L'involontaria
Inviato: domenica 20 dicembre 2020, 23:12
La luce in movimento
Fu la luce ad attrarmi per prima.
Ero uscita a consegnare una pila di moduli e ricevute in segreteria studenti. Per tornare avevo preso il giro lungo.
Lo facevo sempre, dopo le interazioni con gli sconosciuti. In più, Alessia mi aveva scritto di non avere ancora ottenuto tutti i testi per la tesi. Marciava in tondo per ore quando era nervosa, come un cattivo dei cartoni animati, e il nostro non era un appartamento grande. Meglio darle spazio.
I mattoni rossi del centro lasciarono il posto all’intonaco scrostato della periferia. Agli scorci delle corti interne si erano sostituiti parchetti e cortili asfaltati. Mi resi conto di aver superato il mio appartamento, ma avevo ancora voglia di camminare.
I condomini divennero capannoni. Superai un bar e un’autofficina, svoltai l’angolo e mi trovai a costeggiare una pista ciclabile tra case con giardino, viali alberati e prati.
Ancora qualche minuto e mi sarei lasciata alle spalle la città.
Solo allora alzai lo sguardo: il cielo si era fatto blu scuro, striato di rosa o di viola dietro i colli. Ero talmente assorta da non aver notato il tramonto. Non mi succedeva da quando ero bambina.
Forse era meglio rientrare. Il silenzio intorno a me aveva una nota inquietante, di non-vita.
In quel momento la vidi: baluginante, rossa e arancione come un secondo tramonto in miniatura. Una fiamma, che compariva e scompariva appena dietro una panchina alla mia destra.
Pensavo: Dovrei chiamare qualcuno.
I pompieri.
Forse è un principio d’incendio.
Pensavo e pensavo, un passo dopo l’altro, sempre più vicina.
Si muove? Una scarica di freddo mi risalì le viscere, fino alla schiena. Mi strofinai le palpebre con le maniche della felpa e guardai meglio.
Il sole era appena visibile ormai, e anche lei si era raffreddata: aveva assunto sfumature di azzurro e di grigio. E si era allontanata.
La seguii.
Si fermò all’angolo della strada, di fianco a una quercia. Qualcuno aveva legato fiori e biglietti alla base del tronco, dopo chissà quale incidente. Posai una mano sulla corteccia coperta di muschio. Umido. Anche i miei capelli si stavano bagnando: una pioggia leggera aveva iniziato a cadere. Appena me ne accorsi, la fiamma si estinse.
«No!» Non c’era un filo di fumo. Abbassai lo sguardo, in cerca di cenere o di una fonte di luce.
Invece, trovai una lucertola.
La lucertola impossibile
«Fammi capire». Alessia scolò la pasta nel lavandino, perdendone mezzo piatto e rischiando di scottarsi. Viveva in appartamento da anni, al contrario di me. Non avevo idea di come fosse sopravvissuta così a lungo. «Hai visto un riflesso strano».
«Circa,» risposi, accoccolata sul divano con il mio fagotto di asciugamani calde.
«Ti sei strofinata gli occhi, il riflesso si è spostato. I colori dell’ambiente sono cambiati, il riflesso anche. Corretto?»
«Non lo chiamerei riflesso».
«E hai trovato una lucertola».
«Cinico, per una storica delle religioni».
«Dai!». Versò le farfalle in una padella che odorava di soffritto, pomodoro e, appena, di vino. «La tua esperienza sovrannaturale di suggestione è al cento percento valida, va bene?»
Sbuffai.
«Vuoi la pasta o no? Ho fatto io il sugo, altro che schifo pronto».
«Solo perché è il tuo».
«Fammi posto». Lasciò la mia cena sul tavolino insieme a una forchetta. Lei mi si sistemò accanto, per truccarsi di fronte a uno specchio da borsetta. Il mio specchio. Teneva i trucchi in mezza bottiglia di plastica, tagliata in orizzontale per farne un barattolo.
«Esci?»
«Ho un impegno, dopo cena».
«Ti ha risposto la tua associazione, per la lucertola?» Il fagotto mi tremò tra le mani, come in risposta alle mie parole.
«Non è mia, la conosco soltanto. Ma mandano qualcuno».
«Grazie».
Mi rispose con una spallata, ma rimbalzai e le finii con la fronte contro la spalla. Rise. Il rettile mi riposava addosso come un gatto.
A qualche livello sapevo che non era proprio una lucertola. Avevo visto le sue due zampe, le alucce rosate, l’estremità rigida della coda. Doveva essere una specie esotica, e tenerla in braccio doveva essere un’idea pessima.
Eppure io mangiavo scomoda, ma serena come una pianta, e lei mi ronfava tra le braccia. Mi accoccolai contro la spalla della mia coinquilina, con la sensazione sottile di far parte di un segreto.
L’assurdo ha i suoi metodi per passare inosservato.
Prima che uscissi, Alessia mi infilò lo specchietto in borsa, poi mi sistemò la borsa sulla spalla. Mi sentivo un venditore porta-a-porta americano degli anni Cinquanta: io ero in partenza per un lungo viaggio sulla costa Ovest, e lei era mia…
Abbassai lo sguardo. Era arrossita anche lei, o solo io?
Il posto riflesso
Pioveva a dirotto quando arrivammo al centro. Il volontario, un ragazzo imbacuccato in un felpone bordeaux con cappuccio, si era presentato come Rosso Malpighi. Mi aveva dato uno scatolone per l’animale e aveva guidato con la prudenza di un pilota ubriaco.
La porta a specchio era una ragnatela di crepe profonde. Non riuscivo nemmeno a vedere la maniglia. Neanche il ragazzo, evidentemente: prese il telefono dalla tasca e puntò la torcia sulla porta. Dalla cover pendeva un ciondolo di metallo decorato con un motivo astratto, tanto lucido da riflettere la mia immagine. Dovette trovare la maniglia, perché aprì con una spinta e mi invitò a seguirlo.
Dentro era tutto buio: il mio mondo si ridusse ai passi di Rosso, al tintinnio della porta che si chiudeva alle nostre spalle e a un suono ritmico dal fondo dell’ufficio, come di un trattore che cerca di accendersi.
«L’avrei portata da solo, ma conosco la specie. Se ti si è affezionata, facciamo prima a portarvi in due che a separarvi in casa. Se si fissano con qualcosa, non le stacchi più». Accese la luce; mi coprii gli occhi per non restare abbagliata. «Sei stata gentile a venire».
«È il minimo». Non sapevo mai come rispondere ai complimenti.
Eravamo in un ufficio, con una vecchia scrivania e scaffalature di alluminio contro tutte le pareti. Quasi ogni centimetro di spazio era occupato da quotidiani ripiegati, scatole di cartone e raccoglitori gonfi di fogli. Sulla scrivania c’era una vecchia radio con l’antenna estesa a metà, che pareva uscita dagli anni Novanta.
«No, ragazza mia!» Una donna sulla quarantina emerse da sotto la scrivania. In una mano teneva un barattolo, nell’altra un fagotto di stracci. «Proprio non è il minimo». Aveva i capelli tinti di verde, sparati in aria come una fiamma. Mi ricordò la mia fiammella. Mi era sfuggita di mente, finora.
La donna passò il fagotto a Rosso - Si è mosso? C’è un animale dentro? - e mi tese la mano.
«Sono Silvana. Il taranta ti ha morso?»
«Peggio,» replicò il volontario. «Si è affezionato».
«Ahi!» Silvana, ancora sorridente, posò il barattolo. Dentro luccicava un liquido viola.
Mi invitò a consegnarle il rettile, accoccolato nel suo scatolone. Obbedii.
«Taranta?,» domandai.
«Tarantaside. Una viverna umorale».
Una viverna era una specie di drago, se ricordavo bene: la bestiola aveva un nome fantasy, come il Drago di Komodo. Forse era altrettanto esotica. Gorgogliò e allungò il muso affilato verso Silvana, curiosa. Lei gli grattò il mento.
«Nome e cognome? Scusami, sai, dobbiamo fare il terzo grado a tutti».
Risposi alle sue domande e feci il resoconto del ritrovamento, ma omisi la mia lucina. Raccontai della creatura tremante di freddo, di come l’avevo tenuta con me.
«Ho chiamato ed eccomi qua,» conclusi.
«Benissimo! Puoi quasi andare. Rosso ti… Cioè, io ti accompagnerò a casa. All’andata eravamo incasinati, ma ora posso lasciargli il fortino». Lui sollevò un sopracciglio.
Non vedevo l’ora di infilarmi sotto le coperte a leggere, eppure andarmene mi lasciava un retrogusto amaro in bocca. Non avevo voglia di abbandonare il tarantaside.
Mi costrinsi a pensare che loro erano esperti, io no. Se ne sarebbero presi cura meglio di me. Era stata un’avventura, ma era finita, e neanche male.
Fu allora che la fata mi pugnaló nello stinco.
Oltre l’ufficio
Aveva proporzioni umanoidi, ma non era più alta di un mio dito indice. Brandiva un pezzo di stuzzicadenti affilato.
Mi aveva trafitto la caviglia in corsa ed era schizzata verso l’uscita.
Rosso si precipitò ad aiutarmi; Silvana ci superò in un movimento fluido.
La creatura si arrampicò su una pila di giornali; dalla cima spiccò un balzo verso uno scaffale vicino, e la porta.
Un guanto lacero da meccanico la intercettò a mezz’aria. Silvana esultò, aggiustò la presa e sparì oltre la porta laterale dell’ufficio.
Seguirono due scatti metallici e un fruscio: una gabbia aperta, richiusa e coperta.
«Quanta fretta! Un giorno d’osservazione e tornate in discarica, Cru-cru. Ah!,» esclamò poi, «la ragazza sa bene?»
«Niente di rotto!» Rosso aveva radunato disinfettante, cotone e cerotti. Mi sorrise: «Ora ci pensa. Quando si tratta dei suoi mostriciattoli, è una monomaniaca».
Il taglio pulsava: mi chiesi se rischiasse d’infettarsi. Cercai di pensare solo a quello. L’enorme massa nera dell’assurditá a cui avevo assistito riposava da qualche parte, in fondo alla mia mente, pronta a paralizzarmi del tutto.
L’avrei affrontata.
Dopo.
Mi lasciai medicare.
Rosso mi offrì un cucchiaino di liquido viola dal barattolo sulla scrivania; accettai, meccanicamente. Sapeva un po’ di vino, con una punta di sale.
«Cos’era?» La consapevolezza di avere ingerito una sostanza ignota, offerta da uno sconosciuto, mi riscosse dal torpore.
«Glamour distillato,» rispose Rosso. «Non possiamo permetterci che parli di noi là fuori, ti pare?»
Il panico mi strinse le viscere. «Come mai?,» mi sentii chiedere, e il mio tono casuale quasi mi fece ridere.
«Streghe, ovvio». Mi aveva coperto il taglio con un cerotto.
«Ovvio».
«Sai quante vorrebbero un tarantaside? O uno dei nostri fuochi fatui?»
«Quelli che…» Cercai di ricordare. Capire qualcosa era cruciale, per mantenere la presa sulla realtà. «Ingannano i viaggiatori?»
«Guidano gli spiriti, vivi o morti - a volte nel posto giusto, a volte no. Se dietro c’è una strega, il più delle volte no». Rosso sospirò e mi diede le spalle per raccogliere la scatola del tarantaside. «Seguimi».
«Cosa?»
«Devo portarlo in gabbia,» Le maniche della felpa gli si erano sollevate: tatuaggi della stessa tonalità lucente del glamour gli circondavano i polsi, come bracciali. «Tanto vale che te li mostri».
Lo seguii.
I nomi delle cose
Rosso mi guidò in una sala circolare, con grandi tavoli e scaffali ovunque.
Anche qui c’erano giornali e scatole, più ciotole piene di pastoni colorati e un frigorifero, ma le gabbie erano le protagoniste assolute: trasportini, acquari, terrari. Alcuni erano coperti da scampoli di tessuto, altri circondati da simboli tracciati nel sale.
«Somigliano a quelli sui tuoi polsi,» osservai. Lui quasi perse la presa sulla scatola.
«Immagino,» borbottò.
Aprii la bocca per scusarmi, ma esalai in silenzio, notando le creature dentro le gabbie.
Le più capienti ospitavano larve umide e luminescenti, grandi quanto bambini, da cui emergevano volti e mani umane - o costole, o unghie. Avevano grandi occhi spalancati, tutti fissi su di me. Sulle etichette lessi lemuri.
«Non avvicinarti,» mi ammonì Rosso, «ti consumano».
Un’anguilla nuotava in tondo in una bacinella. Se rasentava una parete, l’ombra di due mani ci si appoggiava per riprendere il corso.
«La quarantena è là, oltre il Posto Buio.».
Non suonava rassicurante, ma l’idea di allontanarmi dai “lemuri” non mi dispiaceva.
Il Posto Buio era un corridoio stretto, senza finestre. Rosso mi disse di sbrigarmi e richiuse la porta alle mie spalle, gettandoci nella tenebra.
«Sono qui intorno, nelle gabbie. I fuochi».
«Che fanno?» I miei occhi si stavano abituando al buio, ma i colori erano ancora strani.
«Riposano. Sognano. Si preparano a ripartire. E se si sono un po’ persi lungo la via…» Fece una pausa. «Hanno gli altri a guidarli».
Aprii la bocca. Non erano i miei occhi a essersi abituati all’oscurità.
Una dozzina di fiamme si stavano accendendo, mobili e tremanti come quella che avevo visto al tramonto. Erano brune come i miei occhi, rosse come la felpa di Malpighi, nere come i suoi capelli.
Dovetti socchiudere gli occhi.
Malpighi mi trascinò fuori dal corridoio, in una stanzetta stipata di armadietti e, ancora, gabbie.
«Prendine una grande». Estrasse il tarantaside dalla scatola.
Recuperai un terrario vuoto, col fondo già foderato di quotidiani, ma quando glielo porsi Rosso aveva le sopracciglia alzate e la bocca storta da una smorfia.
«Stai morendo?,» mi chiese. «Divorziando?»
«Non… Credo?» Volevo fare una battuta, ma ero appena uscita da un corridoio pieno di fuochi fatui. Era difficile essere sicura di qualcosa.
«Tarànto era un drago che infestava il lodigiano,» spiegò Rosso, «tanto maligno da diffondere una pestilenza tutta sua. La specie prende il nome da lui. Apri». Lo feci, ma mi ritrassi quando il rettile mi sfiorò. «Tranquilla. Quello era nato dal cadavere di un generale; questo, direi, da una piccola morte. C’è una differenza di scala, ma entrambi si nutrono degli umori rilasciati da emozioni e intenti forti. O, sai, incantesimi. Per questo gli stregoni li adorano: un tarantaside nasconde la tua volontà in un pasto, e lascia lo spazio spirituale più pulito della casa di un brownie grasso». Notò la mia confusione e aggiunse: «È un folletto, se gli dai da mangiare ti aiuta in… Non importa. Il punto è: in assenza di magia forte, tragedie o crisi, ci mette mesi a mangiare abbastanza da, sai, defecare».
«Quindi, mi hai chiesto se stavo morendo perché…»
«Perché qui, tesoro, c’è una cacca gigante».
Rilascio
Silvana indicò i simboli sui polsi di Rosso: «Sono manette».
«Non sono un volontario in un centro per mostri,» confermò lui. «Sono un mostro, costretto a fare il volontario».
Lei sbuffò: «Esagera. È un mazapégul, un folletto seduttore. È andato troppo oltre e l’abbiamo accolto qui perché possa espiare le sue colpe».
«Servizi socialmente utili,» cercai di interpretare.
«Brava! Niente di più, niente di meno. Capisci cosa cerco di dirti?»
Annuii.
Passò un secondo.
Scossi la testa.
«Dico che, se eri qui per rapire una creatura o rubare un po’ di glamour, confessare è la scelta migliore. Non ne saremo entusiasti, ma non ti bruceremo neanche su un palo».
«Non sono una strega». Lo volevo urlare, ma nella mia voce c’era più incredulità che rabbia. Una collezionista di creature magiche coi capelli verdi e un presunto folletto facevano di tutto per assicurarmi che non mi avrebbero arsa sul rogo, ed ero esausta.
«Voglio crederti,» disse Silvana, pensosa. «Ma come ti è finita addosso tanta energia da saziare una viverna umorale? Sono quantità da famiglio, quelle». Famiglio. Come i gatti delle streghe. «Quando ci hai chiamati, mi è parso strano che avessi notato un tarantaside, ma capita».
«Non vi ho chiamati io».
«Come? No, certo, abbiamo la radio. Ce l’ha sistemata uno stregone di Reggio per evitarsi una multa, rileva ritrovamenti come il tuo. Vi diciamo che ci chiamate, in realtà vi individua lei».
La verità mi colpì dritta in faccia, ovvia e nauseante. Non dissi nulla.
«Non c’è altra scelta, vero?» Rosso trasse un lungo sospiro.
La donna annuì con espressione grave, quindi si rivolse a me: «Puoi andare».
«Cosa?»
Allargò le braccia: «Se avessi lanciato incantesimi qui dentro, i sensori l’avrebbero rilevato. Sono vecchi, ma funzionano. Il tarantaside non è stregato, tu emani l’aura magica di una ciabatta - potrebbe averla ripulita la bestiola, ma ti abbiamo tenuta qui abbastanza a lungo da generarne altra. Devo supporre che tu fossi nelle vicinanze di un incantesimo per sbaglio, e lasciarti andare. Se non torni qui, il glamour ti ripulirà la memoria in una mezz’ora. Siamo un centro di recupero con poche risorse e ancora meno volontari, non una forza armata. Non possiamo che affidarci alla tua onestà».
Apriti sesamo
Uscii sola, sotto la pioggia.
Silvana mi avrebbe raggiunta in un paio di minuti con la macchina.
Presi il telefono e composi il numero di Alessia.
«Pensavo che avrei dovuto chiamarti io,» disse.
«Nessuno ha telefonato al centro. Sono stati allertati dalla loro radiolina magica. E il glamour; il sapore del glamour distillato… Era l’ingrediente segreto del tuo sugo, vero?»
«La mia versione, ma sì - magia liquida, q.b.».
«Per controllarmi».
«Per…» La sua voce s’indurì: «Non ha importanza. Hai il tuo specchietto per il trucco in borsa, no?»
Sospirai. «Certo. Ce l’hai messo tu».
«Ottimo. Tiralo fuori! Ricordi il sigillo sullo specchio con cui avete aperto la prima volta, vero? Se non ho scazzato il sugo, dovresti averci fatto caso».
Estrassi dalla borsa il mio specchietto e lo aprii.
Non mi sorprese che dentro, al posto della mia stupida faccia, ci fosse il sorriso malizioso di Alessia.
«Non è una porta a specchio. Lo specchio è la porta».
«Non essere sciocca. Ogni specchio è una porta. Ora sbrigati! Traccia il sigillo sulla superficie e puntami verso l’accesso. Voglio verificare se posso entrare ogni volta che...»
«No».
«Prego?»
«Non so se il tuo sugo magico possa forzarmi, ma non voglio rapinare un canile magico. Trova un altro modo per pulirti l’aura».
«Non volevo ripulire me». Incrociò le braccia. «Vivere con una strega ti lascia addosso dei residui. Rischiavi che qualcuno ti attaccasse per arrivare a me. Non volevo che accadesse».
«Oh. Potevi… Mandarmi via, no?»
«Potevo. Non volevo».
«Oh». Stavolta non abbassai lo sguardo, e fui certa che anche Alessia era arrossita «Ma avevi già un tarantaside. Mi ci hai condotta tu».
«E l’avrei portato all’indigestione in un mese. Qui me lo curano loro, e ne trovano altri regolarmente».
«Beh, questo posto non è la tua miniera, Alessia!» Ero così furiosa che sentii appena la frenata. «Non dovresti rapinarlo, dovresti, che ne so, fargli una donazione!»
«Ben detto!» Silvana s’impadronì dello specchietto e prese a disegnarci sopra col dito, mentre Rosso mi immobilizzava.
«Smettila!,» protestai. «Lasciala stare! E toglimi di dosso il molestatore magico!»
«Folletto seduttore. Non ho mai molestato nessuno, io».
Mi liberai con uno strattone; lui si mise tra me e Silvana. Gli indicai i suoi polsi: «E quelli, allora?»
«Un’amica doveva liberarsi di un ex insistente. Gli ho fatto, ah, un dispetto».
«L’hai… Ucciso?»
«Starà benissimo, una volta uscito dall’ospedale. E da Bangkok. Il punto è: ne so qualcosa di relazioni tossiche. Se tu e Maleficent, lì, volete portare avanti questa cosa, vi servirà più onestà. Pretendila».
Mi sentii avvampare le guance, e mi voltai. Alessia era ancora riflessa nello specchio, ma sospesa, adesso, in un limbo buio. Imprigionata.
«E ora?,» chiese, seccata.
«Ora,» rispose Silvana, «veniamo a prenderti».
L’involontaria
Avevo dovuto aspettare due ore, in mezzo a una folla di matricole come me, per cinque minuti di ricevimento con il professor Crani. Un’agonia - ma avevo resistito: stavo migliorando.
Raggiunsi il centro di corsa.
Alessia mi aprì la porta a specchi prima che potessi bussare. Tatuaggi luccicanti coprivano i suoi polsi sottili, per impedirle di nutrire il tarantaside oltremisura. O rubare scorte di glamour. O lanciare incantesimi.
«Ed ecco la piccola traditrice,» sbuffò.
Avrei potuto correggerla o ribattere, ma risposi con un sorriso. Intanto sei venuta in anticipo per aspettarmi.
Alle sue spalle, dietro la scrivania, riposava un enorme rettile alato, verde acceso, con la testa percorsa da una lunga cresta.
«Aspetta - quello è il mio tarantaside?»
«Oh, no. Lei, a occhio, è qui da prima. Dai, vieni».
Entrai e guardai Alessia che chiudeva la porta. C’era qualcosa di aggraziato nella sua svogliatezza esasperata.
«Finalmente ci siete entrambe!» La voce di Silvana mi fece sobbalzare. Mi aspettava alla scrivania. Della viverna, nessuna traccia. «Rosso!,» chiamò.
Mi voltai verso Alessia, che si strinse nelle spalle. Nessuno meglio di un mostro per curare mostri, immagino.
«Sono felice che siamo tutti entusiasti di fare del bene» Rosso entrò portando guanti in lattice per tutti e una pila di quotidiani. «Oggi pulirete le gabbie». Ci rivolse un sorriso tremendo: «Non dovrete più chiedervi se i lemuri vanno di corpo. La risposta è: troppo».
Ridacchiai. Alessia mi lanciò un’occhiataccia, ma sorrideva anche lei.
Il pomeriggio prometteva bene.
Fu la luce ad attrarmi per prima.
Ero uscita a consegnare una pila di moduli e ricevute in segreteria studenti. Per tornare avevo preso il giro lungo.
Lo facevo sempre, dopo le interazioni con gli sconosciuti. In più, Alessia mi aveva scritto di non avere ancora ottenuto tutti i testi per la tesi. Marciava in tondo per ore quando era nervosa, come un cattivo dei cartoni animati, e il nostro non era un appartamento grande. Meglio darle spazio.
I mattoni rossi del centro lasciarono il posto all’intonaco scrostato della periferia. Agli scorci delle corti interne si erano sostituiti parchetti e cortili asfaltati. Mi resi conto di aver superato il mio appartamento, ma avevo ancora voglia di camminare.
I condomini divennero capannoni. Superai un bar e un’autofficina, svoltai l’angolo e mi trovai a costeggiare una pista ciclabile tra case con giardino, viali alberati e prati.
Ancora qualche minuto e mi sarei lasciata alle spalle la città.
Solo allora alzai lo sguardo: il cielo si era fatto blu scuro, striato di rosa o di viola dietro i colli. Ero talmente assorta da non aver notato il tramonto. Non mi succedeva da quando ero bambina.
Forse era meglio rientrare. Il silenzio intorno a me aveva una nota inquietante, di non-vita.
In quel momento la vidi: baluginante, rossa e arancione come un secondo tramonto in miniatura. Una fiamma, che compariva e scompariva appena dietro una panchina alla mia destra.
Pensavo: Dovrei chiamare qualcuno.
I pompieri.
Forse è un principio d’incendio.
Pensavo e pensavo, un passo dopo l’altro, sempre più vicina.
Si muove? Una scarica di freddo mi risalì le viscere, fino alla schiena. Mi strofinai le palpebre con le maniche della felpa e guardai meglio.
Il sole era appena visibile ormai, e anche lei si era raffreddata: aveva assunto sfumature di azzurro e di grigio. E si era allontanata.
La seguii.
Si fermò all’angolo della strada, di fianco a una quercia. Qualcuno aveva legato fiori e biglietti alla base del tronco, dopo chissà quale incidente. Posai una mano sulla corteccia coperta di muschio. Umido. Anche i miei capelli si stavano bagnando: una pioggia leggera aveva iniziato a cadere. Appena me ne accorsi, la fiamma si estinse.
«No!» Non c’era un filo di fumo. Abbassai lo sguardo, in cerca di cenere o di una fonte di luce.
Invece, trovai una lucertola.
La lucertola impossibile
«Fammi capire». Alessia scolò la pasta nel lavandino, perdendone mezzo piatto e rischiando di scottarsi. Viveva in appartamento da anni, al contrario di me. Non avevo idea di come fosse sopravvissuta così a lungo. «Hai visto un riflesso strano».
«Circa,» risposi, accoccolata sul divano con il mio fagotto di asciugamani calde.
«Ti sei strofinata gli occhi, il riflesso si è spostato. I colori dell’ambiente sono cambiati, il riflesso anche. Corretto?»
«Non lo chiamerei riflesso».
«E hai trovato una lucertola».
«Cinico, per una storica delle religioni».
«Dai!». Versò le farfalle in una padella che odorava di soffritto, pomodoro e, appena, di vino. «La tua esperienza sovrannaturale di suggestione è al cento percento valida, va bene?»
Sbuffai.
«Vuoi la pasta o no? Ho fatto io il sugo, altro che schifo pronto».
«Solo perché è il tuo».
«Fammi posto». Lasciò la mia cena sul tavolino insieme a una forchetta. Lei mi si sistemò accanto, per truccarsi di fronte a uno specchio da borsetta. Il mio specchio. Teneva i trucchi in mezza bottiglia di plastica, tagliata in orizzontale per farne un barattolo.
«Esci?»
«Ho un impegno, dopo cena».
«Ti ha risposto la tua associazione, per la lucertola?» Il fagotto mi tremò tra le mani, come in risposta alle mie parole.
«Non è mia, la conosco soltanto. Ma mandano qualcuno».
«Grazie».
Mi rispose con una spallata, ma rimbalzai e le finii con la fronte contro la spalla. Rise. Il rettile mi riposava addosso come un gatto.
A qualche livello sapevo che non era proprio una lucertola. Avevo visto le sue due zampe, le alucce rosate, l’estremità rigida della coda. Doveva essere una specie esotica, e tenerla in braccio doveva essere un’idea pessima.
Eppure io mangiavo scomoda, ma serena come una pianta, e lei mi ronfava tra le braccia. Mi accoccolai contro la spalla della mia coinquilina, con la sensazione sottile di far parte di un segreto.
L’assurdo ha i suoi metodi per passare inosservato.
Prima che uscissi, Alessia mi infilò lo specchietto in borsa, poi mi sistemò la borsa sulla spalla. Mi sentivo un venditore porta-a-porta americano degli anni Cinquanta: io ero in partenza per un lungo viaggio sulla costa Ovest, e lei era mia…
Abbassai lo sguardo. Era arrossita anche lei, o solo io?
Il posto riflesso
Pioveva a dirotto quando arrivammo al centro. Il volontario, un ragazzo imbacuccato in un felpone bordeaux con cappuccio, si era presentato come Rosso Malpighi. Mi aveva dato uno scatolone per l’animale e aveva guidato con la prudenza di un pilota ubriaco.
La porta a specchio era una ragnatela di crepe profonde. Non riuscivo nemmeno a vedere la maniglia. Neanche il ragazzo, evidentemente: prese il telefono dalla tasca e puntò la torcia sulla porta. Dalla cover pendeva un ciondolo di metallo decorato con un motivo astratto, tanto lucido da riflettere la mia immagine. Dovette trovare la maniglia, perché aprì con una spinta e mi invitò a seguirlo.
Dentro era tutto buio: il mio mondo si ridusse ai passi di Rosso, al tintinnio della porta che si chiudeva alle nostre spalle e a un suono ritmico dal fondo dell’ufficio, come di un trattore che cerca di accendersi.
«L’avrei portata da solo, ma conosco la specie. Se ti si è affezionata, facciamo prima a portarvi in due che a separarvi in casa. Se si fissano con qualcosa, non le stacchi più». Accese la luce; mi coprii gli occhi per non restare abbagliata. «Sei stata gentile a venire».
«È il minimo». Non sapevo mai come rispondere ai complimenti.
Eravamo in un ufficio, con una vecchia scrivania e scaffalature di alluminio contro tutte le pareti. Quasi ogni centimetro di spazio era occupato da quotidiani ripiegati, scatole di cartone e raccoglitori gonfi di fogli. Sulla scrivania c’era una vecchia radio con l’antenna estesa a metà, che pareva uscita dagli anni Novanta.
«No, ragazza mia!» Una donna sulla quarantina emerse da sotto la scrivania. In una mano teneva un barattolo, nell’altra un fagotto di stracci. «Proprio non è il minimo». Aveva i capelli tinti di verde, sparati in aria come una fiamma. Mi ricordò la mia fiammella. Mi era sfuggita di mente, finora.
La donna passò il fagotto a Rosso - Si è mosso? C’è un animale dentro? - e mi tese la mano.
«Sono Silvana. Il taranta ti ha morso?»
«Peggio,» replicò il volontario. «Si è affezionato».
«Ahi!» Silvana, ancora sorridente, posò il barattolo. Dentro luccicava un liquido viola.
Mi invitò a consegnarle il rettile, accoccolato nel suo scatolone. Obbedii.
«Taranta?,» domandai.
«Tarantaside. Una viverna umorale».
Una viverna era una specie di drago, se ricordavo bene: la bestiola aveva un nome fantasy, come il Drago di Komodo. Forse era altrettanto esotica. Gorgogliò e allungò il muso affilato verso Silvana, curiosa. Lei gli grattò il mento.
«Nome e cognome? Scusami, sai, dobbiamo fare il terzo grado a tutti».
Risposi alle sue domande e feci il resoconto del ritrovamento, ma omisi la mia lucina. Raccontai della creatura tremante di freddo, di come l’avevo tenuta con me.
«Ho chiamato ed eccomi qua,» conclusi.
«Benissimo! Puoi quasi andare. Rosso ti… Cioè, io ti accompagnerò a casa. All’andata eravamo incasinati, ma ora posso lasciargli il fortino». Lui sollevò un sopracciglio.
Non vedevo l’ora di infilarmi sotto le coperte a leggere, eppure andarmene mi lasciava un retrogusto amaro in bocca. Non avevo voglia di abbandonare il tarantaside.
Mi costrinsi a pensare che loro erano esperti, io no. Se ne sarebbero presi cura meglio di me. Era stata un’avventura, ma era finita, e neanche male.
Fu allora che la fata mi pugnaló nello stinco.
Oltre l’ufficio
Aveva proporzioni umanoidi, ma non era più alta di un mio dito indice. Brandiva un pezzo di stuzzicadenti affilato.
Mi aveva trafitto la caviglia in corsa ed era schizzata verso l’uscita.
Rosso si precipitò ad aiutarmi; Silvana ci superò in un movimento fluido.
La creatura si arrampicò su una pila di giornali; dalla cima spiccò un balzo verso uno scaffale vicino, e la porta.
Un guanto lacero da meccanico la intercettò a mezz’aria. Silvana esultò, aggiustò la presa e sparì oltre la porta laterale dell’ufficio.
Seguirono due scatti metallici e un fruscio: una gabbia aperta, richiusa e coperta.
«Quanta fretta! Un giorno d’osservazione e tornate in discarica, Cru-cru. Ah!,» esclamò poi, «la ragazza sa bene?»
«Niente di rotto!» Rosso aveva radunato disinfettante, cotone e cerotti. Mi sorrise: «Ora ci pensa. Quando si tratta dei suoi mostriciattoli, è una monomaniaca».
Il taglio pulsava: mi chiesi se rischiasse d’infettarsi. Cercai di pensare solo a quello. L’enorme massa nera dell’assurditá a cui avevo assistito riposava da qualche parte, in fondo alla mia mente, pronta a paralizzarmi del tutto.
L’avrei affrontata.
Dopo.
Mi lasciai medicare.
Rosso mi offrì un cucchiaino di liquido viola dal barattolo sulla scrivania; accettai, meccanicamente. Sapeva un po’ di vino, con una punta di sale.
«Cos’era?» La consapevolezza di avere ingerito una sostanza ignota, offerta da uno sconosciuto, mi riscosse dal torpore.
«Glamour distillato,» rispose Rosso. «Non possiamo permetterci che parli di noi là fuori, ti pare?»
Il panico mi strinse le viscere. «Come mai?,» mi sentii chiedere, e il mio tono casuale quasi mi fece ridere.
«Streghe, ovvio». Mi aveva coperto il taglio con un cerotto.
«Ovvio».
«Sai quante vorrebbero un tarantaside? O uno dei nostri fuochi fatui?»
«Quelli che…» Cercai di ricordare. Capire qualcosa era cruciale, per mantenere la presa sulla realtà. «Ingannano i viaggiatori?»
«Guidano gli spiriti, vivi o morti - a volte nel posto giusto, a volte no. Se dietro c’è una strega, il più delle volte no». Rosso sospirò e mi diede le spalle per raccogliere la scatola del tarantaside. «Seguimi».
«Cosa?»
«Devo portarlo in gabbia,» Le maniche della felpa gli si erano sollevate: tatuaggi della stessa tonalità lucente del glamour gli circondavano i polsi, come bracciali. «Tanto vale che te li mostri».
Lo seguii.
I nomi delle cose
Rosso mi guidò in una sala circolare, con grandi tavoli e scaffali ovunque.
Anche qui c’erano giornali e scatole, più ciotole piene di pastoni colorati e un frigorifero, ma le gabbie erano le protagoniste assolute: trasportini, acquari, terrari. Alcuni erano coperti da scampoli di tessuto, altri circondati da simboli tracciati nel sale.
«Somigliano a quelli sui tuoi polsi,» osservai. Lui quasi perse la presa sulla scatola.
«Immagino,» borbottò.
Aprii la bocca per scusarmi, ma esalai in silenzio, notando le creature dentro le gabbie.
Le più capienti ospitavano larve umide e luminescenti, grandi quanto bambini, da cui emergevano volti e mani umane - o costole, o unghie. Avevano grandi occhi spalancati, tutti fissi su di me. Sulle etichette lessi lemuri.
«Non avvicinarti,» mi ammonì Rosso, «ti consumano».
Un’anguilla nuotava in tondo in una bacinella. Se rasentava una parete, l’ombra di due mani ci si appoggiava per riprendere il corso.
«La quarantena è là, oltre il Posto Buio.».
Non suonava rassicurante, ma l’idea di allontanarmi dai “lemuri” non mi dispiaceva.
Il Posto Buio era un corridoio stretto, senza finestre. Rosso mi disse di sbrigarmi e richiuse la porta alle mie spalle, gettandoci nella tenebra.
«Sono qui intorno, nelle gabbie. I fuochi».
«Che fanno?» I miei occhi si stavano abituando al buio, ma i colori erano ancora strani.
«Riposano. Sognano. Si preparano a ripartire. E se si sono un po’ persi lungo la via…» Fece una pausa. «Hanno gli altri a guidarli».
Aprii la bocca. Non erano i miei occhi a essersi abituati all’oscurità.
Una dozzina di fiamme si stavano accendendo, mobili e tremanti come quella che avevo visto al tramonto. Erano brune come i miei occhi, rosse come la felpa di Malpighi, nere come i suoi capelli.
Dovetti socchiudere gli occhi.
Malpighi mi trascinò fuori dal corridoio, in una stanzetta stipata di armadietti e, ancora, gabbie.
«Prendine una grande». Estrasse il tarantaside dalla scatola.
Recuperai un terrario vuoto, col fondo già foderato di quotidiani, ma quando glielo porsi Rosso aveva le sopracciglia alzate e la bocca storta da una smorfia.
«Stai morendo?,» mi chiese. «Divorziando?»
«Non… Credo?» Volevo fare una battuta, ma ero appena uscita da un corridoio pieno di fuochi fatui. Era difficile essere sicura di qualcosa.
«Tarànto era un drago che infestava il lodigiano,» spiegò Rosso, «tanto maligno da diffondere una pestilenza tutta sua. La specie prende il nome da lui. Apri». Lo feci, ma mi ritrassi quando il rettile mi sfiorò. «Tranquilla. Quello era nato dal cadavere di un generale; questo, direi, da una piccola morte. C’è una differenza di scala, ma entrambi si nutrono degli umori rilasciati da emozioni e intenti forti. O, sai, incantesimi. Per questo gli stregoni li adorano: un tarantaside nasconde la tua volontà in un pasto, e lascia lo spazio spirituale più pulito della casa di un brownie grasso». Notò la mia confusione e aggiunse: «È un folletto, se gli dai da mangiare ti aiuta in… Non importa. Il punto è: in assenza di magia forte, tragedie o crisi, ci mette mesi a mangiare abbastanza da, sai, defecare».
«Quindi, mi hai chiesto se stavo morendo perché…»
«Perché qui, tesoro, c’è una cacca gigante».
Rilascio
Silvana indicò i simboli sui polsi di Rosso: «Sono manette».
«Non sono un volontario in un centro per mostri,» confermò lui. «Sono un mostro, costretto a fare il volontario».
Lei sbuffò: «Esagera. È un mazapégul, un folletto seduttore. È andato troppo oltre e l’abbiamo accolto qui perché possa espiare le sue colpe».
«Servizi socialmente utili,» cercai di interpretare.
«Brava! Niente di più, niente di meno. Capisci cosa cerco di dirti?»
Annuii.
Passò un secondo.
Scossi la testa.
«Dico che, se eri qui per rapire una creatura o rubare un po’ di glamour, confessare è la scelta migliore. Non ne saremo entusiasti, ma non ti bruceremo neanche su un palo».
«Non sono una strega». Lo volevo urlare, ma nella mia voce c’era più incredulità che rabbia. Una collezionista di creature magiche coi capelli verdi e un presunto folletto facevano di tutto per assicurarmi che non mi avrebbero arsa sul rogo, ed ero esausta.
«Voglio crederti,» disse Silvana, pensosa. «Ma come ti è finita addosso tanta energia da saziare una viverna umorale? Sono quantità da famiglio, quelle». Famiglio. Come i gatti delle streghe. «Quando ci hai chiamati, mi è parso strano che avessi notato un tarantaside, ma capita».
«Non vi ho chiamati io».
«Come? No, certo, abbiamo la radio. Ce l’ha sistemata uno stregone di Reggio per evitarsi una multa, rileva ritrovamenti come il tuo. Vi diciamo che ci chiamate, in realtà vi individua lei».
La verità mi colpì dritta in faccia, ovvia e nauseante. Non dissi nulla.
«Non c’è altra scelta, vero?» Rosso trasse un lungo sospiro.
La donna annuì con espressione grave, quindi si rivolse a me: «Puoi andare».
«Cosa?»
Allargò le braccia: «Se avessi lanciato incantesimi qui dentro, i sensori l’avrebbero rilevato. Sono vecchi, ma funzionano. Il tarantaside non è stregato, tu emani l’aura magica di una ciabatta - potrebbe averla ripulita la bestiola, ma ti abbiamo tenuta qui abbastanza a lungo da generarne altra. Devo supporre che tu fossi nelle vicinanze di un incantesimo per sbaglio, e lasciarti andare. Se non torni qui, il glamour ti ripulirà la memoria in una mezz’ora. Siamo un centro di recupero con poche risorse e ancora meno volontari, non una forza armata. Non possiamo che affidarci alla tua onestà».
Apriti sesamo
Uscii sola, sotto la pioggia.
Silvana mi avrebbe raggiunta in un paio di minuti con la macchina.
Presi il telefono e composi il numero di Alessia.
«Pensavo che avrei dovuto chiamarti io,» disse.
«Nessuno ha telefonato al centro. Sono stati allertati dalla loro radiolina magica. E il glamour; il sapore del glamour distillato… Era l’ingrediente segreto del tuo sugo, vero?»
«La mia versione, ma sì - magia liquida, q.b.».
«Per controllarmi».
«Per…» La sua voce s’indurì: «Non ha importanza. Hai il tuo specchietto per il trucco in borsa, no?»
Sospirai. «Certo. Ce l’hai messo tu».
«Ottimo. Tiralo fuori! Ricordi il sigillo sullo specchio con cui avete aperto la prima volta, vero? Se non ho scazzato il sugo, dovresti averci fatto caso».
Estrassi dalla borsa il mio specchietto e lo aprii.
Non mi sorprese che dentro, al posto della mia stupida faccia, ci fosse il sorriso malizioso di Alessia.
«Non è una porta a specchio. Lo specchio è la porta».
«Non essere sciocca. Ogni specchio è una porta. Ora sbrigati! Traccia il sigillo sulla superficie e puntami verso l’accesso. Voglio verificare se posso entrare ogni volta che...»
«No».
«Prego?»
«Non so se il tuo sugo magico possa forzarmi, ma non voglio rapinare un canile magico. Trova un altro modo per pulirti l’aura».
«Non volevo ripulire me». Incrociò le braccia. «Vivere con una strega ti lascia addosso dei residui. Rischiavi che qualcuno ti attaccasse per arrivare a me. Non volevo che accadesse».
«Oh. Potevi… Mandarmi via, no?»
«Potevo. Non volevo».
«Oh». Stavolta non abbassai lo sguardo, e fui certa che anche Alessia era arrossita «Ma avevi già un tarantaside. Mi ci hai condotta tu».
«E l’avrei portato all’indigestione in un mese. Qui me lo curano loro, e ne trovano altri regolarmente».
«Beh, questo posto non è la tua miniera, Alessia!» Ero così furiosa che sentii appena la frenata. «Non dovresti rapinarlo, dovresti, che ne so, fargli una donazione!»
«Ben detto!» Silvana s’impadronì dello specchietto e prese a disegnarci sopra col dito, mentre Rosso mi immobilizzava.
«Smettila!,» protestai. «Lasciala stare! E toglimi di dosso il molestatore magico!»
«Folletto seduttore. Non ho mai molestato nessuno, io».
Mi liberai con uno strattone; lui si mise tra me e Silvana. Gli indicai i suoi polsi: «E quelli, allora?»
«Un’amica doveva liberarsi di un ex insistente. Gli ho fatto, ah, un dispetto».
«L’hai… Ucciso?»
«Starà benissimo, una volta uscito dall’ospedale. E da Bangkok. Il punto è: ne so qualcosa di relazioni tossiche. Se tu e Maleficent, lì, volete portare avanti questa cosa, vi servirà più onestà. Pretendila».
Mi sentii avvampare le guance, e mi voltai. Alessia era ancora riflessa nello specchio, ma sospesa, adesso, in un limbo buio. Imprigionata.
«E ora?,» chiese, seccata.
«Ora,» rispose Silvana, «veniamo a prenderti».
L’involontaria
Avevo dovuto aspettare due ore, in mezzo a una folla di matricole come me, per cinque minuti di ricevimento con il professor Crani. Un’agonia - ma avevo resistito: stavo migliorando.
Raggiunsi il centro di corsa.
Alessia mi aprì la porta a specchi prima che potessi bussare. Tatuaggi luccicanti coprivano i suoi polsi sottili, per impedirle di nutrire il tarantaside oltremisura. O rubare scorte di glamour. O lanciare incantesimi.
«Ed ecco la piccola traditrice,» sbuffò.
Avrei potuto correggerla o ribattere, ma risposi con un sorriso. Intanto sei venuta in anticipo per aspettarmi.
Alle sue spalle, dietro la scrivania, riposava un enorme rettile alato, verde acceso, con la testa percorsa da una lunga cresta.
«Aspetta - quello è il mio tarantaside?»
«Oh, no. Lei, a occhio, è qui da prima. Dai, vieni».
Entrai e guardai Alessia che chiudeva la porta. C’era qualcosa di aggraziato nella sua svogliatezza esasperata.
«Finalmente ci siete entrambe!» La voce di Silvana mi fece sobbalzare. Mi aspettava alla scrivania. Della viverna, nessuna traccia. «Rosso!,» chiamò.
Mi voltai verso Alessia, che si strinse nelle spalle. Nessuno meglio di un mostro per curare mostri, immagino.
«Sono felice che siamo tutti entusiasti di fare del bene» Rosso entrò portando guanti in lattice per tutti e una pila di quotidiani. «Oggi pulirete le gabbie». Ci rivolse un sorriso tremendo: «Non dovrete più chiedervi se i lemuri vanno di corpo. La risposta è: troppo».
Ridacchiai. Alessia mi lanciò un’occhiataccia, ma sorrideva anche lei.
Il pomeriggio prometteva bene.