Wish you were here (Alessandro Canella)
Inviato: mercoledì 3 marzo 2021, 11:23
Wish you were here
Alessandro Canella
La voce ovattata di Tommy Lee attraversa le pareti del The Side e mi raggiunge fino al parcheggio. Con tono irritato ordina a Sir Bob Cornelius Rifo di alzare quelle fottute chitarre, dando il la all’assolo finale. È il mio passaggio preferito dell’intero album, ma in questo momento la concentrazione è altrove.
Chiudo gli occhi e faccio scendere la mano.
Le dita s’intrufolano tra i capelli di Giulia e iniziano a seguire il costante avanti e indietro della sua testa. La sento giocare con la lingua, avvolgermi con le labbra e scendere giù, fin dove le è possibile.
Appoggio la schiena sulla portiera dell’auto. È gelida e dal culo parte un brivido che percorre la spina dorsale.
L’orgasmo sale prepotente. Stringo i capelli di Giulia e tento di allontanarla, ma lei invece continua, anzi, aumenta il ritmo, la mano stretta attorno al cazzo ad accompagnare la bocca. Infine affonda il viso e lì rimane fino a che non mi svuoto dentro di lei.
Riapro gli occhi, il respiro corto.
Giulia è ai miei piedi. Ingoia e mi sorride. Col pollice pulisce una virgola di sperma dal mento, per poi succhiarsi il dito. Si alza e fa per baciarmi, ma prima che le sue labbra tocchino le mie allontano il volto.
«Dio, quanto sei pudico.» Sembra più delusa che arrabbiata.
Tiro su la zip dei pantaloni e mi guardo attorno. «Tu invece non lo sei affatto.»
«Non tutte possono permetterselo. Pensavo l’avessi capito, ormai.» Si sistema la gonna. Una calza le si è strappata lungo la coscia. «Spero almeno ti sia piaciuto il regalo di compleanno.»
«Ah, era questo? Peccato, speravo in quel vinile dei Pink di cui avevamo parlato.» Le faccio l’occhiolino.
«Non fare lo stronzo, non ti si addice.» A tradimento mi stampa un bacio. «Così impari.» Dall’interno della giacca tira fuori un pacchetto di sigarette. «Cos’hai deciso per i tuoi?»
Me ne porge una, ma rifiuto anche quella. «Non è ancora il momento.»
«E quando sarà, di grazia? Prima o dopo la fine del liceo? O magari dell’università. Anzi no, aspettiamo che schiattino, che dici?»
«Ora però la stronza la fai tu. Pensavo avessi detto che non avevamo fretta.»
«Di quanti mesi fa parliamo? Non ti conoscessi, potrei quasi pensare che ti sei trovato un’altra. O forse semplicemente non hai le palle per prendere una decisione.» Con la mano libera mi stringe in mezzo alle gambe. «Ci ho preso?»
Le afferro il polso e la spingo contro l’auto alle sue spalle.
Giulia ride. «È il tuo modo da maschio alpha di dirmi che mi sbaglio?»
«Esatto, ti sbagli.»
«E riguardo quale opzione? No, non dirlo. Non importa.» Stavolta è lei a spingermi indietro. «Ormai sei un adulto, Lucio. È tempo di scegliere cosa vuoi.»
Dà un ultimo tiro alla sigaretta e mi lancia uno di quei suoi sorrisi da troia. Senza smettere di fissarmi, si sfila gli slip da sotto la gonna e si siede sul cofano. Divarica le gambe. «E ora assaggiami.»
L’aspirapolvere di quella del piano di sopra mi sveglia alle 8 in punto, come ogni domenica. Affondo la faccia nel cuscino, ma ormai il sonno è svanito. Sbuffo e mi giro a pancia in su. Il poster di Cristiano Ronaldo che esulta a petto nudo dopo il goal nella finale di Champions del 2014 mi dà il buongiorno dal soffitto.
Piego la testa verso il letto di Filippo. È vuoto, le lenzuola tese, come appena stirate. Perfetto stile militare. A volte sembra impossibile che mio fratello sia la stessa persona che una volta si è fatta fotografare con una stella di Natale infilata tra le chiappe.
Mi metto a sedere sul bordo del letto e prendo il cellulare dal comodino. Distendo la tendina delle notifiche e scorro una dozzina di messaggi d’auguri tutti uguali. Nel mezzo ne intravedo uno di Giulia inviato poco prima delle 4.
Vorrei che tu fossi qui.
Attivo la tastiera. Mi spiace per ieri. So essere un vero stronzo. Dammi un’ora e arrivo. Invio il messaggio, ma le dita indugiano sui tasti. Vorrei aggiungere altro, ma ancora non trovo il coraggio. Spengo lo schermo.
Mi vesto e raggiungo la cucina. Mia madre sta ritirando i piatti dalla lavastoviglie, mentre mio padre beve un caffè intanto che guarda alla TV gli highlights degli anticipi.
Senza farmi notare vado a schioccare un bacio sulla guancia di mia madre. «Giorno ma’.»
Per poco non fa cadere una tazzina. «Lucio, che fai già in piedi?»
«Chiedilo alla Dorelli. E comunque più tardi devo vedermi con degli amici.»
«Non avete festeggiato abbastanza ieri?» Non la vedo in faccia, ma sono sicuro che stia sorridendo. «Vuoi fare colazione?»
La moca è ancora sul fornello. «Un caffellatte non mi dispiacerebbe.»
Mio padre manda a fanculo il televisore. «Sti cazzo d’africani. Milioni per comprarli e poi ti durano mezza stagione prima di rompersi qualche legamento.» Si gira verso di me. «E pure te! Ancora caffellatte? Hai 18 anni, Cristo. È tempo di bere vero caffè come gli adulti.»
«Ma devo berlo nero o posso usare il tuo dolcificante, pa’?»
Mio padre si toglie gli occhiali e me li punta contro. «Non essere strafottente.»
Annuisco. Meglio non farlo incazzare, almeno non oggi.
Mia madre mi fa una carezza e appoggia sulla tavola una tazza di caffellatte.
Dò un primo sorso. «Ma Filo?»
«In bagno» risponde mia madre. «Stamattina è uscito presto per andare a correre,» abbassa la voce «ma secondo me ti sta preparando una sorpresa. Oh, io non ho detto nulla.»
Porto le dita davanti alla bocca e la chiudo a chiave.
Guardo l’orologio sopra il frigo. Rischio di fare tardi. Finisco il caffellatte e saluto i miei. Sto per uscire, che incrocio Filo in corridoio.
«Ben svegliato, principessa. Pronto a festeggiare come si deve il passaggio al mondo di noi adulti?»
«Guarda che il mio compleanno era ieri. E poi sto uscendo.»
«Cos’è, vai a farti scartare il pacco da quella tua compagna di classe? Come si chiama… Laura?»
«Che sottile gioco di parole. No, davvero, mi spiace, ora non posso. Facciamo appena rientro, ok?»
«Non iniziare a rompere, che li conosco i tuoi impegni da pippaiolo.» Filo mi avvolge le spalle con un braccio e con l’altro traccia un arco in aria, come a volermi mostrare un paesaggio visibile solo a lui. «Oggi è un giorno importante per te. È il giorno in cui da fighetta cagacazzi quale sei, sboccerai in una bellissima farfalla.»
«Non sapevo che le farfalle sbocciassero.»
Filo mi molla uno scappellotto. «Una bellissima farfalla cagacazzi, ma pur sempre una farfalla. Quindi ora, fratellino, ti metti le scarpe ed esci con me, che ho una cosa da mostrarti.»
Faccio per rispondere, ma Filo alza un dito e mi zittisce. Agguanta i cappotti dall’attaccapanni e mi lancia il mio. Lo indosso e prendo il cellulare. Giulia non ha ancora letto il messaggio. Mi chiedo se…
«…sotto il letto hai guardato?»
Il telefono rimanda il cigolio dell’anta dell’armadio. «Mi prendi per il culo?»
Conosco Filo, non ha guardato. «Di solito mamma il borsone lo mette lì.»
Silenzio.
«L’hai trovato?»
«Sì…»
«Era sotto il letto, vero?»
«Senti, fa poco il furbo, che stamattina era il tuo turno per la pattumiera, e ancora una volta ho dovuto pensarci io a pararti il culo con papà. Che poi, perché sei uscito all’alba?»
«Colpa della Masi. Oggi fa il test di chimica e non so un cazzo. Ho assoluto bisogno dei bigini di Laura.»
«Come no. Secondo me è tutta una scusa per vederti con lei. Oh, mica te ne faccio una colpa. Con quelle tette che si ritrova pure io mi son fatto un paio di se—»
Chiudo la telefonata e lancio un’occhiata all’orologio. Sono già in ritardo e l’autobus ancora non si vede. Fanculo, sono nemmeno due chilometri, io me li faccio a piedi.
Attraverso la strada e m’immetto in via Zara, che da lì posso tagliare in linea retta se passo dal parcheggio del Lidl. Negli auricolari parte un pezzo di Carpenter Brut di cui non ricordo mai il nome. Controllo sulla smartband: Meet Matt Stri—
Qualcosa si schianta contro la mia spalla. Perdo l’equilibro e cado sbattendo il ginocchio contro il cemento. Gli auricolari schizzano chissà dove.
Rialzo la testa e vedo due tizi correre in quella che fino a pochi instanti prima era la mia stessa direzione. Uno grida all’altro di sbrigarsi. Pochi secondi più tardi svoltano al primo incrocio e scompaiono.
Rimango steso a terra, incapace di reagire. Un gemito proveniente da un vicolo alla mia destra mi risveglia dal torpore.
Puntello una mano per rialzarmi e mi addentro nel vicolo, stretto tra due palazzi. Dietro un cassonetto intravedo due gambe, ai piedi scarpe da tennis bianche macchiate di rosso. Giro attorno all’ostacolo. Raccolta in posizione fetale, una ragazza trema.
Mi piego sul ginocchio sano e la scrollo sulle spalle coperte da lunghi capelli scuri. «Tutto bene? Che è successo?»
S’irrigidisce. «Vattene!» La voce è rotta dai singhiozzi. «Non ho bisogno di nessuno.»
«Ascolta, forse è il caso di chiamare un’ambulanza. Sei ferita?» Non vedo borse o zaini attorno. «Ti hanno derubata?»
Due occhi gonfi e rossi si piantano sui miei. «Ho detto d’andartene. Sei sordo o soltanto idiota?»
Mi sforzo di ricambiare il suo sguardo, ma provo un forte imbarazzo nel farlo, come se mi sentissi in colpa per quello che le è successo.
Controllo l’orologio. Se non mi sbrigo, rischio di prendere un’altra insufficienza.
«Senti—»
Con una mano mi allontana.
«Per favore, vai via.» Piange. «Non ho bisogno della carità degli sconosciuti.»
Si aggrappa al bordo del cassonetto e tenta di tirarsi su, ma il dolore dev’essere troppo intenso e perde la presa. L’afferro per un soffio e la faccio appoggiare contro la parete del palazzo.
Oh, fanculo chimica e la Masi!
«Pensa quello che vuoi, ma io di qui non me ne vado.» Le porgo la mano. «Allora, cosa decidi?»
La ragazza mi guarda come se fossi un alieno.
Piego le labbra in un sorriso. «E comunque mi chiamo Lucio, non coso.»
Mi afferra la mano. «Giulia.»
Filo parcheggia davanti un capannone abbandonato, nella vecchia zona industriale. Apre il portaoggetti e prende un pacchetto incartato come peggio non si potrebbe.
«Sarebbe quello il regalo?»
Nasconde il pacchetto sotto la giacca. «Quello cosa?»
Scendiamo dall’auto e ci avviciniamo alla recinzione. In un punto è crollata verso l’interno, permettendoci di entrare senza difficoltà.
Filo fa strada. A giudicare da come si muove, non dev’essere la prima volta. Indica uno degli ingressi laterali. «Il posto è quello.»
«Il posto per cosa?»
Si ferma e mi appoggia le mani sulle spalle. «Lucio, per una volta, una soltanto, fammi felice e non rompere, ok?» Fa per proseguire, invece si ferma. «Davvero, te lo chiedo da fratello: fidati di me e niente stronzate. Ci tengo a te, non scordarlo mai.»
«Oh, ma che ti prende?»
Filo m’ignora ed entra nel capannone. Lo seguo.
La differenza di luce è così netta rispetto all’esterno che mi ci vuole un po’ per mettere a fuoco l’ambiente e notare che non siamo soli. Una decina di tizi col volto coperto ci osserva. Uno di loro tiene un cane al guinzaglio, un pitbull o qualche razza simile.
Da un tavolino da campeggio alla nostra destra Filo prende due passamontagna. Me ne porge uno. «Fa come ti dico e parla a voce bassa.»
Non mi sento a mio agio, e forse proprio per questo indosso il passamontagna senza fare domande.
I tizi davanti a noi si dividono in due ali. Alle loro spalle compare un ragazzo legato a una sedia, nudo, la testa piegata in avanti coperta da un cappuccio.
Filo si avvicina allo sconosciuto. Con un gesto deciso strappa via il cappuccio e lo afferra per i capelli. «Signori, vi presento…»
…Giulia mi tira dentro l’ascensore un attimo prima che le porte automatiche si chiudano con un rumore secco.
«I sensori non funzionano da anni.» Si avvicina alla pulsantiera e seleziona il nono piano. «Qui tutto è rotto, inquilini compresi.»
Le pareti a specchio dell’ascensore moltiplicano all’infinito le nostre immagini. Mi do una controllata. Che idea del cazzo indossare la cravatta. Che poi, io il nodo nemmeno lo so fare e quel tutorial su YouTube non è che fosse così chiaro.
«Non siamo obbligati a rimanere.» Le mani di Giulia vanno a sistemarmi la cravatta. Sollevo un poco il mento per facilitarla. Sento il nodo ammorbidirsi attorno alla gola.
«Sono tuoi amici. Non possono essere poi tanto male se riescono a sopportarti.»
Giulia mi molla uno buffetto sulla guancia. «Non sono soltanto amici. Sono la mia famiglia.» Mi slaccia il colletto. «E lo stesso vale anche per te.»
«Sul fatto di riuscire a sopportarti?»
«No, sul fatto di non essere poi tanto male; quando non fai lo stronzo.»
L’ascensore si ferma.
Mano nella mano, raggiungiamo l’appartamento. Suoniamo il campanello. Da dentro un miscuglio di voci e musica. Suoniamo ancora.
La porta si spalanca e riconosco la voce di Florence che canta You got the love.
«Giulietta!» Un ragazzo in completo bianco e papillon abbraccia Giulia e la bacia sulle guance. Perlomeno non sono il più elegante. «Alla fine ti sei decisa a presentarci il tuo boy.» Mi squadra da testa a piedi.
Un secondo ragazzo, vestito pure lui come un gelataio, si avvinghia al primo appoggiandogli il mento sulla spalla. «E brava la nostra bimba, sempre più giovani ce li troviamo.»
«Non fate gli stronzi pure voi, che già ci pensa lui a farmi sentire vecchia.» Giulia mi prende per il fianco e mi stringe a sé. «Lucio, ti presento Dani e Matteo, i padroni di casa. Se vuoi prendere appunti, loro sono cintura nera di coglionaggine.»
Veniamo fatti accomodare. All’interno una ventina o forse più tra ragazzi e ragazze, tutti più grandi di me, sono impegnati chi a ballare, chi a bere, chi a chiacchierare, chi a limonare. Giulia mi presenta a tutti quelli che la salutano. Già al terzo nome inizio a dimenticare quelli precedenti e ad annuire in maniera automatica.
Raggiungiamo il tavolo del buffet. La presa di Giulia si fa più debole. Mi giro e la vedo trascinata via. Fa appena in tempo ad alzare un dito per dire che ci vorrà solo un minuto, che scompare nella folla.
Proprio quello che speravo non accadesse.
Decido di versarmi un bicchiere di Coca, ma qualcuno mi arpiona la spalla. È Dani. O Matteo? Merda…
«Perché non lo chiediamo a lui? Lucio — giusto? — abbiamo un quesito filosofico da sottoporti. La qui presente Rosa» con un movimento plateale del braccio Danimatteo indica una ragazza con i capelli rosa e le orecchie ricoperte di piercing «sostiene che la scrittura inclusiva non può coesistere con la comunicazione pubblicitaria.»
«No, brutta checca, non storpiare quello che ho detto! Quello che sostengo, da cazzoditraduttrice che con le parole ci vive, è che l’uso di perifrasi e simboli grafici ancora poco conosciuti e privi di una grammatica condivisa rischia di spostare il focus dal contenuto alla forma, e questo in campo pubblicitario, se permetti, è un cazzo di problema.»
«Ok ok, come dici te. E tu Lucio? A favore della schwa negli spot dei detersivi e fanculo quella bigotta della sciura Maria o la pensi come miss delicatezza?»
L’attenzione dei presenti si concentra su di me e non ho idea di cosa cazzo stiano parlando. Devo inventare qualcosa. «Ecco, a mio avviso… un punto d’incontro… un punto d’incontro forse c’è.» Tutti mi osservano in attesa della rivelazione. «Il principio di Colby: se dall’esterno non puoi cambiare lo status quo, prova dall’interno, per quanto piccoli siano all’apparenza i risultati.»
Nessuno dice nulla.
Danimatteo alza gli occhi. «Colby… Non mi è nuovo. Come fa di nome?»
«Terry, mi pare.»
«Terry Colby…» Si blocca. «Ma non è un personaggio di Mr Ro—»
«Scusa l’attesa!» Giulia mi prende sottobraccio e mi dà un bacio sulla guancia. «Ok, gente, interrogatorio concluso. Questo ragazzo ora è mio per almeno i prossimi 10 minuti.»
Ci facciamo largo tra la calca danzante ed entriamo in una camera ricolma di tele appoggiate le une sulle altre lungo le pareti. Al centro, su un cavalletto, un quadro non ancora ultimato ritraente i volti di Dani e Matteo che si baciano.
Giulia chiude la porta e vi si appoggia con la schiena. «Scusa. Avevo scordato cosa significa essere quello nuovo.»
«Poteva andare peggio. Se m’interrogavano di chimica, lì sì che sarei stato nella merda.»
Ride. Dio quanto è bella. «Grazie.»
«Di cosa?»
«Per esserci. Per essere qui con me. So bene quanto possa essere difficile all’inizio.»
«Quindi andando avanti diventa più semplice? Ti prego, dimmi che è così!»
Giulia abbassa gli occhi. «Vorrei che lo fosse, ma non succede sempre. Per alcuni non lo è mai.»
Passo l’indice sulla cornice impolverata di un quadro raffigurante un letto con le lenzuola disfatte. «Suppongo allora che la prossima volta sarà il mio turno in fatto di presentazioni.»
«Soltanto se lo vorrai. Non abbiamo fretta.» Si avvicina e mi prende le mani tra le sue. «Sono certa che saprai riconoscere il momento.»
Abbasso gli occhi sulle nostre dita intrecciate. «Ho il terrore che tu riponga troppa fiducia in me.»
Scuote la testa. «La mia non è fiducia. Io credo in te. E credo in noi.»
Filo stringe le dita attorno ai capelli del ragazzo legato alla sedia, gli solleva la testa. «Signori, vi presento Giulio.»
La gola mi si chiude.
La mia ragazza è davanti a me. Mi fissa, ma non mi vede.
Filo lascia la presa e si pulisce la mano sui jeans. «Girano voci sul nostro amico. Beh, alcune non sono proprio voci. Tipo il fatto che gli piaccia vestirsi da donna.» Indica un mucchietto di vestiti a lato della sedia, gli stessi che Giulia indossava ieri notte. «Il problema è che a quanto pare gonna e rossetto non gli bastano più. No, a lui ora piacciono anche i ragazzini. Dico bene, Giulio?»
Giulia solleva la testa e sorride. Uno degli incisivi è spezzato. «Mi spiace deluderti, ma a me interessano soltanto i cazzi dei veri uomini. Se ti abbassi i pantaloni te lo dimostro… Oh, stupida che sono. Dimenticavo che qui il ragazzino sei tu.»
Filo scoppia a ridere. Col pollice indica Giulia e guarda i suoi amici. «Simpatica, vero?» Il sorriso si piega in una smorfia di disgusto e col dorso della mano la colpisce in pieno volto. Il cane inizia ad abbaiare. «Devo riconoscere che ne hai di palle, per essere una checca.»
Il tizio col pitbull si avvicina ai vestiti di Giulia e fruga nelle tasche, mentre quella merda di cane le annusa un piede mostrando i denti. «Chissà se ne avrà ancora dopo aver dato un’occhiata a questo.»
Il tizio armeggia con qualcosa, ma Filo glielo strappa dalle mani.
Gli occhi di mio fratello incrociano i miei. In mano tiene il cellulare di Giulia.
Sono fottuto.
Lo accende. Fa una smorfia. «Suppongo tu non sia interessato a condividere il tuo pin, vero?»
Giulia risponde mandandogli un bacio.
«Come preferisci.» Filo lascia cadere il cellulare e lo colpisce più volte col tacco dello scarpone fino a spaccarlo. «Non importa. È tempo di regali.» Infila la mano sotto la giacca e mi porge il pacchetto.
Le mani mi tremano. «Filo, cos’è sta follia?» gli sussurro.
«Zitto e scarta.»
Rompo una delle pieghe laterali e strappo la carta, svelando una scatolina anonima in cartone. Appoggio i pollici sulla linguetta di chiusura e la sgancio. All’interno trovo un portachiavi in acciaio a forma di teschio con le orbite cave.
Prima che possa dire nulla, Filo prende il portachiavi e butta via la scatola. «Distendi le dita.» Mi prende una mano e infila medio e anulare all’interno delle orbite del teschio. «Ora richiudi.» La fronte scompare nel palmo, lasciando visibili soltanto i denti.
Osservo il tirapugni stretto tra le mie dita senza riuscire a dire nulla.
Filo mi prende la testa tra le mani e mi obbliga a guardarlo. «Non avere paura. Io sarò sempre al tuo fianco. So che farai la scelta giusta.» Mi abbraccia e avvicina la bocca al mio orecchio. «E poi mica vorrai che la gente pensi che sei frocio?» Lascia la presa, si fa da parte.
«Picchia! Picchia!» gridano i suoi amici.
Avanzo.
Giulia è di fronte a me. Sulle guance le lacrime sciolgono il sangue rappreso. Eppure sorride, non so dire se per sfida o perché mi abbia riconosciuto sotto il passamontagna.
«Picchia! Picchia!» I piedi battono per terra.
La guardo e come quella prima volta mi sento piccolo.
«Picchia! Picchia!»
Vorrei dirle che andrà tutto bene, che è tutto uno scherzo, che stasera andremo da Dani e Matteo e che passeremo la sera a parlare di musica e di futuro.
«Picchia!Picchia!Picchia!»
Vorrei dirle che è bellissima e che la amo e che anch’io credo in noi.
«Picchiapicchiapicchia!»
Vorrei dirle tante cose.
Invece sollevo il braccio e inizio a colpire.
Alessandro Canella
La voce ovattata di Tommy Lee attraversa le pareti del The Side e mi raggiunge fino al parcheggio. Con tono irritato ordina a Sir Bob Cornelius Rifo di alzare quelle fottute chitarre, dando il la all’assolo finale. È il mio passaggio preferito dell’intero album, ma in questo momento la concentrazione è altrove.
Chiudo gli occhi e faccio scendere la mano.
Le dita s’intrufolano tra i capelli di Giulia e iniziano a seguire il costante avanti e indietro della sua testa. La sento giocare con la lingua, avvolgermi con le labbra e scendere giù, fin dove le è possibile.
Appoggio la schiena sulla portiera dell’auto. È gelida e dal culo parte un brivido che percorre la spina dorsale.
L’orgasmo sale prepotente. Stringo i capelli di Giulia e tento di allontanarla, ma lei invece continua, anzi, aumenta il ritmo, la mano stretta attorno al cazzo ad accompagnare la bocca. Infine affonda il viso e lì rimane fino a che non mi svuoto dentro di lei.
Riapro gli occhi, il respiro corto.
Giulia è ai miei piedi. Ingoia e mi sorride. Col pollice pulisce una virgola di sperma dal mento, per poi succhiarsi il dito. Si alza e fa per baciarmi, ma prima che le sue labbra tocchino le mie allontano il volto.
«Dio, quanto sei pudico.» Sembra più delusa che arrabbiata.
Tiro su la zip dei pantaloni e mi guardo attorno. «Tu invece non lo sei affatto.»
«Non tutte possono permetterselo. Pensavo l’avessi capito, ormai.» Si sistema la gonna. Una calza le si è strappata lungo la coscia. «Spero almeno ti sia piaciuto il regalo di compleanno.»
«Ah, era questo? Peccato, speravo in quel vinile dei Pink di cui avevamo parlato.» Le faccio l’occhiolino.
«Non fare lo stronzo, non ti si addice.» A tradimento mi stampa un bacio. «Così impari.» Dall’interno della giacca tira fuori un pacchetto di sigarette. «Cos’hai deciso per i tuoi?»
Me ne porge una, ma rifiuto anche quella. «Non è ancora il momento.»
«E quando sarà, di grazia? Prima o dopo la fine del liceo? O magari dell’università. Anzi no, aspettiamo che schiattino, che dici?»
«Ora però la stronza la fai tu. Pensavo avessi detto che non avevamo fretta.»
«Di quanti mesi fa parliamo? Non ti conoscessi, potrei quasi pensare che ti sei trovato un’altra. O forse semplicemente non hai le palle per prendere una decisione.» Con la mano libera mi stringe in mezzo alle gambe. «Ci ho preso?»
Le afferro il polso e la spingo contro l’auto alle sue spalle.
Giulia ride. «È il tuo modo da maschio alpha di dirmi che mi sbaglio?»
«Esatto, ti sbagli.»
«E riguardo quale opzione? No, non dirlo. Non importa.» Stavolta è lei a spingermi indietro. «Ormai sei un adulto, Lucio. È tempo di scegliere cosa vuoi.»
Dà un ultimo tiro alla sigaretta e mi lancia uno di quei suoi sorrisi da troia. Senza smettere di fissarmi, si sfila gli slip da sotto la gonna e si siede sul cofano. Divarica le gambe. «E ora assaggiami.»
L’aspirapolvere di quella del piano di sopra mi sveglia alle 8 in punto, come ogni domenica. Affondo la faccia nel cuscino, ma ormai il sonno è svanito. Sbuffo e mi giro a pancia in su. Il poster di Cristiano Ronaldo che esulta a petto nudo dopo il goal nella finale di Champions del 2014 mi dà il buongiorno dal soffitto.
Piego la testa verso il letto di Filippo. È vuoto, le lenzuola tese, come appena stirate. Perfetto stile militare. A volte sembra impossibile che mio fratello sia la stessa persona che una volta si è fatta fotografare con una stella di Natale infilata tra le chiappe.
Mi metto a sedere sul bordo del letto e prendo il cellulare dal comodino. Distendo la tendina delle notifiche e scorro una dozzina di messaggi d’auguri tutti uguali. Nel mezzo ne intravedo uno di Giulia inviato poco prima delle 4.
Vorrei che tu fossi qui.
Attivo la tastiera. Mi spiace per ieri. So essere un vero stronzo. Dammi un’ora e arrivo. Invio il messaggio, ma le dita indugiano sui tasti. Vorrei aggiungere altro, ma ancora non trovo il coraggio. Spengo lo schermo.
Mi vesto e raggiungo la cucina. Mia madre sta ritirando i piatti dalla lavastoviglie, mentre mio padre beve un caffè intanto che guarda alla TV gli highlights degli anticipi.
Senza farmi notare vado a schioccare un bacio sulla guancia di mia madre. «Giorno ma’.»
Per poco non fa cadere una tazzina. «Lucio, che fai già in piedi?»
«Chiedilo alla Dorelli. E comunque più tardi devo vedermi con degli amici.»
«Non avete festeggiato abbastanza ieri?» Non la vedo in faccia, ma sono sicuro che stia sorridendo. «Vuoi fare colazione?»
La moca è ancora sul fornello. «Un caffellatte non mi dispiacerebbe.»
Mio padre manda a fanculo il televisore. «Sti cazzo d’africani. Milioni per comprarli e poi ti durano mezza stagione prima di rompersi qualche legamento.» Si gira verso di me. «E pure te! Ancora caffellatte? Hai 18 anni, Cristo. È tempo di bere vero caffè come gli adulti.»
«Ma devo berlo nero o posso usare il tuo dolcificante, pa’?»
Mio padre si toglie gli occhiali e me li punta contro. «Non essere strafottente.»
Annuisco. Meglio non farlo incazzare, almeno non oggi.
Mia madre mi fa una carezza e appoggia sulla tavola una tazza di caffellatte.
Dò un primo sorso. «Ma Filo?»
«In bagno» risponde mia madre. «Stamattina è uscito presto per andare a correre,» abbassa la voce «ma secondo me ti sta preparando una sorpresa. Oh, io non ho detto nulla.»
Porto le dita davanti alla bocca e la chiudo a chiave.
Guardo l’orologio sopra il frigo. Rischio di fare tardi. Finisco il caffellatte e saluto i miei. Sto per uscire, che incrocio Filo in corridoio.
«Ben svegliato, principessa. Pronto a festeggiare come si deve il passaggio al mondo di noi adulti?»
«Guarda che il mio compleanno era ieri. E poi sto uscendo.»
«Cos’è, vai a farti scartare il pacco da quella tua compagna di classe? Come si chiama… Laura?»
«Che sottile gioco di parole. No, davvero, mi spiace, ora non posso. Facciamo appena rientro, ok?»
«Non iniziare a rompere, che li conosco i tuoi impegni da pippaiolo.» Filo mi avvolge le spalle con un braccio e con l’altro traccia un arco in aria, come a volermi mostrare un paesaggio visibile solo a lui. «Oggi è un giorno importante per te. È il giorno in cui da fighetta cagacazzi quale sei, sboccerai in una bellissima farfalla.»
«Non sapevo che le farfalle sbocciassero.»
Filo mi molla uno scappellotto. «Una bellissima farfalla cagacazzi, ma pur sempre una farfalla. Quindi ora, fratellino, ti metti le scarpe ed esci con me, che ho una cosa da mostrarti.»
Faccio per rispondere, ma Filo alza un dito e mi zittisce. Agguanta i cappotti dall’attaccapanni e mi lancia il mio. Lo indosso e prendo il cellulare. Giulia non ha ancora letto il messaggio. Mi chiedo se…
«…sotto il letto hai guardato?»
Il telefono rimanda il cigolio dell’anta dell’armadio. «Mi prendi per il culo?»
Conosco Filo, non ha guardato. «Di solito mamma il borsone lo mette lì.»
Silenzio.
«L’hai trovato?»
«Sì…»
«Era sotto il letto, vero?»
«Senti, fa poco il furbo, che stamattina era il tuo turno per la pattumiera, e ancora una volta ho dovuto pensarci io a pararti il culo con papà. Che poi, perché sei uscito all’alba?»
«Colpa della Masi. Oggi fa il test di chimica e non so un cazzo. Ho assoluto bisogno dei bigini di Laura.»
«Come no. Secondo me è tutta una scusa per vederti con lei. Oh, mica te ne faccio una colpa. Con quelle tette che si ritrova pure io mi son fatto un paio di se—»
Chiudo la telefonata e lancio un’occhiata all’orologio. Sono già in ritardo e l’autobus ancora non si vede. Fanculo, sono nemmeno due chilometri, io me li faccio a piedi.
Attraverso la strada e m’immetto in via Zara, che da lì posso tagliare in linea retta se passo dal parcheggio del Lidl. Negli auricolari parte un pezzo di Carpenter Brut di cui non ricordo mai il nome. Controllo sulla smartband: Meet Matt Stri—
Qualcosa si schianta contro la mia spalla. Perdo l’equilibro e cado sbattendo il ginocchio contro il cemento. Gli auricolari schizzano chissà dove.
Rialzo la testa e vedo due tizi correre in quella che fino a pochi instanti prima era la mia stessa direzione. Uno grida all’altro di sbrigarsi. Pochi secondi più tardi svoltano al primo incrocio e scompaiono.
Rimango steso a terra, incapace di reagire. Un gemito proveniente da un vicolo alla mia destra mi risveglia dal torpore.
Puntello una mano per rialzarmi e mi addentro nel vicolo, stretto tra due palazzi. Dietro un cassonetto intravedo due gambe, ai piedi scarpe da tennis bianche macchiate di rosso. Giro attorno all’ostacolo. Raccolta in posizione fetale, una ragazza trema.
Mi piego sul ginocchio sano e la scrollo sulle spalle coperte da lunghi capelli scuri. «Tutto bene? Che è successo?»
S’irrigidisce. «Vattene!» La voce è rotta dai singhiozzi. «Non ho bisogno di nessuno.»
«Ascolta, forse è il caso di chiamare un’ambulanza. Sei ferita?» Non vedo borse o zaini attorno. «Ti hanno derubata?»
Due occhi gonfi e rossi si piantano sui miei. «Ho detto d’andartene. Sei sordo o soltanto idiota?»
Mi sforzo di ricambiare il suo sguardo, ma provo un forte imbarazzo nel farlo, come se mi sentissi in colpa per quello che le è successo.
Controllo l’orologio. Se non mi sbrigo, rischio di prendere un’altra insufficienza.
«Senti—»
Con una mano mi allontana.
«Per favore, vai via.» Piange. «Non ho bisogno della carità degli sconosciuti.»
Si aggrappa al bordo del cassonetto e tenta di tirarsi su, ma il dolore dev’essere troppo intenso e perde la presa. L’afferro per un soffio e la faccio appoggiare contro la parete del palazzo.
Oh, fanculo chimica e la Masi!
«Pensa quello che vuoi, ma io di qui non me ne vado.» Le porgo la mano. «Allora, cosa decidi?»
La ragazza mi guarda come se fossi un alieno.
Piego le labbra in un sorriso. «E comunque mi chiamo Lucio, non coso.»
Mi afferra la mano. «Giulia.»
Filo parcheggia davanti un capannone abbandonato, nella vecchia zona industriale. Apre il portaoggetti e prende un pacchetto incartato come peggio non si potrebbe.
«Sarebbe quello il regalo?»
Nasconde il pacchetto sotto la giacca. «Quello cosa?»
Scendiamo dall’auto e ci avviciniamo alla recinzione. In un punto è crollata verso l’interno, permettendoci di entrare senza difficoltà.
Filo fa strada. A giudicare da come si muove, non dev’essere la prima volta. Indica uno degli ingressi laterali. «Il posto è quello.»
«Il posto per cosa?»
Si ferma e mi appoggia le mani sulle spalle. «Lucio, per una volta, una soltanto, fammi felice e non rompere, ok?» Fa per proseguire, invece si ferma. «Davvero, te lo chiedo da fratello: fidati di me e niente stronzate. Ci tengo a te, non scordarlo mai.»
«Oh, ma che ti prende?»
Filo m’ignora ed entra nel capannone. Lo seguo.
La differenza di luce è così netta rispetto all’esterno che mi ci vuole un po’ per mettere a fuoco l’ambiente e notare che non siamo soli. Una decina di tizi col volto coperto ci osserva. Uno di loro tiene un cane al guinzaglio, un pitbull o qualche razza simile.
Da un tavolino da campeggio alla nostra destra Filo prende due passamontagna. Me ne porge uno. «Fa come ti dico e parla a voce bassa.»
Non mi sento a mio agio, e forse proprio per questo indosso il passamontagna senza fare domande.
I tizi davanti a noi si dividono in due ali. Alle loro spalle compare un ragazzo legato a una sedia, nudo, la testa piegata in avanti coperta da un cappuccio.
Filo si avvicina allo sconosciuto. Con un gesto deciso strappa via il cappuccio e lo afferra per i capelli. «Signori, vi presento…»
…Giulia mi tira dentro l’ascensore un attimo prima che le porte automatiche si chiudano con un rumore secco.
«I sensori non funzionano da anni.» Si avvicina alla pulsantiera e seleziona il nono piano. «Qui tutto è rotto, inquilini compresi.»
Le pareti a specchio dell’ascensore moltiplicano all’infinito le nostre immagini. Mi do una controllata. Che idea del cazzo indossare la cravatta. Che poi, io il nodo nemmeno lo so fare e quel tutorial su YouTube non è che fosse così chiaro.
«Non siamo obbligati a rimanere.» Le mani di Giulia vanno a sistemarmi la cravatta. Sollevo un poco il mento per facilitarla. Sento il nodo ammorbidirsi attorno alla gola.
«Sono tuoi amici. Non possono essere poi tanto male se riescono a sopportarti.»
Giulia mi molla uno buffetto sulla guancia. «Non sono soltanto amici. Sono la mia famiglia.» Mi slaccia il colletto. «E lo stesso vale anche per te.»
«Sul fatto di riuscire a sopportarti?»
«No, sul fatto di non essere poi tanto male; quando non fai lo stronzo.»
L’ascensore si ferma.
Mano nella mano, raggiungiamo l’appartamento. Suoniamo il campanello. Da dentro un miscuglio di voci e musica. Suoniamo ancora.
La porta si spalanca e riconosco la voce di Florence che canta You got the love.
«Giulietta!» Un ragazzo in completo bianco e papillon abbraccia Giulia e la bacia sulle guance. Perlomeno non sono il più elegante. «Alla fine ti sei decisa a presentarci il tuo boy.» Mi squadra da testa a piedi.
Un secondo ragazzo, vestito pure lui come un gelataio, si avvinghia al primo appoggiandogli il mento sulla spalla. «E brava la nostra bimba, sempre più giovani ce li troviamo.»
«Non fate gli stronzi pure voi, che già ci pensa lui a farmi sentire vecchia.» Giulia mi prende per il fianco e mi stringe a sé. «Lucio, ti presento Dani e Matteo, i padroni di casa. Se vuoi prendere appunti, loro sono cintura nera di coglionaggine.»
Veniamo fatti accomodare. All’interno una ventina o forse più tra ragazzi e ragazze, tutti più grandi di me, sono impegnati chi a ballare, chi a bere, chi a chiacchierare, chi a limonare. Giulia mi presenta a tutti quelli che la salutano. Già al terzo nome inizio a dimenticare quelli precedenti e ad annuire in maniera automatica.
Raggiungiamo il tavolo del buffet. La presa di Giulia si fa più debole. Mi giro e la vedo trascinata via. Fa appena in tempo ad alzare un dito per dire che ci vorrà solo un minuto, che scompare nella folla.
Proprio quello che speravo non accadesse.
Decido di versarmi un bicchiere di Coca, ma qualcuno mi arpiona la spalla. È Dani. O Matteo? Merda…
«Perché non lo chiediamo a lui? Lucio — giusto? — abbiamo un quesito filosofico da sottoporti. La qui presente Rosa» con un movimento plateale del braccio Danimatteo indica una ragazza con i capelli rosa e le orecchie ricoperte di piercing «sostiene che la scrittura inclusiva non può coesistere con la comunicazione pubblicitaria.»
«No, brutta checca, non storpiare quello che ho detto! Quello che sostengo, da cazzoditraduttrice che con le parole ci vive, è che l’uso di perifrasi e simboli grafici ancora poco conosciuti e privi di una grammatica condivisa rischia di spostare il focus dal contenuto alla forma, e questo in campo pubblicitario, se permetti, è un cazzo di problema.»
«Ok ok, come dici te. E tu Lucio? A favore della schwa negli spot dei detersivi e fanculo quella bigotta della sciura Maria o la pensi come miss delicatezza?»
L’attenzione dei presenti si concentra su di me e non ho idea di cosa cazzo stiano parlando. Devo inventare qualcosa. «Ecco, a mio avviso… un punto d’incontro… un punto d’incontro forse c’è.» Tutti mi osservano in attesa della rivelazione. «Il principio di Colby: se dall’esterno non puoi cambiare lo status quo, prova dall’interno, per quanto piccoli siano all’apparenza i risultati.»
Nessuno dice nulla.
Danimatteo alza gli occhi. «Colby… Non mi è nuovo. Come fa di nome?»
«Terry, mi pare.»
«Terry Colby…» Si blocca. «Ma non è un personaggio di Mr Ro—»
«Scusa l’attesa!» Giulia mi prende sottobraccio e mi dà un bacio sulla guancia. «Ok, gente, interrogatorio concluso. Questo ragazzo ora è mio per almeno i prossimi 10 minuti.»
Ci facciamo largo tra la calca danzante ed entriamo in una camera ricolma di tele appoggiate le une sulle altre lungo le pareti. Al centro, su un cavalletto, un quadro non ancora ultimato ritraente i volti di Dani e Matteo che si baciano.
Giulia chiude la porta e vi si appoggia con la schiena. «Scusa. Avevo scordato cosa significa essere quello nuovo.»
«Poteva andare peggio. Se m’interrogavano di chimica, lì sì che sarei stato nella merda.»
Ride. Dio quanto è bella. «Grazie.»
«Di cosa?»
«Per esserci. Per essere qui con me. So bene quanto possa essere difficile all’inizio.»
«Quindi andando avanti diventa più semplice? Ti prego, dimmi che è così!»
Giulia abbassa gli occhi. «Vorrei che lo fosse, ma non succede sempre. Per alcuni non lo è mai.»
Passo l’indice sulla cornice impolverata di un quadro raffigurante un letto con le lenzuola disfatte. «Suppongo allora che la prossima volta sarà il mio turno in fatto di presentazioni.»
«Soltanto se lo vorrai. Non abbiamo fretta.» Si avvicina e mi prende le mani tra le sue. «Sono certa che saprai riconoscere il momento.»
Abbasso gli occhi sulle nostre dita intrecciate. «Ho il terrore che tu riponga troppa fiducia in me.»
Scuote la testa. «La mia non è fiducia. Io credo in te. E credo in noi.»
Filo stringe le dita attorno ai capelli del ragazzo legato alla sedia, gli solleva la testa. «Signori, vi presento Giulio.»
La gola mi si chiude.
La mia ragazza è davanti a me. Mi fissa, ma non mi vede.
Filo lascia la presa e si pulisce la mano sui jeans. «Girano voci sul nostro amico. Beh, alcune non sono proprio voci. Tipo il fatto che gli piaccia vestirsi da donna.» Indica un mucchietto di vestiti a lato della sedia, gli stessi che Giulia indossava ieri notte. «Il problema è che a quanto pare gonna e rossetto non gli bastano più. No, a lui ora piacciono anche i ragazzini. Dico bene, Giulio?»
Giulia solleva la testa e sorride. Uno degli incisivi è spezzato. «Mi spiace deluderti, ma a me interessano soltanto i cazzi dei veri uomini. Se ti abbassi i pantaloni te lo dimostro… Oh, stupida che sono. Dimenticavo che qui il ragazzino sei tu.»
Filo scoppia a ridere. Col pollice indica Giulia e guarda i suoi amici. «Simpatica, vero?» Il sorriso si piega in una smorfia di disgusto e col dorso della mano la colpisce in pieno volto. Il cane inizia ad abbaiare. «Devo riconoscere che ne hai di palle, per essere una checca.»
Il tizio col pitbull si avvicina ai vestiti di Giulia e fruga nelle tasche, mentre quella merda di cane le annusa un piede mostrando i denti. «Chissà se ne avrà ancora dopo aver dato un’occhiata a questo.»
Il tizio armeggia con qualcosa, ma Filo glielo strappa dalle mani.
Gli occhi di mio fratello incrociano i miei. In mano tiene il cellulare di Giulia.
Sono fottuto.
Lo accende. Fa una smorfia. «Suppongo tu non sia interessato a condividere il tuo pin, vero?»
Giulia risponde mandandogli un bacio.
«Come preferisci.» Filo lascia cadere il cellulare e lo colpisce più volte col tacco dello scarpone fino a spaccarlo. «Non importa. È tempo di regali.» Infila la mano sotto la giacca e mi porge il pacchetto.
Le mani mi tremano. «Filo, cos’è sta follia?» gli sussurro.
«Zitto e scarta.»
Rompo una delle pieghe laterali e strappo la carta, svelando una scatolina anonima in cartone. Appoggio i pollici sulla linguetta di chiusura e la sgancio. All’interno trovo un portachiavi in acciaio a forma di teschio con le orbite cave.
Prima che possa dire nulla, Filo prende il portachiavi e butta via la scatola. «Distendi le dita.» Mi prende una mano e infila medio e anulare all’interno delle orbite del teschio. «Ora richiudi.» La fronte scompare nel palmo, lasciando visibili soltanto i denti.
Osservo il tirapugni stretto tra le mie dita senza riuscire a dire nulla.
Filo mi prende la testa tra le mani e mi obbliga a guardarlo. «Non avere paura. Io sarò sempre al tuo fianco. So che farai la scelta giusta.» Mi abbraccia e avvicina la bocca al mio orecchio. «E poi mica vorrai che la gente pensi che sei frocio?» Lascia la presa, si fa da parte.
«Picchia! Picchia!» gridano i suoi amici.
Avanzo.
Giulia è di fronte a me. Sulle guance le lacrime sciolgono il sangue rappreso. Eppure sorride, non so dire se per sfida o perché mi abbia riconosciuto sotto il passamontagna.
«Picchia! Picchia!» I piedi battono per terra.
La guardo e come quella prima volta mi sento piccolo.
«Picchia! Picchia!»
Vorrei dirle che andrà tutto bene, che è tutto uno scherzo, che stasera andremo da Dani e Matteo e che passeremo la sera a parlare di musica e di futuro.
«Picchia!Picchia!Picchia!»
Vorrei dirle che è bellissima e che la amo e che anch’io credo in noi.
«Picchiapicchiapicchia!»
Vorrei dirle tante cose.
Invece sollevo il braccio e inizio a colpire.