Per tutto il tempo che serve
Inviato: martedì 2 marzo 2021, 18:52
PER TUTTO IL TEMPO CHE SERVE
(Sara Rosini)
Sono come un dente cariato. Avevo un buco grosso così, eppure non sentivo niente. C’è voluto il dolore per capire. Ma ora che fa male, e solo finché farà male, posso essere salvato.
Tutto è cominciato la prima volta che ho visto tua moglie. Era ferma davanti alla vetrina del mio ufficio, non trovava il coraggio di entrare. E anche quando l’ha fatto, se n’è rimasta distante, in piedi.
Ho paura che Emanuel mi tradisca, ha detto, lo sguardo basso, una mano che cercava di riportare dietro l’orecchio una ciocca che non c’era. Certe donne fanno così, quando qualcuno fa loro del male, quelle se la prendono coi propri capelli. E più fa male, più tagliano. Quel giorno, rintanata in una tuta d’un paio di misure in più, occhi grandi da inciamparci e mani che non smettevano di cercare qualcosa cui aggrapparsi, tua moglie mi è sembrata un ragazzino che si era perso. C’è voluto un po’ prima che accettasse di sedersi, e anche quando l’ha fatto, sembrava che stesse lì lì per scivolare via. Mi ha mostrato, senza guardarle, alcune tue foto, mi ha dettato i tuoi orari, mi ha pagato in anticipo due intere settimane di marcatura stretta. Un pedinamento di routine, un gioco da ragazzi.
È il primo a cui lo dico, ha sussurrato mentre l’accompagnavo alla porta, grazie, e mi ha abbracciato stretto, una forza inaspettata.
La prima volta che ho incontrato tua moglie, caro Emanuel, non sapevo che sarebbe stata anche l’ultima. Abbiamo parlato per meno di un’ora eppure adesso, a distanza di un mese – o forse di più, ho perso il conto – il ricordo che ho di lei è più vivido di quello che mi è rimasto di me stesso. Come se si trattasse di qualcun altro, qualcuno che nemmeno conoscevo bene, ripenso alle mie giornate come alla masticazione distratta di un pasto freddo, poco gustoso, preparato sempre con gli stessi ingredienti. Come un dente che si credeva sano, mordevo tutto senza sentire né dolore né conforto.
Ora invece, quando mi ricordo di mangiare, tutto potrebbe fare un male cane. Per questo, quel poco che ho ancora il coraggio di mordere è d’un tratto così gustoso. Ed è tanto più assurdo ora che la mia vita si svolge nella desolata periferia della tua. È da lì, dal buio dell’angolo meno interessante della tua visuale, dal freddo dell’estremità meno confortevole della stanza, dalla spazzatura che si accumula nella mia macchina, dove mangio e dormo di fronte a casa vostra, è da lì che ho scoperto chi sei. Ed è lì, al buio, al freddo, tra le macerie che vado ammassando ai bordi della tua vita, che ho cominciato a capire chi sono io.
Tra te e me non è più una marcatura stretta, è un corpo a corpo.
Se dovessi descrivere a qualcuno, caro Emanuel, il tuo ripresentarti al mondo ogni mattina, mi ritroverei ad affastellare una sequela di gesti tecnici come un commentatore televisivo di tuffi olimpionici. È che la tua pratica, ormai, rasenta la perfezione. Come ti concentri allo specchio per cancellare la disperazione, la scrupolosità con cui ti nascondi sotto strati di abiti che non ti si adattano che metricamente, la mollezza nel bacetto a tua moglie e, di fuori, la vaporosità della battuta sul fantacalcio col vicino.
E poi, inevitabile, ogni mattina, il tuo capolavoro: l’ingresso tra la folla alla fermata dell’autobus. Asciutto, indolore, un’entrata in acqua senza schizzi. Nessuna increspatura, nessuna reazione uguale e contraria; solo lo sforzo silenzioso di essere goccia d’acqua tra gocce d’acqua. La tua perfezione rasenta la bellezza. Nondimeno, malgrado lo splendido gesto tecnico, rimani un uomo sott’acqua, un essere obbligato a un ambiente in cui non può sopravvivere.
E io, unico spettatore a conoscere la magnificenza del tuo sforzo, non perdo una replica. Non smettere, non ancora. Io credo in te, so che puoi continuare per tutto il tempo che serve.
Poi arriva l’autobus e tu riemergi tra la folla alla fermata. Una boccata d’aria svelta mentre controlli sul vetro della porta spalancata che gli occhiali non ti si siano appannati nell’impatto, e sei già seduto tra gli altri. Mi siedo dietro di te e non eravamo mai stati così vicini. Anch’io, adesso, sono una goccia d’acqua. Nuotiamo nello stesso acquario la cui superficie ora si adatta al nuovo contenitore, si acquieta, s’inclina leggermente e poi parte, ondeggia all’unisono a ogni curva, s’increspa e rimescola a ogni fermata.
Ti osservo da dietro, percorro la sfera chiara della testa, mi poggio sulle spalle da nuotatore, scivolo tra i lembi del cappotto grigio, morbido quasi da commuovermi, mi aggrappo alla curva della gamba che affiora, caparbia, dalle rette dei pantaloni, cammino sul disegno delle calze fin dentro le scarpe lucide.
Sono l’unico a sapere quanta fatica ti richieda essere trasparente. Sono l’unico a vederti.
Intanto due maschi fertili, aggrappati al palo vicino all’uscita, commentano la procace biondina seduta qualche fila più avanti, si sbavano addosso, sorridono intorno in cerca di sodali. Lo so che percepisci la turbolenza, l’imperativo sociale che ne emana. Lo vedi avvicinarsi in piccole onde concentriche che solcano la superficie dell’acquario, come un’alta marea che investe ogni maschio sul suo percorso, e che ora si allunga nella tua direzione. Quando t’investe, svelto la assecondi, ti lasci muovere e per questo ti tocca di sorridere come se comprendessi ciò che quei due, e tutti gli altri maschi intorno, provano. No, di più, come se lo provassi tu stesso. Ma io so che quello che puoi fingere, non può spingersi oltre la facciata; e così, mentre gli altri inseguono una mediocre fantasia erotica, ti immagino pensare qualcosa di assurdo, tipo cosa ne farebbe quella biondina del tuo amato fegato con cipolle. Ne verrebbe fuori un fegato e cipolle buono come quello di tua moglie? Scommetto che tu, al contrario di ciò che farebbe ogni altro uomo impegnato, stai pensando a lei. Starai ricordando quando l’hai baciata stamattina prima di uscire, la sua pelle dura come marmo nel surgelatore, così lontana dalla calda morbidezza del suo fegato sotto la forchetta. Forse starai pensando a quando gliel’hai sradicato da sotto le costole. O forse è il cuore che le hai strappato, e ora lo tieni in un sacchetto nella ventiquattrore, mentre il resto l’hai bruciato. O magari l’hai sotterrata in cantina. Dov’è tua moglie, Emanuel? Ma intanto, al ricordo di qualsiasi cosa tu abbia fatto del suo cadavere, ti concedi una piccola sbavatura alla rappresentazione di un uomo normale, giusto un’imperfezione, permettendo che le mani ti fremano appena. Ero dall’altra parte del binocolo la mattina in cui ti ho visto, completamente nudo, tremare talmente da sconquassarti. Ero lì fuori, in macchina, congelato, senza mangiare né dormire da quando, la sera prima, l’avevi tenuta con la testa sott’acqua, nella vasca. Ho sperato, l’ho sperato con tutto il cuore, che un po’ della forza con cui mi aveva stretto la salvasse. E invece non si è difesa, non ha lottato. A volte penso che se io, davanti alla porta del mio ufficio, l’avessi stretta più forte, magari tanto da nascondermela dentro, da assorbirla, forse lei, adesso… Ma chissà, forse un po’ è successo, forse una parte di lei è davvero rimasta qui dentro, da qualche parte.
Ma intanto, su quest’autobus alla deriva, la vertigine con cui ricordi il tuo potere su di lei ti costringe ad alzarti in piedi. È in quel momento che l’autobus frena e perdi l’equilibrio. Ti ritrovi carponi, le ginocchia sfrante sul ferro del pavimento, aggrappato alla coscia della biondina. Lei non dice una parola ma ti guarda come se le si fosse attaccato alla gamba un cane in calore. Poche spinte di reni, sembra pensare dall’alto delle sue enormi tette, e qualsiasi altro maschio, perfino se quadrupede, eiaculerebbe guaendo perfino se bipede. Ti rialzi, qualcuno da qualche parte sghignazza.
Per un attimo ho paura che tu le prenda la testa e gliela spacchi sul sedile davanti. Resisti, Emanuel. Ancora un po’, ancora per il tempo che serve. Tu invece ti scusi, raccogli la ventiquattrore e scendi dall’autobus appena prima che richiuda le porte. Non è la tua fermata, dove diavolo vai? Non faccio in tempo a sgattaiolarti dietro. Ti guardo attraverso i vetri sudici delle porte. Ti stai sedendo sulla panchina sotto la pensilina e sembri d’un tratto fragile, forse stanco. Hai i pantaloni sporchi di sangue alle ginocchia.
Poi l’autobus riparte. Tu alzi il viso e mi guardi. Non mi avevi mai visto, prima, e la sensazione di pericolo è lancinante. Eppure, inspiegabilmente, la prima volta che mi guardi mi scopro stupito di essere ancora visibile. Eccola la fitta che mi dichiara ancora vivo. Da quant’è che non la sentivo? Fatto sta che qualcuno mi guarda e io voglio essere visto. No, di più, voglio essere visto da te. Perché ora che fa male, e solo finché lo farà, sei l’unico che io abbia mai conosciuto che forse può salvarmi. Resisti Emanuel, rimani trasparente per il resto del mondo perché senza di te, e senza tua moglie nel freezer, o in cantina, o forse dentro di me, io tornerei a essere vuoto. Sono un dente cariato, piuttosto che sentire il vuoto di prima, o questo dolore, preferisco essere strappato via. Aspetterò per tutto il tempo che serve.
Batto il pugno sulla porta chiusa.
Ho preso una brutta botta alle ginocchia. Mi siedo e l’autobus riparte. Un tizio da dentro mi guarda. Ha un’espressione interdetta, forse doveva scendere. Ho perfino la sensazione che mi stia dicendo qualcosa, e infatti muove le labbra. Sembra stanco, forse triste. Continuo a guardarlo finché sparisce nel riflesso della città sui vetri sporchi.
Sento le ginocchia bruciare proprio dove i pantaloni si stanno appiccicando. Chiamo l’ufficio, oggi non vengo, no, solo un raffreddore, se avete bisogno chiamatemi pure, sì, solo oggi.
Si ferma un altro autobus. Raddrizzo la schiena, assesto gli occhiali, fingo di guardare qualcosa d’importante al cellulare. Quando tutti quelli che sono scesi dall’autobus hanno preso le loro rotte, mentre si allontanano in tutte le direzioni, li immagino percorrere a grandi passi l’intero globo terrestre per ritrovarsi dall’altra parte del mondo, esattamente nel posto più lontano possibile da me. È a quel punto che vedo il tizio di prima, quello sull’autobus. Corre, sta venendo qui.
Sei ancora seduto sotto la pensilina. Man mano che mi avvicino, rallento. Ancora non ti vedo bene ma sei girato di qua, così t’immagino rimettere insieme i pezzi che compongono la rappresentazione di un uomo normale che aspetta l’autobus. Ogni pezzo lo fa, tranne i pantaloni sporchi di sangue. E poi il fatto che continui a guardarmi. Dovrei entrare in un negozio, o attraversare la strada, o girare i tacchi e tornare sui miei passi piuttosto, ma tu continui a guardarmi. Rallento ancora, la mia traiettoria prende a scarrocciare verso il parchetto che costeggia la strada. Sono a meno di dieci passi da te quando distolgo lo sguardo e mi costringo a scavalcare l’aiuola. Mi ritrovo a correre a perdifiato sul prato tra gli scivoli e le altalene. Stavo per rovinare tutto.
Dovrei cambiare il ghiaccio sulle ginocchia. E poi sarebbe ora di accendere le luci e invece lascio che la casa scivoli nella penombra, e poi nel buio, e che l’oscurità si faccia così densa da opporre resistenza alle lame dei fari delle poche macchine che passano, fuori. Dall’altra parte della strada, qualcosa luccica nel buio di un abitacolo.
Non si vede più niente da ore. M’infilo il berretto logoro degli Yankees e scendo dalla macchina. Cammino dall’altro lato della strada finché sono abbastanza lontano. A quel punto attraverso e torno indietro infilandomi nel primo giardino. Costeggio il retro delle case fino alla tua. Mi butto dietro alla siepe e gattono fino alla portafinestra della vostra camera. È socchiusa.
Mi alzo a fatica. Le ferite alle ginocchia tirano la pelle come una coperta troppo corta. Non ho fame, ho solo voglia di farmi un bagno. Mi porto il cellulare. Forse Sonia chiamerà.
Dentro all’acqua bollente, le spalle si sciolgono e la pelle delle ginocchia si ammorbidisce. Ripenso alla caduta sull’autobus. Non ho nessuno cui raccontarla. Se almeno Sonia chiamasse, sarei disposto a parlare di qualsiasi cosa, persino del taglio di capelli che si è fatta per somigliare a un uomo. Forse così potrei piacerti di più, aveva detto piangendo. Non è una questione di capelli, ho ribattuto. Allora devo andarmene?, ha singhiozzato. Le ho riempito la vasca, l’ho spogliata, l’ho tenuta per mano per aiutarla a entrare. No, non volevo dire questo. L’ho insaponata, l’ho strofinata e poi sciacquata, un pezzetto per volta, come fosse la mia bambina. Le ho riempito i capelli di shampoo profumato, e poi di balsamo, ci ho giocato, glieli ho appiattiti con la riga di lato come un damerino, le ho fatto la cresta, le ho fatto i baffi con la schiuma. Sei sempre bella.
Ha ricominciato a piangere. E pensare, ha detto, che ho anche creduto che avessi un’altra, l’ho perfino sperato.
Magari, ho risposto, perché allora non sarei così solo.
L’acqua intanto aveva smesso di fumare, e tutta l’umidità era avvinghiata a qualcosa, allo specchio, alle piastrelle, ai miei vestiti. La luce dalla finestra appannata, intanto, cadeva opaca e lenta come neve. Le ho tirato indietro la testa per sciacquarle i capelli, la nuca completamente immersa nell’acqua, tra le mie mani, così che si sentisse galleggiare.
Forse dovrei andare un po’ da mia madre, ha detto, e a bagnarle il viso erano rimaste solo le lacrime.
Sì, lo capisco, ho risposto lentamente per non dover sbrogliare troppo il nodo alla gola. Le sue braccia ora galleggiavano lente, le mani finalmente rilassate, socchiuse, i seni come arcipelaghi. Quanto ho desiderato che il suo corpo mi bastasse, quanto ci ho provato.
Ha chiuso gli occhi, non sarai solo, ha detto con la voce impastata dal sonno, la pelle increspata dal freddo. Ho assunto uno, ha sospirato, un investigatore privato. I capelli le fluttuavano lenti, tutt’attorno al viso rilassato. Era pure bello, ha sorriso, un po’ triste forse… Comunque sia, ha detto lei sempre più piano, ti starà guardando anche adesso.
Quando finalmente si è appisolata, ho aggiunto un po’ d’acqua calda.
La mattina dopo se n’era già andata, in silenzio, al buio.
Il vuoto dentro, il vuoto intorno, vasi comunicanti infine in equilibrio. Nel provare per la prima volta la morsa dell’immobilità, ho creduto, per un istante interminabile, di non essere più niente. È a quel punto che, in un angolo del cervello, Sonia ha ripetuto, con dolcezza, non sei solo. Ti starà guardando anche adesso.
Ho aperto le tende, mi sono spogliato completamente, mi sono masturbato. Furiosamente, disperatamente. Guardami, pensavo, schìfati e vattene pure tu. O vieni qui, adesso.
Sei andato a farti un bagno. Ho aspettato che t’immergessi nella vasca prima di lasciare il mio nascondiglio tra l’armadio e il muro. Frugo nei cassetti senza sapere cosa vado cercando. Forse lo capirò quando lo troverò. Dal bagno, intanto, solo qualche sciabordio lento. Apro il computer portatile sullo scrittoio. Nel fermo immagine di un video interrotto all’inizio, un uomo mezzo sdraiato su un divanetto rosso si tiene contro l’inguine, con forza, la testa di un altro uomo, cui sembra urlare qualcosa con l’espressione di chi offende, mentre un terzo uomo, alle spalle del secondo, è cristallizzato nel momento in cui lo penetra. Hai cercato un video così, e l’hai interrotto subito. Tolgo l’audio e lo faccio ripartire. I tre uomini ricominciano a sbraitare, a succhiare e a penetrare, ognuno con una sorta di rabbia solitaria, quasi di frustrazione, come se l’atto di ottenere piacere implicasse la colpa d’infliggere dolore. Ecco un’altra fitta, questa volta tra le gambe e poi dietro, dentro, su fino al cuore che trema per l’impatto, e poi ancora più su, ma anche a destra, a sinistra, in basso, fin dove la carie mi ha svuotato, per anni, in silenzio. Quando fermo il video, l’ho guardato quasi fino alla fine. Svelto, cerco altro e noto i tuoi vestiti sul letto, i pantaloni macchiati. Da qualche parte, ci saranno altri vestiti con altre macchie di sangue, quello di tua moglie. Ignoro il pensiero e mi ritrovo la tua camicia tra le mani. Cosa vado cercando…
L’uomo è fermo davanti al mio letto. Sta davvero annusando la mia camicia? Ho immaginato che faccia avesse, per questo ho quasi paura di scoprirlo diverso.
Sei quell’investigatore, vero?
Ritrovarmi a chiedermi cosa avrà visto di me, cosa avrà capito. Mi avrà visto masturbarmi? E perché mi gira ancora intorno se era stato assunto fino a due settimane fa? Non riesco a trattenere un sorriso, il primo da tanto.
Mi volto e sei lì, un asciugamano in vita, i capelli bagnati che al buio sembrano materia dura. Emanuel…
Accendi la luce. Mi guardi, mi stai vedendo. Ho rovinato tutto. O forse ci siamo, è ora.
Ho il cuore in gola che potrei sputarlo ai tuoi piedi. Tienitelo, vorrei dirti, ma sarebbe ridicolo.
Dico, invece, lo sapevi?
Sì.
Dovrei essere quantomeno seccato, e invece non riesco a smettere di sorridergli. Anzi, aspetta un attimo, gli dico battendomi una mano sulla fronte, e mettiti pure comodo, prenditi qualcosa da bere. Corro in bagno. Magari sai perfino dove sono i liquori, gli urlo, divertito. Ah, il ghiaccio è finito, e faccio partire la videochiamata a Sonia.
Tua moglie non smette di scusarsi.
Sono uno stupido.
Perfino il salotto è diverso da ciò che credevo da fuori. Me lo vedo intorno nell’inquadratura della videochiamata, in cui siamo vicinissimi. Ho una faccia orribile, da orribile stupido. Cerco di nasconderla con la tesa del berretto. Ho persino paura di puzzare, mentre tu sai di bagnoschiuma.
Ti pagherò tutto, sta dicendo lei, scriverò una recensione che poi verranno tutti da te. Ha gli occhi più tristi di quanto ricordassi, mentre tu non hai ancora smesso di sorridere. Non ti avevo mai visto farlo, prima.
Non hai freddo, ti chiedo quando chiudi la chiamata.
No, cioè, non lo so, dovrei. È che, ma non riesco a dire che sono troppo allegro per sentire freddo. Come ti chiami?
Stefano.
Stefano… Mi dai un attimo per vestirmi? Ah, se vuoi, dico mentre vado in camera, accendi pure la tv. Hai cenato?
No.
E non ricordo nemmeno più da quanto.
Nemmeno io, urlo per farmi sentire. Se non hai niente da fare, ordiniamo qualcosa.
Ho socchiuso la porta della camera, mi sto infilando le mutande quando sento aprire l’acqua della vasca.
La porta si schiude un po’, è Stefano, mi ha seguito in camera. Scusa, bisbiglia, guarda per terra.
No, davvero, scusa tu, io e Sonia in questi giorni siamo un po’ fuori di testa, sai, ci stiamo lasciando. Non è arrabbiato, sembra solo un po’ spaesato, o forse stanco. Tutta la mia allegria mi appare, d’un tratto, stupida. Forse vuole solo andarsene.
Ho bisogno di chiederti un favore, lo dico velocemente. Mi guardi con maggior attenzione e sembri perfino un po’ preoccupato. Mi tolgo il berretto e comincio a sfilare la maglietta da dentro i jeans.
Per un attimo non sai cosa rispondere, poi unisci i puntini. Se vuoi farti un bagno, dici, fa’ pure.
Mi bruciano gli occhi, sì, ne ho davvero bisogno ma no, non è quello il favore.
Stefano si sfila la maglietta, la tiene stretta nel pugno. Per un po’ si sente solo il rumore della vasca che si riempie. Sai perché, dice, ho continuato a pedinarti per tutto questo tempo?
Apro la bocca per rispondere, ma ciò che ne uscirebbe non convince nemmeno me.
Stefano comincia a slacciarsi la cintura. Ho continuato a pedinarti perché credevo che tu potessi fare una cosa per me. E ci ho creduto talmente, che mentre aspettavo che tu la facessi, mi sono dimenticato di raccontarmi le solite cazzate, quelle che mi consolavano e mi rincoglionivano da sempre. Ha finito con la cintura e attacca a sbottonarsi i jeans.
Non capisco, gli dico senza staccare gli occhi dalle sue mani.
Non è più importante, rispondo. Solo che ora non posso più tornare indietro. Non ho nulla cui tornare, per la precisione. Mi abbasso i jeans e sfilo i piedi, uno alla volta. Forse dovrei dirtelo che se non puoi uccidermi, allora dovrai salvarmi in un altro modo. E invece mi sfilo le mutande, in silenzio.
Sono come un dente cariato. O mi devitalizzi, o riempi il buco.
(Sara Rosini)
Sono come un dente cariato. Avevo un buco grosso così, eppure non sentivo niente. C’è voluto il dolore per capire. Ma ora che fa male, e solo finché farà male, posso essere salvato.
Tutto è cominciato la prima volta che ho visto tua moglie. Era ferma davanti alla vetrina del mio ufficio, non trovava il coraggio di entrare. E anche quando l’ha fatto, se n’è rimasta distante, in piedi.
Ho paura che Emanuel mi tradisca, ha detto, lo sguardo basso, una mano che cercava di riportare dietro l’orecchio una ciocca che non c’era. Certe donne fanno così, quando qualcuno fa loro del male, quelle se la prendono coi propri capelli. E più fa male, più tagliano. Quel giorno, rintanata in una tuta d’un paio di misure in più, occhi grandi da inciamparci e mani che non smettevano di cercare qualcosa cui aggrapparsi, tua moglie mi è sembrata un ragazzino che si era perso. C’è voluto un po’ prima che accettasse di sedersi, e anche quando l’ha fatto, sembrava che stesse lì lì per scivolare via. Mi ha mostrato, senza guardarle, alcune tue foto, mi ha dettato i tuoi orari, mi ha pagato in anticipo due intere settimane di marcatura stretta. Un pedinamento di routine, un gioco da ragazzi.
È il primo a cui lo dico, ha sussurrato mentre l’accompagnavo alla porta, grazie, e mi ha abbracciato stretto, una forza inaspettata.
La prima volta che ho incontrato tua moglie, caro Emanuel, non sapevo che sarebbe stata anche l’ultima. Abbiamo parlato per meno di un’ora eppure adesso, a distanza di un mese – o forse di più, ho perso il conto – il ricordo che ho di lei è più vivido di quello che mi è rimasto di me stesso. Come se si trattasse di qualcun altro, qualcuno che nemmeno conoscevo bene, ripenso alle mie giornate come alla masticazione distratta di un pasto freddo, poco gustoso, preparato sempre con gli stessi ingredienti. Come un dente che si credeva sano, mordevo tutto senza sentire né dolore né conforto.
Ora invece, quando mi ricordo di mangiare, tutto potrebbe fare un male cane. Per questo, quel poco che ho ancora il coraggio di mordere è d’un tratto così gustoso. Ed è tanto più assurdo ora che la mia vita si svolge nella desolata periferia della tua. È da lì, dal buio dell’angolo meno interessante della tua visuale, dal freddo dell’estremità meno confortevole della stanza, dalla spazzatura che si accumula nella mia macchina, dove mangio e dormo di fronte a casa vostra, è da lì che ho scoperto chi sei. Ed è lì, al buio, al freddo, tra le macerie che vado ammassando ai bordi della tua vita, che ho cominciato a capire chi sono io.
Tra te e me non è più una marcatura stretta, è un corpo a corpo.
Se dovessi descrivere a qualcuno, caro Emanuel, il tuo ripresentarti al mondo ogni mattina, mi ritroverei ad affastellare una sequela di gesti tecnici come un commentatore televisivo di tuffi olimpionici. È che la tua pratica, ormai, rasenta la perfezione. Come ti concentri allo specchio per cancellare la disperazione, la scrupolosità con cui ti nascondi sotto strati di abiti che non ti si adattano che metricamente, la mollezza nel bacetto a tua moglie e, di fuori, la vaporosità della battuta sul fantacalcio col vicino.
E poi, inevitabile, ogni mattina, il tuo capolavoro: l’ingresso tra la folla alla fermata dell’autobus. Asciutto, indolore, un’entrata in acqua senza schizzi. Nessuna increspatura, nessuna reazione uguale e contraria; solo lo sforzo silenzioso di essere goccia d’acqua tra gocce d’acqua. La tua perfezione rasenta la bellezza. Nondimeno, malgrado lo splendido gesto tecnico, rimani un uomo sott’acqua, un essere obbligato a un ambiente in cui non può sopravvivere.
E io, unico spettatore a conoscere la magnificenza del tuo sforzo, non perdo una replica. Non smettere, non ancora. Io credo in te, so che puoi continuare per tutto il tempo che serve.
Poi arriva l’autobus e tu riemergi tra la folla alla fermata. Una boccata d’aria svelta mentre controlli sul vetro della porta spalancata che gli occhiali non ti si siano appannati nell’impatto, e sei già seduto tra gli altri. Mi siedo dietro di te e non eravamo mai stati così vicini. Anch’io, adesso, sono una goccia d’acqua. Nuotiamo nello stesso acquario la cui superficie ora si adatta al nuovo contenitore, si acquieta, s’inclina leggermente e poi parte, ondeggia all’unisono a ogni curva, s’increspa e rimescola a ogni fermata.
Ti osservo da dietro, percorro la sfera chiara della testa, mi poggio sulle spalle da nuotatore, scivolo tra i lembi del cappotto grigio, morbido quasi da commuovermi, mi aggrappo alla curva della gamba che affiora, caparbia, dalle rette dei pantaloni, cammino sul disegno delle calze fin dentro le scarpe lucide.
Sono l’unico a sapere quanta fatica ti richieda essere trasparente. Sono l’unico a vederti.
Intanto due maschi fertili, aggrappati al palo vicino all’uscita, commentano la procace biondina seduta qualche fila più avanti, si sbavano addosso, sorridono intorno in cerca di sodali. Lo so che percepisci la turbolenza, l’imperativo sociale che ne emana. Lo vedi avvicinarsi in piccole onde concentriche che solcano la superficie dell’acquario, come un’alta marea che investe ogni maschio sul suo percorso, e che ora si allunga nella tua direzione. Quando t’investe, svelto la assecondi, ti lasci muovere e per questo ti tocca di sorridere come se comprendessi ciò che quei due, e tutti gli altri maschi intorno, provano. No, di più, come se lo provassi tu stesso. Ma io so che quello che puoi fingere, non può spingersi oltre la facciata; e così, mentre gli altri inseguono una mediocre fantasia erotica, ti immagino pensare qualcosa di assurdo, tipo cosa ne farebbe quella biondina del tuo amato fegato con cipolle. Ne verrebbe fuori un fegato e cipolle buono come quello di tua moglie? Scommetto che tu, al contrario di ciò che farebbe ogni altro uomo impegnato, stai pensando a lei. Starai ricordando quando l’hai baciata stamattina prima di uscire, la sua pelle dura come marmo nel surgelatore, così lontana dalla calda morbidezza del suo fegato sotto la forchetta. Forse starai pensando a quando gliel’hai sradicato da sotto le costole. O forse è il cuore che le hai strappato, e ora lo tieni in un sacchetto nella ventiquattrore, mentre il resto l’hai bruciato. O magari l’hai sotterrata in cantina. Dov’è tua moglie, Emanuel? Ma intanto, al ricordo di qualsiasi cosa tu abbia fatto del suo cadavere, ti concedi una piccola sbavatura alla rappresentazione di un uomo normale, giusto un’imperfezione, permettendo che le mani ti fremano appena. Ero dall’altra parte del binocolo la mattina in cui ti ho visto, completamente nudo, tremare talmente da sconquassarti. Ero lì fuori, in macchina, congelato, senza mangiare né dormire da quando, la sera prima, l’avevi tenuta con la testa sott’acqua, nella vasca. Ho sperato, l’ho sperato con tutto il cuore, che un po’ della forza con cui mi aveva stretto la salvasse. E invece non si è difesa, non ha lottato. A volte penso che se io, davanti alla porta del mio ufficio, l’avessi stretta più forte, magari tanto da nascondermela dentro, da assorbirla, forse lei, adesso… Ma chissà, forse un po’ è successo, forse una parte di lei è davvero rimasta qui dentro, da qualche parte.
Ma intanto, su quest’autobus alla deriva, la vertigine con cui ricordi il tuo potere su di lei ti costringe ad alzarti in piedi. È in quel momento che l’autobus frena e perdi l’equilibrio. Ti ritrovi carponi, le ginocchia sfrante sul ferro del pavimento, aggrappato alla coscia della biondina. Lei non dice una parola ma ti guarda come se le si fosse attaccato alla gamba un cane in calore. Poche spinte di reni, sembra pensare dall’alto delle sue enormi tette, e qualsiasi altro maschio, perfino se quadrupede, eiaculerebbe guaendo perfino se bipede. Ti rialzi, qualcuno da qualche parte sghignazza.
Per un attimo ho paura che tu le prenda la testa e gliela spacchi sul sedile davanti. Resisti, Emanuel. Ancora un po’, ancora per il tempo che serve. Tu invece ti scusi, raccogli la ventiquattrore e scendi dall’autobus appena prima che richiuda le porte. Non è la tua fermata, dove diavolo vai? Non faccio in tempo a sgattaiolarti dietro. Ti guardo attraverso i vetri sudici delle porte. Ti stai sedendo sulla panchina sotto la pensilina e sembri d’un tratto fragile, forse stanco. Hai i pantaloni sporchi di sangue alle ginocchia.
Poi l’autobus riparte. Tu alzi il viso e mi guardi. Non mi avevi mai visto, prima, e la sensazione di pericolo è lancinante. Eppure, inspiegabilmente, la prima volta che mi guardi mi scopro stupito di essere ancora visibile. Eccola la fitta che mi dichiara ancora vivo. Da quant’è che non la sentivo? Fatto sta che qualcuno mi guarda e io voglio essere visto. No, di più, voglio essere visto da te. Perché ora che fa male, e solo finché lo farà, sei l’unico che io abbia mai conosciuto che forse può salvarmi. Resisti Emanuel, rimani trasparente per il resto del mondo perché senza di te, e senza tua moglie nel freezer, o in cantina, o forse dentro di me, io tornerei a essere vuoto. Sono un dente cariato, piuttosto che sentire il vuoto di prima, o questo dolore, preferisco essere strappato via. Aspetterò per tutto il tempo che serve.
Batto il pugno sulla porta chiusa.
Ho preso una brutta botta alle ginocchia. Mi siedo e l’autobus riparte. Un tizio da dentro mi guarda. Ha un’espressione interdetta, forse doveva scendere. Ho perfino la sensazione che mi stia dicendo qualcosa, e infatti muove le labbra. Sembra stanco, forse triste. Continuo a guardarlo finché sparisce nel riflesso della città sui vetri sporchi.
Sento le ginocchia bruciare proprio dove i pantaloni si stanno appiccicando. Chiamo l’ufficio, oggi non vengo, no, solo un raffreddore, se avete bisogno chiamatemi pure, sì, solo oggi.
Si ferma un altro autobus. Raddrizzo la schiena, assesto gli occhiali, fingo di guardare qualcosa d’importante al cellulare. Quando tutti quelli che sono scesi dall’autobus hanno preso le loro rotte, mentre si allontanano in tutte le direzioni, li immagino percorrere a grandi passi l’intero globo terrestre per ritrovarsi dall’altra parte del mondo, esattamente nel posto più lontano possibile da me. È a quel punto che vedo il tizio di prima, quello sull’autobus. Corre, sta venendo qui.
Sei ancora seduto sotto la pensilina. Man mano che mi avvicino, rallento. Ancora non ti vedo bene ma sei girato di qua, così t’immagino rimettere insieme i pezzi che compongono la rappresentazione di un uomo normale che aspetta l’autobus. Ogni pezzo lo fa, tranne i pantaloni sporchi di sangue. E poi il fatto che continui a guardarmi. Dovrei entrare in un negozio, o attraversare la strada, o girare i tacchi e tornare sui miei passi piuttosto, ma tu continui a guardarmi. Rallento ancora, la mia traiettoria prende a scarrocciare verso il parchetto che costeggia la strada. Sono a meno di dieci passi da te quando distolgo lo sguardo e mi costringo a scavalcare l’aiuola. Mi ritrovo a correre a perdifiato sul prato tra gli scivoli e le altalene. Stavo per rovinare tutto.
Dovrei cambiare il ghiaccio sulle ginocchia. E poi sarebbe ora di accendere le luci e invece lascio che la casa scivoli nella penombra, e poi nel buio, e che l’oscurità si faccia così densa da opporre resistenza alle lame dei fari delle poche macchine che passano, fuori. Dall’altra parte della strada, qualcosa luccica nel buio di un abitacolo.
Non si vede più niente da ore. M’infilo il berretto logoro degli Yankees e scendo dalla macchina. Cammino dall’altro lato della strada finché sono abbastanza lontano. A quel punto attraverso e torno indietro infilandomi nel primo giardino. Costeggio il retro delle case fino alla tua. Mi butto dietro alla siepe e gattono fino alla portafinestra della vostra camera. È socchiusa.
Mi alzo a fatica. Le ferite alle ginocchia tirano la pelle come una coperta troppo corta. Non ho fame, ho solo voglia di farmi un bagno. Mi porto il cellulare. Forse Sonia chiamerà.
Dentro all’acqua bollente, le spalle si sciolgono e la pelle delle ginocchia si ammorbidisce. Ripenso alla caduta sull’autobus. Non ho nessuno cui raccontarla. Se almeno Sonia chiamasse, sarei disposto a parlare di qualsiasi cosa, persino del taglio di capelli che si è fatta per somigliare a un uomo. Forse così potrei piacerti di più, aveva detto piangendo. Non è una questione di capelli, ho ribattuto. Allora devo andarmene?, ha singhiozzato. Le ho riempito la vasca, l’ho spogliata, l’ho tenuta per mano per aiutarla a entrare. No, non volevo dire questo. L’ho insaponata, l’ho strofinata e poi sciacquata, un pezzetto per volta, come fosse la mia bambina. Le ho riempito i capelli di shampoo profumato, e poi di balsamo, ci ho giocato, glieli ho appiattiti con la riga di lato come un damerino, le ho fatto la cresta, le ho fatto i baffi con la schiuma. Sei sempre bella.
Ha ricominciato a piangere. E pensare, ha detto, che ho anche creduto che avessi un’altra, l’ho perfino sperato.
Magari, ho risposto, perché allora non sarei così solo.
L’acqua intanto aveva smesso di fumare, e tutta l’umidità era avvinghiata a qualcosa, allo specchio, alle piastrelle, ai miei vestiti. La luce dalla finestra appannata, intanto, cadeva opaca e lenta come neve. Le ho tirato indietro la testa per sciacquarle i capelli, la nuca completamente immersa nell’acqua, tra le mie mani, così che si sentisse galleggiare.
Forse dovrei andare un po’ da mia madre, ha detto, e a bagnarle il viso erano rimaste solo le lacrime.
Sì, lo capisco, ho risposto lentamente per non dover sbrogliare troppo il nodo alla gola. Le sue braccia ora galleggiavano lente, le mani finalmente rilassate, socchiuse, i seni come arcipelaghi. Quanto ho desiderato che il suo corpo mi bastasse, quanto ci ho provato.
Ha chiuso gli occhi, non sarai solo, ha detto con la voce impastata dal sonno, la pelle increspata dal freddo. Ho assunto uno, ha sospirato, un investigatore privato. I capelli le fluttuavano lenti, tutt’attorno al viso rilassato. Era pure bello, ha sorriso, un po’ triste forse… Comunque sia, ha detto lei sempre più piano, ti starà guardando anche adesso.
Quando finalmente si è appisolata, ho aggiunto un po’ d’acqua calda.
La mattina dopo se n’era già andata, in silenzio, al buio.
Il vuoto dentro, il vuoto intorno, vasi comunicanti infine in equilibrio. Nel provare per la prima volta la morsa dell’immobilità, ho creduto, per un istante interminabile, di non essere più niente. È a quel punto che, in un angolo del cervello, Sonia ha ripetuto, con dolcezza, non sei solo. Ti starà guardando anche adesso.
Ho aperto le tende, mi sono spogliato completamente, mi sono masturbato. Furiosamente, disperatamente. Guardami, pensavo, schìfati e vattene pure tu. O vieni qui, adesso.
Sei andato a farti un bagno. Ho aspettato che t’immergessi nella vasca prima di lasciare il mio nascondiglio tra l’armadio e il muro. Frugo nei cassetti senza sapere cosa vado cercando. Forse lo capirò quando lo troverò. Dal bagno, intanto, solo qualche sciabordio lento. Apro il computer portatile sullo scrittoio. Nel fermo immagine di un video interrotto all’inizio, un uomo mezzo sdraiato su un divanetto rosso si tiene contro l’inguine, con forza, la testa di un altro uomo, cui sembra urlare qualcosa con l’espressione di chi offende, mentre un terzo uomo, alle spalle del secondo, è cristallizzato nel momento in cui lo penetra. Hai cercato un video così, e l’hai interrotto subito. Tolgo l’audio e lo faccio ripartire. I tre uomini ricominciano a sbraitare, a succhiare e a penetrare, ognuno con una sorta di rabbia solitaria, quasi di frustrazione, come se l’atto di ottenere piacere implicasse la colpa d’infliggere dolore. Ecco un’altra fitta, questa volta tra le gambe e poi dietro, dentro, su fino al cuore che trema per l’impatto, e poi ancora più su, ma anche a destra, a sinistra, in basso, fin dove la carie mi ha svuotato, per anni, in silenzio. Quando fermo il video, l’ho guardato quasi fino alla fine. Svelto, cerco altro e noto i tuoi vestiti sul letto, i pantaloni macchiati. Da qualche parte, ci saranno altri vestiti con altre macchie di sangue, quello di tua moglie. Ignoro il pensiero e mi ritrovo la tua camicia tra le mani. Cosa vado cercando…
L’uomo è fermo davanti al mio letto. Sta davvero annusando la mia camicia? Ho immaginato che faccia avesse, per questo ho quasi paura di scoprirlo diverso.
Sei quell’investigatore, vero?
Ritrovarmi a chiedermi cosa avrà visto di me, cosa avrà capito. Mi avrà visto masturbarmi? E perché mi gira ancora intorno se era stato assunto fino a due settimane fa? Non riesco a trattenere un sorriso, il primo da tanto.
Mi volto e sei lì, un asciugamano in vita, i capelli bagnati che al buio sembrano materia dura. Emanuel…
Accendi la luce. Mi guardi, mi stai vedendo. Ho rovinato tutto. O forse ci siamo, è ora.
Ho il cuore in gola che potrei sputarlo ai tuoi piedi. Tienitelo, vorrei dirti, ma sarebbe ridicolo.
Dico, invece, lo sapevi?
Sì.
Dovrei essere quantomeno seccato, e invece non riesco a smettere di sorridergli. Anzi, aspetta un attimo, gli dico battendomi una mano sulla fronte, e mettiti pure comodo, prenditi qualcosa da bere. Corro in bagno. Magari sai perfino dove sono i liquori, gli urlo, divertito. Ah, il ghiaccio è finito, e faccio partire la videochiamata a Sonia.
Tua moglie non smette di scusarsi.
Sono uno stupido.
Perfino il salotto è diverso da ciò che credevo da fuori. Me lo vedo intorno nell’inquadratura della videochiamata, in cui siamo vicinissimi. Ho una faccia orribile, da orribile stupido. Cerco di nasconderla con la tesa del berretto. Ho persino paura di puzzare, mentre tu sai di bagnoschiuma.
Ti pagherò tutto, sta dicendo lei, scriverò una recensione che poi verranno tutti da te. Ha gli occhi più tristi di quanto ricordassi, mentre tu non hai ancora smesso di sorridere. Non ti avevo mai visto farlo, prima.
Non hai freddo, ti chiedo quando chiudi la chiamata.
No, cioè, non lo so, dovrei. È che, ma non riesco a dire che sono troppo allegro per sentire freddo. Come ti chiami?
Stefano.
Stefano… Mi dai un attimo per vestirmi? Ah, se vuoi, dico mentre vado in camera, accendi pure la tv. Hai cenato?
No.
E non ricordo nemmeno più da quanto.
Nemmeno io, urlo per farmi sentire. Se non hai niente da fare, ordiniamo qualcosa.
Ho socchiuso la porta della camera, mi sto infilando le mutande quando sento aprire l’acqua della vasca.
La porta si schiude un po’, è Stefano, mi ha seguito in camera. Scusa, bisbiglia, guarda per terra.
No, davvero, scusa tu, io e Sonia in questi giorni siamo un po’ fuori di testa, sai, ci stiamo lasciando. Non è arrabbiato, sembra solo un po’ spaesato, o forse stanco. Tutta la mia allegria mi appare, d’un tratto, stupida. Forse vuole solo andarsene.
Ho bisogno di chiederti un favore, lo dico velocemente. Mi guardi con maggior attenzione e sembri perfino un po’ preoccupato. Mi tolgo il berretto e comincio a sfilare la maglietta da dentro i jeans.
Per un attimo non sai cosa rispondere, poi unisci i puntini. Se vuoi farti un bagno, dici, fa’ pure.
Mi bruciano gli occhi, sì, ne ho davvero bisogno ma no, non è quello il favore.
Stefano si sfila la maglietta, la tiene stretta nel pugno. Per un po’ si sente solo il rumore della vasca che si riempie. Sai perché, dice, ho continuato a pedinarti per tutto questo tempo?
Apro la bocca per rispondere, ma ciò che ne uscirebbe non convince nemmeno me.
Stefano comincia a slacciarsi la cintura. Ho continuato a pedinarti perché credevo che tu potessi fare una cosa per me. E ci ho creduto talmente, che mentre aspettavo che tu la facessi, mi sono dimenticato di raccontarmi le solite cazzate, quelle che mi consolavano e mi rincoglionivano da sempre. Ha finito con la cintura e attacca a sbottonarsi i jeans.
Non capisco, gli dico senza staccare gli occhi dalle sue mani.
Non è più importante, rispondo. Solo che ora non posso più tornare indietro. Non ho nulla cui tornare, per la precisione. Mi abbasso i jeans e sfilo i piedi, uno alla volta. Forse dovrei dirtelo che se non puoi uccidermi, allora dovrai salvarmi in un altro modo. E invece mi sfilo le mutande, in silenzio.
Sono come un dente cariato. O mi devitalizzi, o riempi il buco.