Semifinale Matteo Bertone

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) Il 17 febbraio sveleremo il tema deciso da ALBERTO BÜCHI. I partecipanti dovranno scrivere un racconto e postarlo sul forum.
2) Gli autori si leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Il BOSS assegnerà la vittoria.
Avatar utente
Spartaco
Messaggi: 997

Semifinale Matteo Bertone

Messaggio#1 » martedì 16 marzo 2021, 9:05

Immagine


Eccoci alla seconda parte de La Sfida a L'angelo trafitto
Combattono in questa semifinale:

Sauro sorvived, di Polly Russell
Devo fare pipì, di Giovanni Attanasio

In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi possono sfruttare i giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: mercoledì 18 marzo alle 23:59
Limite battute: 21.666

Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 18 marzo. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



Avatar utente
Giovanni Attanasio
Messaggi: 322
Contatta:

Re: Semifinale Matteo Bertone

Messaggio#2 » mercoledì 17 marzo 2021, 18:06

Devo fare pipì
di Giovanni Attanasio

È facile per me essere felice. Davvero. È facile: basta non rompermi i coglioni.
 «Orfanotrofio St. Peter, come posso esserle utile?»
 Era ora! «Sì, allora, ho qua dei documenti che mi avete mandato e—»
 «È il signor Bennet che parla?»
 «Proprio lui.» Calmati, imbecille, non devi rimorchiarla. «Questi documenti sono sbagliati. Li avete mandati alla persona sbagliata.»
 «Le assicuro, signor Bennet, che è tutto regolare.»
 «Regolare il cazzo!» batto il palmo sul mobiletto e la cartella casca per terra. «Io non ho mai parlato con voi, la vostra direttrice o qualcuno dai vostri merdosi servizi di adozione. Io non ne voglio figli, sono stato chiaro? Pronto!?»
 «Signor—»
 «Ascoltami, io non ce l’ho con te, va bene? Non hai fatto niente, lo so, ma qualcuno in quella baracca dove lavori ha fatto una stronzata. Passami la dirigenza.»
 «Signor Bennet, le posso dare un numero a cui chiamare.»
 «E dammi il numero, allora! Dammi qualcosa. Io non ne voglio più figli, va bene? Ve la dovete riportare indietro!» Ma sentila, mi piange al telefono. «Mi calmo, signorina. Mi sono calmato. Detta il numero, dai.»
 Schiocco le dita e due manine mi passano carta e penna.
 «Signor Bennet?»
 «Sono qua, sì. Il numero.»
 «Tenga la bambina, per favore. Non posso darle alcun numero.»
 Sbatto la cornetta sul mobiletto. Si spacca subito. «Non mettere quelle mani in mezzo tu, non ti azzardare!» spingo via il vestitino a fiori e ritorno ad accanirmi sul telefono: questo affare infame non deve squillare mai più.

Questo è l’odore che voglio sentire, proprio questo. Sudore, ormoni, il mio bel cazzo che strappa grida alla puttana tra le lenzuola.
 «Piano, Nathan!»
 Mi spinge via le dita dai capezzoli. L’agguanto per i capelli con la stessa forza con cui la rabbia si aggrappa a me.
 «Sei indemoniato?» farfuglia, mentre la sua carne si fa liquida: le piace il dolore. Piace a tutti.
 La premo contro la testata e lei guaisce. «Voglio venire dentro. Voglio creparti addosso.» Afferro il cazzo sudato e glielo sbatto sui peli irsuti.
 «Sì, moriamo assieme—» e grida, prendendomi per i polsi. La sto strozzando. La tengo inchiodata tra i cuscini mentre la sua faccia si fa rossa. E spingo. Forte. L’afferro per le guance e le sue labbra formano una bella O. Succose, rosse, il sipario perfetto per nascondere il giallo dei suoi denti. Le do uno schiaffo. Non replica. L’accartoccio a gambe all’aria contro la testata.
 «Cristo, Nathan! Piano!»
 Zitta. Per favore, taci.
 «Mi spezzi le gambe!»
 Allento la presa e mi lascio cadere all’indietro. Lei arranca, gocciolando sulla mia pancia. Prende la mira e si siede. Butto il capo all’indietro mentre duecento chili di succulento grasso straniero minacciano le doghe del letto.
 «Nathan?»
 «Voglio venire! Muovi quel culo.»
 «C’è tua figlia...»
 Mi giro. «Che cazzo fai lì? Vattene a dormire!»
 «Dai, povera piccola, perché gridi?»
 «Senti, Cristal o come ti chiami, prenditi due banconote dal cassetto e levati. Mi faccio una sega.»
 Si asciuga le cosce e la fica col mio cuscino e prende tre banconote. «Che vuoi? È per la terapia.»
 «Ma che terapia?»
 «Mi hai quasi rotto la gamba.»
 «I fast-food ti hanno rotto la gamba, non io!»
 «Sei proprio uno schifo d’uomo.»
 Va bene, come dici tu.
 La bambina nel frattempo è ancora là. Rubo un pantalone dal cassetto e mi avvicino alla porta. Mia figlia? Ma non diciamo idiozie. La mia bambina è solo una, e non ha mai avuto questa faccia da rincoglionita.
 «Che hai? Il divano è scomodo?» la mia mano è grande quanto la sua testa. «Sai parlare? Capisci quello che dico? Fai sempre no con quella testa,» la spingo, «ti sei pisciata addosso?»
 Ah, stavolta ha detto sì. Apre la bocca: «Scusa.»
 «Scusa di che?»
 «Il divano.»
 «Fottitene, quel divano ha visto cose peggiori. Il tuo piscio è profumo, a confronto.»
 Fa un salto in avanti e si aggrappa alla mia gamba. «Scusa, papà. Lo pulisco.»
 «Ho detto che va bene, Klara.» Klara, sì, era scritto così sul foglio d’adozione. «Che hai lì nella mano?»
 Allunga il palmo. «L’ho trovata vicino la porta.»
 Questa la ricordo: la polaroid di mia moglie faceva foto veramente di merda. Dietro c’è ancora la scritta. “Fidati sempre della tua famiglia, Nathan, soprattutto di tua figlia. E ridi, che fai schifo con quel grugno.”
 «Sei arrabbiato?»
 «Vattene, Klara, per favore. Vai a farti il bagnetto e dormi.»
 «Papà, piangi? Io—»
 Le mani parlano per me. Klara barcolla e cade sul sedere. Le cola sangue dal labbro. Devo incontrare Francis, questa stronzata dell’adozione va risolta.

Lo sanno chi sono, nel quartiere. Lo sanno che picchio le puttane, che picchio i ragazzini che mi insultano, che picchio tutto ciò che ho sotto mano. Lo so cosa pensano. E quello che ci fa con una bambina in braccio? La stupra. Ci gioca. Picchia pure lei.
 «Che cazzo guardate?!»
 La coppietta cambia strada.
 Klara mi tira una ciocca, poggia la guancia contro la mia. Le piace la barba, perché a tutte le bambine piace la barba di papà. Avevi la sua stessa età, Beth.
 «Papà piange ancora?»
 «No. Non si piange fuori casa.»
 «Perché?»
 «Perché?» chissà perché. «Tu puoi piangere.»
 «Sono felice, non devo piangere.»
 «Felice? E di che?»
 C’è una crosticina rossa sul suo sorriso. «Sto facendo una passeggiata con papà. Mi tieni in braccio perché sono speciale.»
Smettila, Klara. «Dove sono mamma e papà? Quelli con cui stavi prima dell’orfanotrofio?»
 La morte brilla nei suoi occhi, e su quelle pupille di cristallo pare ancora più vivida.
 «Pipì.»
 «Adesso? Siamo quasi da Francis.» Agita le gambe e devo metterla a terra. Mi porge la mano. «Falla dietro il cassonetto, io sono qua.»
 «Ci sono le persone.»
 «Non ti vedono.»
 «Le persone sono cattive.»
 «Resto qua io a proteggerti.»

Busso due volte. Io e Francis ci stringiamo la mano. Da quanto non lo vedo? Parliamo solo via telefono. Controllo che sia davvero lui: ha la faccia come il culo, oggi come vent’anni fa.
 «Allora è vero.»
 «Ti ho mai detto stronzate?» mi lancio sulla poltrona. Klara scatta e si accuccia. «Hai visto come fa?»
 «Mi pare normale. Sei suo padre adesso.»
 «Due firme su un pezzo di carta non significano nulla.»
 Francis lega la zazzera in un codino. «I figli veri sono quelli che escono dalle cosce di una moglie sudata che sputa. Parole tue.»
 «Non è questo il problema, cazzone,» Klara si stringe ancora più fitta.
 «La devo visitare? Che devo fare, Nathan?»
 «Telefona a qualcuno, chiedi se quei fogli hanno senso. Ti lascio i fascicoli.»
 «Non la vuoi?»
 Chiudo gli occhi. Beth, sei tu la mia preferita. «Non posso badare a una bambina, Francis. Dalle una guardata veloce e dimmi se sta bene. Poi la riporto indietro.»
 Lui si gratta la testa e avanza. Klara mi fissa. Francis è a un passo dalla poltrona, il camice sventolante e odoroso di menta. Klara annusa l’aria. Le piace?
 «Wow! Cazzo.» Scatto dalla poltrona e tengo la bimba sospesa a mezz’aria. «Di nuovo!?» da sotto la gonnellina gocciola piscio.
 «Le succede spesso?»
 Alzo la testa verso Francis: ha la faccia da dottore, adesso. «Ogni notte bagna il divano. Poi resta così.»
 «Nemmeno una parola?»
 «Qualcuna. La mattina dopo torna fresca.» Klara zampetta verso di me e mi abbraccia. «Ti giuro che non le ho fatto niente.»
 «Nathan, non trattarmi da sconosciuto.»
 «Non volevo offenderti. È che non so nemmeno io di cosa cazzo sarei capace. Sono fuori di me. Ho mandato un ragazzo all’ospedale, il mese scorso. Ieri notte ho maltrattato una puttana. Mi sto perdendo, Francis.»
 «Devi stare calmo. Tua moglie e Beth non avrebbero mai voluto vederti in questo stato.» Mi passa una sigaretta e l’accendino. «Non sprofondare troppo, amico mio. Fallo per loro.»
 «Perché mi hanno dato questa bambina? È legale? Non ho espresso il mio consenso.»
 «Devi andare dalla polizia, non da me.» Legge due righe dai documenti. «Questa è la tua firma, Nathan. Se qualcuno ti ha incastrato in questa adozione, ha avuto accesso a tutti i tuoi dati sensibili.»
 Mi passo una mano sul volto, lavo via ogni pensiero. «Che altro c’è?»
 «Non abbandonare questa bambina, Nathan. Per come la vedo io, è la tua seconda possibilità. Fidati di lei come lei si fida di te.»
 «Falle una visita rapida.» Sospiro e spingo la bimba verso di lui: «Capito, Klara? È un dottore, deve vedere se stai bene.»
 Francis prende gli aggeggi del mestiere e si inginocchia. Klara mi sogguarda. Punta gli occhi su di lui e si paralizza. La sua mano destra distende le dita: proietta le unghie verso il volto di Francis.
 «Klara!» la tiro via, ma lei continua ad artigliare l’aria. «Francis? Sanguini?»
 «Sto bene, Nathan.» Si rimette in piedi.
 «La porto in ospedale?»
 «Assolutamente no.»
 Non mi piace questa versione di Francis. Ridi, cazzone, che è quella faccia seria? Klara è tra le mie braccia, la testa nascosta e il corpicino che freme. È tutta colpa sua. Le sollevo il viso verso di me e stringo il pugno.
 «Nathan, che stai facendo?»
 Rimetto la mano in tasca. «Niente. Ce ne andiamo, scusa il disturbo.»
 Mi chiudo la porta alle spalle.

A duecento metri c’è il parco. Quattro alberelli senza foglie a circondare un agglomerato di aiuole orribili e statue imbrattate di graffiti. Klara è appesa al mio braccio, si lascia trascinare.
 «Grazie, papà.» Mi fermo. «Mi hai protetta dall’uomo cattivo.»
 «No, Francis ha protetto te dai miei ceffoni!» faccio un passo lontano da lei: voglio una prospettiva chiara di chi ho davanti. «Perché lo hai graffiato?»
 «Mi voleva fare male.»
 «Quell’uomo è un santo, Klara, lo sai cosa significa? È buono ed è gentile. Lo capisci?»
 «I dottori sono cattivi. Solo papà è gentile.»
 «Non chiamar—» mi tappo la bocca. La gente ci passa accanto, porta a spasso il cane e si gode due minuti di sole. «Devi imparare a stare con tutti gli altri, Klara. Dottori inclusi.»
 «No, solo con papà.»
 «Puoi aspettare qui? Vado dietro quel cespuglio a fare pipì.» Smettila, Beth. Zitta. Sei troppo sveglia. «Resta lì, Klara. Non vado da nessuna parte.»
 Mi acquatto dietro le frasche. Avvicino la fiamma dell’accendino ai documenti dell’adozione. Respira, Nathan. Respira. Devi solo correre, adesso. Corri lontano, verso il bosco. Uno, due e tre!
 «Signor Nathan!?»
 Emergo dal cespuglio: c’è una donna con Klara.
 «È lei il signor Nathan?» cammina verso di me, con la piccola appresso.
 «Sono io, sì.» Fisso Klara. «Che è successo?»
 «È sua figlia, vero? Piangeva e quando mi sono avvicinata mi ha detto che papà Nathan voleva scappare.»
 «Scappare? Ma quando mai!» ridi, pezzente. Ridi. «Dovevo solo andare al gabinetto.»
 «Lo so che non era scappato, si figuri, ma una bambina innamorata di suo padre può credere qualsiasi cosa. I figli ripongono tutta la loro fiducia nei genitori, ma a volte anche loro hanno qualche dubbio.»
 «Lo so bene. Senti, ti posso offrire qualcosa? Per aver tenuto a bada la piccola.»
 «Certo. Sono Jasmine.»
 «Jasmine.» Abbasso gli occhi: Klara sembra calma. «Non sei obbligata ad accettare la mia offerta, Jasmine. Se hai da fare, fa—»
 «Dobbiamo andarcene, signor Bennet. Di corsa.»
 Ehi, aspetta due secondi. Quando le ho detto il cognome?
 «Corriamo, signor Bennet. Prenda Klara in braccio.» Nella borsetta brilla la canna di una pistola. «Faccia strada.»

Non ci credo. Corro come un pazzo nel sottobosco con una pistola incollata al culo.
 «Se vuoi soldi basta—»
 «Giù!» Jasmine mi spinge e io e Klara ruzzoliamo tra l’erbetta umida. Quando apro gli occhi, Jasmine punta il cannone verso gli alberi e apre il fuoco. Klara si accuccia e io mi stringo a lei.
 «Non si muova, signor Bennet!»
 «A chi cazzo stai sparando?!»
 «Francis non le ha detto niente? Dobbiamo proteggere la bambina!»
 «Sei stata da lui?»
 «È ininfluente. Dobbiamo proteggerla.» Sfila il caricatore e lo mette in tasca. Prende il secondo. «Forse si sono arresi.» Lo infila e il carrello scatta in posizione. «Oggi non tornerà a casa, signor Bennet. Ho già affittato una stanza d’albergo.»
 «Non esiste. Io non vado da nessuna cazzo di parte!»
 Jasmine mi poggia il tacco sulle palle. «Klara è una bambina speciale, pezzo di imbecille. È solo un caso che l’abbia affidata a te, come è un caso che adesso sia inseparabile da te. Lei funziona così.»
 «Funziona? Ma chi è?»
 «Un esperimento genetico fallito.»
 «Prendila con te, non voglio saperne niente di esperimenti e altre stronzate da film. Voglio tornare alla mia vita!»
 Lei preme il tacco e io mi mordo la lingua. «Che vita? Perdersi nel sesso e nella violenza?» Klara vibra tra le mie braccia: la tengo fitta. «Non ho scelta: separarti da quella bambina significa morire.»
 «Non me ne frega niente. Vai dai tuoi superiori e lamentati con loro!»
 «Non hai capito.» Allenta la pressione del piede. «Se puntassi questa pistola contro di te, lei mi farebbe a pezzi.»

Jasmine adagia una tazza sul tavolinetto. Sbircio: sembra normale tè. Colgo il riflesso di Klara su una vetrinetta.
 «Vuoi che ti racconti tutta la verità sul passato di Klara?»
 «No.»
 «Bene.» Sorseggia il tè. «Ma che tu lo voglia o meno, sei obbligato a tenerla con te.»
 «Gli animali si tengono, i bambini si crescono
 Jasmine sogghigna. «Lo prendo come un sì.»
 «Lo prendi come un vaffanculo. Adesso io mi alzo ed esco dalla stanza, sentiti libera di imbottirmi il culo di piombo.»
 «Klara ti seguirà, non posso fermarla.» Beve un altro sorso. Gli occhi della piccina sono incollati ai miei. «Lo so che hai perso moglie e figlia in un incidente, so che sei pieno di odio e ti senti inadatto a crescere un’altra figlia. So tutto. Ma quella bambina si fida di te in un modo che non so descriverti a parole. Non puoi abbandonarla, perché ti ha scelto e non ci sarà arma o sedativo in grado di tenerla lontana da te.»
 «Non posso.»
 Striscia la sedia sul pavimento. «Ti lascio un giorno per pensare, resterò nei paraggi. Quella la sai usare?»
 «Sì.»
 «Spara a qualsiasi cosa allunghi le mani su di lei.»
 Il metallo è freddo. Potrei puntarmelo alla tempia e finirla così. Rivedrei mia moglie, mia figlia. Nessuno mi romperebbe più i coglioni.
 «Papà?»
 Sarei felice.
 «Che fai?»
 Sarei felice?
 «Papà, non piangere.»
 La porta si chiude e siamo soli.
 «Vuoi giocare, Klara?»

Non sognavo la mia bambina da anni. Perché la sua faccia è così simile a quella di Klara?
 «Papà!»
 Grida dall’altra stanza. Sono arrivati, come temeva Jasmine. Se Klara è davvero pericolosa come sostiene, dovrebbe poterli uccidere da sé.
 «Papà, aiuto!»
 Non muoverti, Nathan. Al massimo la portano via. Sei libero. Fermo.
 Fisso le ombre sotto la porta. Gli scarponi maltrattano il parquet. Rumore di vetri, di lotta. Legna spaccata, metallo piegato. «Tenetela ferma!» gridano. «Mira al cuore! Uccidila, fanculo gli ordini!»
 No!
 «Mani in alto, pezzi di merda! Gettate le armi!» È lì tra le braccia di sconosciuti, spenta. Si voltano. Spara, Nathan. Spara.
 Premo il grilletto. No, non io. Loro?
 «Papà!»
 Le ginocchia cedono. «Scappa, piccola!»
 «Ti fanno male!»
 Scivolo e cado di faccia. È rosso. Tutto. Perché io, Klara? Mai fidarsi di un uomo che ha perso la speranza. Cosa volevi mettermi nel cuore, un pizzico di polvere di stelle e un sorriso? La vita non è una favola.
 Un altro colpo di pistola. Sono morto. Arrivo, Beth.
 «Alzati, Nathan!»
 Spalanco gli occhi. Un tornado di pugni e calci mette al tappeto tutti i bastardi. Jasmine?
 «È così che ripaghi la sua fiducia, razza di imbecille?! Lotta per tua figlia!»
 Tirano Jasmine per i capelli. Klara graffia e scalcia. Non so cos’abbia in quelle mani, ma le sue unghie strappano i passamontagna e la carne che ci sta sotto. Fiotti di sangue. Pezzi di carne come in macelleria. Quelli cadono uno a uno sotto le sferzate e i morsi. Poi un calcio in pieno stomaco mette fine alla ribellione del mio piccolo demonio. Non toglietemi un’altra figlia, per favore.
 Ne è rimasto solo uno. La canna del fucile preme sul mio cranio. No, stronzo, la regola vale pure per te: non devi rompermi i coglioni. Rotolo e sparo verso l’alto. Il proiettile gli entra nell’occhio.
 Dov’è Klara? È viva. Dev’essere viva. È una bambina speciale, vero Jasmine?
 «Piccola mia, mi senti?»
 «Sei felice, papà?»
 «Ma che dici?! Ti hanno quasi ammazzata!»
 «Però ridi.» Mi tocca la faccia. «Sei bello quando ridi.»
 «Dove vai? Ferma, sei ferita!»
 «Devo fare pipì.»
 «Hai rotto con questa pipì! Non è il momento.»
 Jasmine ride alle mie spalle. Mi prende per il culo?
 Klara si ferma accanto alla porta del bagno. «Resta lì, papà. Non vado da nessuna parte.»
"Scrivo quello che voglio e come voglio. Fatevelo piacere."

Avatar utente
Polly Russell
Messaggi: 812

Re: Semifinale Matteo Bertone

Messaggio#3 » mercoledì 17 marzo 2021, 23:13


Sauro survived

Sauro era arrivato con il motore e i fari spenti, aveva lasciato il vecchio scooter a un centinaio di metri dalla villetta e aveva proseguito a piedi. Non c’era nessuno per strada, era un quartiere tranquillo, poche case distanti tra loro e un’illuminazione pubblica quasi inesistente.
Si alitò sulle nocche arrossate e si strinse nelle spalle, un po’ per il freddo e un po’ per la paura. Non era davvero sicuro di cosa avrebbe fatto, né di come, l’unica cosa certa era il cuore che pompava all’impazzata e i pensieri che vagavano come falene impazzite attorno a una luce.
Infilò la mano nelle mutande ed estrasse la pallina avvolta nella pellicola. Gli tremavano le dita e nel tentare di aprirla ne rovesciò a terra una buona metà. Ringhiò un’imprecazione tra i denti e tirò su col naso quella che era rimasta in una volta sola. Si strinse le narici tra pollice e indice ed espirò dalla bocca, poi tirò su di nuovo.
Aveva bisogno di un po’ di coraggio e lo Speed del Duca era la fonte più vicina e sicura da cui attingerne.
Non c’erano auto nel vialetto. Fece una rapida corsa attorno alla casa: solo una bicicletta rosa abbandonata nel prato. Le luci all’interno dell’abitazione erano spente. Avevano di certo cambiato la serratura dall’ultima volta che aveva fatto visita alla villetta, ma la porta sul retro, l’avevano ancora lasciata aperta.
Si appoggiò allo stipite e aprì piano, attento a non fare alcun rumore. Superò la tavernetta e raggiunse la cucina. — Sei prevedibile — disse tra sé.
C’era puzza di stantio: una catasta di piatti sporchi marciva nel lavandino, l’isola era anche più ingombra e il pavimento era peggio di quello della stanza che divideva con altri tre disperati, al centro sociale.
Aveva bisogno di soldi se voleva andarsene da quella città merdosa.
Frugò nei pensili alla ricerca del barattolo del caffè, l’ultima volta ci aveva trovato una bella cifra. Cacciò le dita nella polvere nera che gli si infilava nelle unghie mangiucchiate, senza alcun risultato. — Merda! — Lasciò il barattolo sul ripiano. — Dove diavolo li tieni?
Doveva portare via Giulia, e lei non era in condizione di aspettare.
Un rumore strascicato lo fece saltare. C’era qualcuno?
Forse solo un gatto fra i bidoni; comunque non poteva scappare. Non ancora. Non adesso.
La porta che dava nel salotto si spalancò di colpo.
— Ma che cazzo ci fai tu, qui? — L’orso bruno in canottiera e boxer brandiva una grossa chiave inglese e gli stava urlando addosso. — Ti avevo detto di non farti più vedere, tossico di merda!
— Prendo Giulia e me ne vado. — L’aveva detto davvero? Non ci credeva nemmeno lui. Da quanto tempo avrebbe voluto farlo? Finalmente aveva trovato il coraggio, oppure la roba del Duca manteneva le promesse.
Appoggiò la sinistra sull’isola.
Quel coltello non avrebbe dovuto essere lì.
— Andiamo, — disse, passandolo nella destra. — Chiama Giulia, falla scendere e nessuno si farà male. — La voce gli tremava più di quanto avrebbe voluto, ma con la morsa che gli stringeva stomaco e viscere non avrebbe potuto fare di meglio.
L’orso davanti a lui si concesse una risata. Era grosso come un armadio: mani, braccia, gambe. Un mostro irsuto e insormontabile. Era due volte lui e puzzava. Un puzzo nauseante che gli chiudeva la gola.
Erano fatti così i suoi incubi e avevano quell’odore: da sempre.
— Hai un bel fegato a tornare qui, devo concedertelo. — Il mostro si grattò le palle e mosse un passo verso di lui. — C’è un’ordinanza restrittiva, devi stare a cento metri da lei.
La voce gli arrivava distorta, non poteva essere tanto profonda. La sentiva scavare nelle orecchie e pulsare nel torace. — Non te lo ripeterò, lasciala scendere.
— Non ci sei riuscito prima e non ci riuscirai nemmeno adesso, ragazzo. Non mi porterai via la mia bambina!
— Non chiamarla così, bastardo! — gli urlò contro Sauro. — Non chiamarla affatto!
— Ragazzo, tu hai bisogno di quell’educazione che quella puttana di tua madre non ha saputo darti! — Gli si scagliò contro, la chiave inglese sopra alla testa.
Quanto poteva essere veloce un mostro?
Doveva difendersi, doveva attaccare!
Invece no.
Si rannicchiò a terra, le braccia sulla testa e gli occhi chiusi.
Fa paura, il buio. È pieno di mostri. Arrivano di notte e ti afferrano tra le coperte.
E non esiste un posto sicuro, non ci sono angoli dove tu possa nasconderti, perché i mostri li conoscono tutti.
Il cuore picchiava contro la cassa toracica così forte che Sauro temette sarebbe scoppiato.
Il dolore esplose sulla spalla e saettò lungo braccio e la schiena. Sauro guardò oltre la barriera delle proprie braccia, il mostro grugniva e imprecava. Stava caricando il secondo colpo e non si sarebbe fermato.
E Giulia?
Strinse i denti e le dita, scattò in piedi.

Il rumore di spugna strappata fermò il tempo. Il sangue caldo sulla sua mano lo fece ripartire.
L’orso sopra di lui sbuffò prima di crollargli addosso. Sauro riuscì a spingerlo indietro, non credeva di essere tanto forte.
L’altro cadde sul lavandino e rovinò a terra trascinandosi dietro una cascata di piatti sporchi.
Sauro fece un passo indietro e andò a sbattere contro una sedia. Arrancò cercando un appoggio, il coltello sembrava incollato alle dita strideva, in acuti stonati, contro l’isola.
Lo lasciò cadere e un conato di disgusto lo piegò in due.
Il mostro si muoveva ancora, scatti convulsi seguivano il ritmo dei fiotti rossi che gorgogliavano dal suo ventre aperto.
L’ultimo spasmo drizzò le gambe dell’orso che si pisciò addosso e smise di muoversi.
Sauro si strinse l’addome e vomitò saliva e Wodka scadente.
Afferrò il bordo del lavandino per sollevarsi in piedi, i muscoli delle gambe e delle braccia non smettevano di tremare e ora aveva anche freddo. Spostò i piatti e le pentole che erano rimasti e si fece spazio per lavarsi il viso.
Chi diavolo era quello che lo fissava dal fondo di un vassoio d’alluminio?
Lui non aveva quelle occhiaie, nemmeno quelle guance scavate.
Allungò la mano alle proprie spalle alla ricerca della sedia su cui aveva sbattuto e ci crollò sopra.
Il sangue del mostro si allargava in una macchia regolare, sospinta da fiotti sempre più lenti. Spostò appena un po’ il piede, quando lo specchio cremisi lo lambì.
Strinse gli occhi concentrato sul corpo a pochi passi da lui: non era un mostro. Non più almeno.
Era un uomo di mezza età, i capelli ingrigiti e una barba poco curata incorniciavano un viso di cera.
Non sembrava più nemmeno tanto grosso, probabilmente era anche più basso di lui.
Un cinquantenne con il doppio mento e una pancia flaccida coperta di sangue; e due occhi del tutto simili ai suoi. Solo che questi fissavano, vitrei, un punto vuoto del soffitto.
“Giulia, quello non era tuo padre, era un mostro; e io ti ho salvato.” In che altro modo avrebbe potuto spiegarlo?
Un singhiozzo lo fece trasalire. Sarebbe saltato in piedi se ne avesse avuto la forza, invece si limitò a spostare lo sguardo sulle scale, oltre la porta.
Un paio di piedini scalzi, due gambe nude e una canottiera strappata.
— Papà? — domandò lei tra le lacrime.

— Papà?
Certo che era suo padre, chi altri poteva essere a quell’ora di sera e con le chiavi di casa?
Sauro corse in cameretta, si affacciò sul lettino, una mano premuta contro la bocca per soffocare il fiatone: sua sorella stava dormendo. Per fortuna. Socchiuse la porta e si precipitò di sotto.
— Sono a casa!¬
Urlò suo padre. Un cigolio sommesso, la porta dell’ingresso principale era stata chiusa. Corse in cucina, spalancò il frigorifero e prese una bottiglia birra. La poggiò sul tavolo accanto al panino che aveva preparato nel pomeriggio. Tintinnio di chiavi. Suo padre le aveva lanciate sul mobile all’ingresso.
Aprì la birra e sgattaiolò in taverna. Se non lo avesse visto, sarebbe andato tutto bene.
Magari se ne sarebbe andato a letto.
— Sauro, vieni qua!
Il ragazzino ingoiò il groppo che gli si era formato in gola e si affacciò dalla porta. Lo sguardo incollato al pavimento.
— Che diamine fai lì nascosto. Vieni, ti ho preso un regalo di compleanno.
Avanzò di un paio di passi allora, il cuore gli martellava nel petto.
— Cos’è quella faccia? Non dirmi che hai preso un altro brutto voto, ragazzo!
Doveva rispondere. Si morse le labbra, le dita attorcigliate dietro alla schiena.
— No, nessun brutto voto.
— E allora vieni qua, guarda cosa ti ho portato. — Aprì il piumino e ne estrasse un cucciolo nero con le orecchie basse e il pelo arruffato.
Sauro sorrise, la morsa che gli stringeva lo stomaco si era allentata e una piacevole sensazione di calore fluiva dal petto alle braccia, poi su fino al collo.
Era un cucciolo adorabile. Allungò una mano per prenderlo.
— Prima devi darmi un bel bacio. — Suo padre allargò le braccia per accoglierlo. — Festeggeremo i tuoi tredici anni in un modo davvero speciale. — Si leccò le labbra e mostrò i denti. Quello non era un sorriso.
Suo padre si alzò: era diventato più alto, enorme. E cresceva sempre di più. Un mostro gigantesco e irsuto, tanto più grande di lui, tanto più forte.
Un orso bruno impossibile da fermare.
— No… — balbettò lui.
— No, che? — tuonò suo padre e la voce gli rimbombò fin dentro le ossa. L’orso strinse il cucciolo per la collottola strappandogli un guaito acuto e lo scaraventò nell’angolo opposto della stanza. Diede un pugno sul tavolo facendo cadere la bottiglia in terra. Un pianto disperato rispose, dal piano di sopra, al vetro infranto.
Il mostro gli diede un potente man rovescio e lo fece sbattere contro il lavello. — Hai sentito razza di idiota? Hai svegliato tua sorella! — Indicò il cagnolino allora, che continuava a guarire sempre più forte. — Forse dovrei regalarlo a lei, magari sarebbe più carina con me, che dici? Mi ringrazi tu, o inizio a farmi ringraziare anche da lei?
Gli occhi erano talmente pieni di lacrime che gli bruciavano, i muscoli del collo tesi e la gola che sembrava volersi strappare. — No, lei la lasci stare…
— Appunto. — Lasciò cadere il piumino a terra e si slacciò i pantaloni. — Spogliati, fai il bravo bambino. Fai vedere al tuo papà quanto gli vuoi bene.
Il pianto era così convulso che pensava sarebbe soffocato, non vedeva nulla oltre la macchia acquosa delle proprie lacrime e le mani non smettevano di tremare. Non ebbe il tempo di prendere fiato, suo padre lo afferrò per il collo e lo schiacciò sul tavolino. Strinse i denti così tanto che gli facevano male. Sentì spingere contro le gambe e un artiglio armeggiava con i suoi jeans.
— Piace anche a te, Sauro. — Aveva il tono mellifluo di sempre, la faccia tanto vicina alla sua che poteva sentire l’odore di birra e l’alito caldo. — O non mi gireresti sempre intorno. — Una stilla di saliva gli colò sulla guancia.
La sensazione di umido subito coperta da quella dolorosa della barba di suo padre che gli grattava la pelle.
Sauro chiuse gli occhi più forte che poté.
— Forza — continuò il mostro. — tanto lo so che ti piace, frocetto. Devi farlo tu, come ti ho insegnato.
E Sauro tirò indietro la mano, annaspando nel proprio buio personale, alla ricerca dei suoi pantaloni.


Sauro prese fiato. Un respiro profondo e forte; necessario per riemergere dall’apnea di ricordi. Si appoggiò al tavolo e si alzò in piedi. — Aspetta, non scendere! — urlò.
Un rumore acciottolato, una sorta di galoppo sommesso caracollò giù dalle scale. Il grosso cane nero superò di corsa la ragazzina facendola barcollare.
Abbaiò un paio di volte e si lanciò in cucina.
Si fermò di colpo davanti al corpo morto, diede un paio di annusate, poi saltò addosso a Sauro.
— Naruto! — gli urlò contro Sauro, e suo malgrado sorrise quando il cagnolone gli leccò la faccia. Gli fece una profonda carezza, gli afferrò le orecchie con garbo e gliele massaggiò, poi di nuovo guardò sulle scale. — Mi hai sentito Giulia? Non scendere.
— Sauro, sei tu? — chiese lei con voce stentata, dal tono era chiaro che avrebbe pianto da un momento all’altro.
Lui mollò la presa sul cane e si affacciò sulla porta. Le mani erano sporche di sangue, abbassò lo sguardo su di sé: anche la felpa e i jeans. — Giulia, posso spiegarti.
La ragazzina era seduta sul quarto scalino e aveva tirato la canottiera fin sopra le ginocchia. Il visetto schiacciato tra le sbarre della ringhiera. — Papà ha detto che non tornavi più. — Si pulì una lacrima sulla guancia, con il palmo. — Ha detto che sei cattivo e che eri in prigione. — Scoppiò a piangere e allargò le braccia. — Io lo sapevo che tornavi! — piagnucolò allungando l’ultima vocale. Le labbra arricciate con gli angoli in giù e gli occhi strizzati.
Sauro la raggiunse e si inginocchiò un paio di gradini più in basso di lei. — Ehi piccola? — La abbracciò e la strinse. — Mi dispiace se ti ho fatto aspettare. — Le prese il viso tra le mani e le accarezzò le gote con i pollici. Le acconciò i riccioli castani dietro le orecchie e cercò il suo sguardo. — Prima non ci sono proprio riuscito.
— Adesso sei qui, però.
— Sì, te lo avevo promesso, no? — La strinse a sé. Certo era tornato da lei, ma per portarla dove?
— Ti ha… fatto del male?
La ragazzina scosse la testa in modo veloce, convulso. Troppo per essere anche sincera.
— Giulia, — sussurrò con un filo di voce. — Ti ha fatto del male?
Lei si guardò intorno, poi chiuse le mani a coppa attorno al suo orecchio. — Non lo posso dire — bisbigliò.
— No, certo. Lo capisco. Lo so.
La prese in braccio e si alzò in piedi. — Andiamo a vestirci, ti va?
Lei annuì.
— Ti entra ancora la tuta con Stitch?
— Ma no! — ridacchiò Giulia e gli strinse le braccia attorno al collo.
La aiutò ad infilare una felpa e si mise a rovistare in un mucchio di vestiti e ciarpame, alla ricerca di un paio di scarpe.
— Mi porti con te, vero? — chiese lei, seduta sul letto.
E dove? I suoi diciotto anni li aveva compiuti in riformatorio e non sapeva dove avrebbe visto l’alba dei diciannove. — Io… — cercò le parole giuste, ripeté la frase tra sé un paio di volte. — Io ho bisogno che tu sia tanto coraggiosa.
La ragazzina sollevò una gamba per aiutarlo a infilarle una scarpa.
— Ci saranno delle persone che si occuperanno di te, per un po’.
Lei ritirò la gamba e le incrociò, strinse il piede tra le mani. — Tu hai promesso che mi portavi con te.
Sauro le sorrise e le riprese il piedino in mano. — Sì, e lo farò. Ma non posso farlo subito.
Si sedette dietro a lei e prese la spazzola dal comodino. — Le persone che verranno da te, verranno per aiutarti, ma ti faranno delle domande, ed è lì che dovrai essere coraggiosa e parlare con loro.
Giulia si strinse nelle spalle e abbracciò un vecchio peluche. Una brutta imitazione di Pikachu che gli aveva regalato lui. — Ci sono cose che non si possono dire. — bisbigliò, con la faccia sprofondata nella pancia del Pokemon. — Sono già venuti, l’anno scorso, ma io non potevo dirgli niente.
Sauro prese un respiro, almeno a qualcosa di quello che aveva dichiarato, alla fine, avevano creduto. Le legò i riccioli in una coda. — Non preoccuparti, prenditi il tempo che ti serve e sono sicuro che ci riuscirai, io ti aspetto. — Sfilò il cellulare dalla tasca dietro dei jeans. — Hai ancora la dama che ti avevo regalato?
— Quella di Peppa?
— Sì.
— Certo.
Le diede un buffetto sulla guancia e si alzò. — Allora prendila, facciamo una partita.
Si spostò verso la porta, Naruto uggiolò e saltò sul letto. — Faccio una telefonata e arrivo.
— Io voglio stare con te, ho paura da sola.
La guardò per un lungo momento. — Io sarò sempre con te, e ti proteggerò sempre. Però per un po’ di tempo saremo lontani. Ti fidi di me?
Giulia annuì forte e saltò giù dal letto. Si mise a frugare nella libreria.
Sauro si spostò in corridoio, soppesò il cellulare tra le mani e digitò il 113.
— Mi chiamo Sauro Del Vecchio, sono in via Vallemare al numero dodici, e ho ammazzato mio padre.

Polly

Avatar utente
Spartaco
Messaggi: 997

Re: Semifinale Matteo Bertone

Messaggio#4 » giovedì 25 marzo 2021, 19:35

Ho apprezzato in Devo fare pipì lo sforzo dell’autore nel cercare di costruire una storia dinamica, serrata e originale, e in Sauro survived la preparazione e la tensione che precedono il disvelamento del passato del protagonista, con ciò che ne consegue. Il punto debole di Devo fare pipì è la difficoltà che emerge nel controllo della scrittura, nella gestione dei dialoghi e nella struttura di una trama poco coerente ed efficace. Sauro survived invece pecca sul finale, in cui svanisce tutta l’intensità per lasciare spazio a una scena forzatamente amorevole e artefatta.

La scelta è stata difficile, ma opto per Sauro survived in cui mi sembra che la scrittura sia comunque più matura.

Torna a “La Sfida a L'angelo trafitto”

Chi c’è in linea

Visitano il forum: Nessuno e 2 ospiti