprono la mano.
Mi sta incorporando!
Sfilo la mano ma resta incastrata nella carne. Con uno strappo riesco a liberare una mano. Schiaffeggio il mostro e lo scalcio. Gli altri due continuano a pestarmi.
«Ehi! Aiutami!» Mi sbraccio per parare un altro pugno e mi spingo con i talloni per sfuggire alla gragnuola di colpi. Scivolo sul sangue raccolto a terra. Non so se sia mio o delle cose intorno a me, ma non mi interessa.
Una morsa mi stringe la gamba. Ritraggo il piede e lo sfilo dalle mani di una ragazza. Anche gli altri due mostri hanno preso le sembianze di ragazze.
«Leccavongole!» Quella che mi aveva preso per i capelli si china su di me ancora. «Deve piacerti il cazzo!»
Un calcio nella pancia mi toglie il respiro.
Mi metto carponi e gattono verso la porta. Raggiungo la maniglia e mi aggrappo con tutto il mio peso. Mi tiro su. «Ehi tu! Sei là fuori? Apri questa porta!»
La ragazza che mi ha parlato mi schiaccia contro il battente. «Questa volta ti faccio fuori, invertita!» Mi sussurra nell’orecchio. Il suo mento è poggiato sulla mia spalla e mi guarda con i suoi occhi luminosi come le ossa.
«Ammazzala, Lu.» È l’altra a parlare. Anche lei ha gli occhi azzurrognoli
Lu mi prende per i capelli e allontana la mia faccia dalla porta.
Ansimo e oppongo resistenza, ma è inutile. Chiudo gli occhi pronto ad attutire il colpo.
Un clac risuona lungo tutto il telaio della porta, che si apre. Una mano emerge dallo spiraglio, poi un braccio. Mi aggrappo a quell’arto, lo stringo e vengo strattonato lontano dalla morsa di Lu. Esco fuori dalla stanza e cado a terra nel corridoio.
La ragazza con gli occhi a specchio richiude la porta e gira la chiave.
Mi metto seduto. Ho il fiato corto e il cuore che mi martella nel petto. «Chi sei?» Ansimo. «Cos’erano quelle cose e cosa volevano da me?»
L’altra non mi risponde. Si volta e se ne va.
«Ehi!» Mi metto in piedi. «Dove vai?»
«Seguimi.» Ed entra in un’altra stanza.
«Proprio per niente. Tre mostri hanno appena cercato di uccidermi, con questo giochino.»
I suoi occhi a specchio compaiono oltre lo stipite. «Qui non ti accadrà nulla. Se vuoi una risposta, vieni.»
Mi mordo il labbro e stringo i pugni. Mi vuole fregare, ma è anche l’unica che può farmi capire cosa diavolo sta accadendo. Anche se è la prima ragazza che vedo in assoluto, c’è qualcosa che mi attrae.
Con un sospiro varco la porta.
3.
La ragazza è seduta su un secchio rovesciato, tra gli scaffali pieni di prodotti per le pulizie. Ha i gomiti appoggiati alle ginocchia allargate e la testa penzoloni tra le spalle. «Perché?» Alza gli occhi su di me. «Speravo di riuscire a farla finita…»
Non varco la soglia. «Chi sei e che vuoi da me?»
«Pensavo dovesse essere più facile.» Alza lo sguardo. È pallida e il piercing al labbro ha lo stesso colore degli occhi. «Mi chiamo Yole.»
«Yole?» Un nome che mi risuona. «Questo non spiega perché mi hai rinchiuso in quella stanza con le luci.»
«Sala di refertazione.» Si strofina il naso. «Era un tentativo per fare il lavoro senza sporcarmi le mani. Ma non funziona così. Non so perché ma era come se non potessi lasciarti lì dentro. Ho dovuto salvarti, anche se non so il tuo nome.»
«Mi chiamo Fabio, e ti ricordo che mi hai chiuso in quell’inferno, prima di salvarmi…»
«Sono confusa anch’io.» Si alza. «Sono qui per un motivo ben preciso, ma continuo a chiedermi: come sei arrivato qui? Perché siamo vicini? Che senso ha tutto ciò?»
Mi appoggio allo stipite della porta. «Io sono qui perché sono stato operato: ero cieco.»
«E prima?» Il sorrisetto sbilenco sulla bocca è odioso.
«Prima ero…» Chiudo la bocca. Sbatto le palpebre. E prima?
«Ecco. Questo è il punto. Tu inizi qui. Ora.» Fa un passo verso di me. Allunga la mano e la posa sulla mia spalla. «Solo che non mi capisco…» Scuote la testa. «…perché non riesca a ucciderti!»
Mi prende per un braccio e mi scaraventa per terra sulla schiena. Con un balzo si mette a cavalcioni sul petto e mi blocca le braccia con le ginocchia. Ansimo sotto il peso del suo corpo.
Yole ha le sopracciglia aggrottate e le labbra piegate verso il basso. Il naso è incastonato tra due rughe profonde che arrivano quasi al mento.
«Devo farlo io con le mia mani, ormai è chiaro.» Mi cinge il collo con le dita. I pollici premono sulla trachea.
«No, aspetta. Perché devi uccidermi? Che ti ho fatto?»
«Perché tu non c’entri niente con me! Da quando esisti non fai altro che incasinarmi la vita!» Gli occhi si ingrandiscono, due pozze di mercurio si allargano sulla faccia e cancellano le guance, le sopracciglia sottili, fino ad arrivare sulla fronte, verso l’attaccatura dei capelli corti che sparano da tutte le parti.
Si piega su di me. Io tossisco. In quegli occhi cromati per la prima volta vedo me stesso: l’espressione sofferente, il colorito violaceo, ma anche le labbra strette, le sopracciglia sottili e i capelli che sparano da tutte le parti. «Oh mio dio… Noi… Siamo… Uguali.»
Gli occhi di Yole, enormi, si estroflettono, colano fuori come due stalattiti di metallo fuso. Tremolano verso la mia faccia.
«Siamo uguali! Perché devi uccidermi?» Gracchio queste parole con gli ultimi ansiti che riesco a inalare.
Gli occhi di Yole toccano i miei.
Sono seduta alla scrivania, la mia cameretta è illuminata solo dal chiarore spettrale dello schermo del computer.
Il browser è puntato sul forum del GroundGlass, in uno dei meandri della BlackNet. “Prendete due pillole e mettetevi a letto. Fatevi il viaggio della vita.”, scrive l’utente Krx56. “Vi risveglierete come nuovi e i vostri problemi saranno risolti.”
“Dite addio ai vostri dubbi, alle incertezze e alle vostre paure. Finalmente potrete essere voi stessi. Non è una passeggiata, ma FUNZIONA!” SteveArgh è entusiasta.
Il resto dei commenti è sullo stesso tono. Due pillole di GroundGlass, un trip e la guarigione.
Appoggio la testa sulle braccia conserte. Nel buio caldo ritornano il pestaggio, Luana e le sue amiche. Mi viene da piangere. Non posso continuare così, tra insulti, botte, e scherzi. Ma non posso continuare a stare al mondo senza sapere da che parte stare. È vero ho baciato la sorella di Luana, ma lei me l’aveva chiesto e non mi sembrava una brutta idea.
Sono una ragazza? Non lo so. Forse no. Porto i capelli corti, anche se non significa niente. Mi sento maschio, e mi porto dietro questi cromosomi come un’opinione che non posso cambiare. A volte vomito per la tensione, cerco una via d’uscita che non appare da nessuna parte.
Apro il cassetto e tiro fuori una scatolina grigia. Dentro ci sono due capsule blu. Le faccio scivolare da una parte all’altra.
Mi mordicchio il piercing.
“Il GroundGlass non mente. Una volta dentro la propria testa non c’è via di scampo: si ritrova se stessi e si riesce rinati!” E perché mai non dovrei credere a UhuruPax?
Mi stendo a letto e poso la scatolina sul petto, in mezzo a quell’accenno di tette che neanche si vedono.
E sia!
Ribalto la scatolina sulle labbra e lascio cadere le pillole in bocca. Le deglutisco con un bolo di saliva acida.
Aspetto a occhi chiusi.
Il buio è l’ultimo pensiero che mi attraversa la testa. Mi sembra di essere cieca.
Sprofondo nel sonno, dentro di me. Alla ricerca di me.
5.
Spalanco gli occhi e mi metto a sedere. Ansimo.
Uno dei trip più tremendi della mia vita.
Siamo uguali! Perché devi uccidermi?
Le parole mi vorticano in testa.
Metto i piedi fuori dal letto. La stanza è buia: non so neanche quanto tempo sono stato fuori. Mi prendo la testa tra le mani. Dovrei sentirmi diverso, ma il mio corpo è quello di sempre. Mi passo le mani tra i capelli corti, mi strofino le braccia e mi friziono le gambe.
Tutto come prima.
Una cosa è certa: sono stanchissimo e incazzato per quello che hanno detto sui forum. Dannata BlackNet. Sono lo stesso di prima.
Mi blocco.
Ritorno sui miei pensieri.
Sono stanco. Sono lo stesso di prima.
Cristo.
Chi sono?
Siamo uguali. Perché devi uccidermi?
Dopo quella frase, i nostri occhi si sono incontrati, si sono toccati.
Si sono fusi!
Corro in bagno. Mi appoggio al lavandino e avvicino la faccia allo specchio: non c’è niente di nuovo. «Chi sei?» Chiedo al mio riflesso.
«Fabyole,» mi risponde.
Sorrido.
GroundGlass. Ha funzionato. Ha risolto il mio problema. Dannato BlackNet! Hanno sempre ragione!