Semifinale Francesco Nucera

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) Il 17 febbraio sveleremo il tema deciso da ALBERTO BÜCHI. I partecipanti dovranno scrivere un racconto e postarlo sul forum.
2) Gli autori si leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Il BOSS assegnerà la vittoria.
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Spartaco
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Semifinale Francesco Nucera

Messaggio#1 » martedì 16 marzo 2021, 9:06

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Eccoci alla seconda parte de La Sfida a L'angelo trafitto
Combattono in questa semifinale:

Wish you were here, di Alessandro Canella
Il cane del diavolo, di MentisKarakorum

In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi possono sfruttare i giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: mercoledì 18 marzo alle 23:59
Limite battute: 21.666

Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 18 marzo. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



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MatteoMantoani
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Re: Semifinale Francesco Nucera

Messaggio#2 » mercoledì 17 marzo 2021, 8:50

Il Cane Del Diavolo

Ada raccoglie lo zecchino d’argento, carezza il rilievo della croce sulla faccia e lo passa alla mamma. Le dita segnate dalla sporcizia afferrano il soldo e lo infilano in una tasca del vestito lacero. Un passante dal tabarro scuro lancia loro un’occhiata, ma prosegue dritto.
La pancia di Ada brontola, lo stomaco le si contorce per la fame. Scivola sul selciato e si avvicina alla mamma. «Mi racconti ancora la storia del ponte?»
Lei sospira. «Dopo però fai la brava e continua a lavorare.» Si lecca le labbra screpolate. «Quando hanno costruito questa città, ci voleva un ponte.» Indica la struttura oltre la piazza. «Un ponte molto lungo, perché il fiume è largo e tormentoso.»
Un uomo calvo dagli occhi verdi le getta uno sguardo obliquo, lei protende la mano aperta, ma nulla da fare.
Tira su col naso. «Costruire il ponte con solo le proprie forze era molto difficile, allora gli abitanti hanno fatto un patto col diavolo.»
Ada chiude gli occhi, quel pezzo le fa sempre paura. Spinge il nasino sul fianco della mamma, che la accarezza i folti capelli.
«Il diavolo avrebbe costruito il ponte in una notte, ma poi chiunque lo avesse attraversato per primo gli avrebbe dato l’anima.» Tossisce. «I cittadini hanno acconsentito, perché avevano escogitato un modo per ingannarlo.»
Ada alza lo sguardo a fissare la mamma. «Come?»
«Lo sai, come.»
«Dai dimmelo, lo voglio sentire.»
«Un cane.» Sorride. «Hanno fatto attraversare il ponte a un cane.»
«E il diavolo?»
«Ha dovuto accontentarsi, i patti sono patti, ma si è arrabbiato.» Fa un gesto in aria con le mani, come per fare una magia. «Ha trasformato il cane in pietra, e l’ha gettato sotto il ponte.»
«E il cane di pietra è ancora lì, vero?»
«Certo! E chiunque lo trovi avrà una fortuna immensa, perché con quel cane è stato ingannato il diavolo!»
Un ciuffo di capelli le scivola sul naso. La sua mano ravvia la ciocca e poi scatta in avanti al passaggio di un uomo col mantello rosso. Nulla.
Ada bisbiglia. «Lo troverò, quel cane.» La fissa negli occhi.
«So che ce la farai.» Sorride. «Ho fiducia in te.»
«Lo troverò per te, per noi due»
Il sorriso della mamma le scalda il cuore. Vederla felice è raro, ormai: da quando sono arrivate in quella città, è taciturna e sta sempre sulle sue.
Due stivali di cuoio lucido si fermano di fronte a loro, la sagoma di uno sconosciuto offusca il sole. Il ricamo d’oro di un cane decora la sua veste da una spalla all’altra. Ada cerca di guardarlo in faccia, ma il suo viso è nascosto dall’ombra di un tricorno col bordo d’argento. La sua mano si muove a estrarre un fazzoletto dalla tasca, che poi porta a coprire il naso.
«Lui ti vuole vedere.» La voce è soffocata dal tessuto.
La mamma si alza, ma lui la ferma. «Non tu. La bambina.» Punta il dito guantato su Ada. «Per pranzo. Mandagliela.»
Si volta, imbocca un vicolo e se ne va.
Ada alza le sopracciglia. «Hai visto il disegno sul suo petto?»
«Era un blasone, ogni nobile ne ha uno. Il cane è il simbolo dei signori d’Arcano.»
«Un nobile? Sono quelli col sangue blu?»
«Quelli col sangue blu.» Sospira. «Ricordati il suo nome per dopo: Ar-ca-no. Lui ti condurrà dal suo padrone.»
«Devo andarci da sola? Non voglio, ho paura!»
«Non ti accadrà niente di male, fidati di me.»

Una capretta bela in un recinto, degli uomini portano in spalla ceste di ortaggi e due cavalli sbuffano masticando fieno. Ada attraversa il cortile del palazzo e raggiunge il portico. A un tavolo, quattro uomini giocano a carte e bevono vino. Uno di questi ha un tricorno argentato appeso allo schienale della sedia e una tunica decorata in filo d’oro. Il suo viso imberbe è quello di un ragazzo: un grappolo di brufoli gli costella la guancia.
Ada si schiarisce la gola. «Signor Cano. Sono venuta qui come richiesto.»
Il giovane abbandona le carte sul tavolo, si gira verso di lei e la fissa da capo a piedi.
Scuote la testa. «Il mio nome è Ar-cano. Conte, d’Arcano.»
Lei si piega in una riverenza. «Signor conte Ar-cano.»
Uno dei giocatori sghignazza, le sue guance paffute sono cosparse di venuzze rossastre. D’Arcano si alza in piedi, il simbolo del cane dorato sul suo petto riverbera la luce di mezzogiorno.
«La vedi quell’entrata lì?» Indica un uscio in fondo al porticato. «Va’ dentro, cerca la governante e fai quello che ti dice.»
Ada si inchina ancora e lancia un ultimo sguardo alla compagnia di bevitori; uno di loro le strizza l’occhio. Il cuore le palpita in petto, non attende oltre e sgambetta verso il punto indicatole. La porta è aperta, entra e la richiude alle spalle. Si ritrova in una stanza affollata: diversi servi in grembiale affettano cipolle, condiscono carne e rimestano dentro a pignatte di rame.
Lo stomaco le gorgoglia. Si piega e guarda dentro a una bacinella: degli animali simili a grossi ragni brulicano sul fondo e si contorcono in una danza di centinaia di zampette.
Ada si ritira disgustata e sbatte la schiena su un morbido pancione.
«Ah! Sei arrivata!»
Il viso paffuto di una donna grassa le sorride, le sue manone le agguantano le spalle.
Ada trema. «Signora, siete voi la governante?»
«Su su, piccola. Non avere paura. Vieni con me.»
«Dove?»
La donna non le risponde e si avvia fuori dalla cucina. Attraversano un paio di stanze, fino a che non giungono in una saletta con al centro una grande tinozza. La luce del sole penetra da una finestrella coi vetri coperti di ragnatele.
«Sua Eccellenza arriva subito. Tu da brava spogliati che adesso ti porto l’acqua per il bagno.»
Ada apre la bocca per dire qualcosa, ma la governante se ne va senza dargliene il tempo. Indecisa sul da farsi, si siede sul pavimento e nasconde il viso tra le ginocchia.
La porta cigola, un paio di pantofole di velluto viola le si avvicinano.
«Benvenuta, cara.»
La voce è pastosa, rassicurante. Ada si raddrizza e fissa il volto dalla pelle raggrinzita come carta appallottolata stiracchiata alla bell'e meglio. I suoi occhi, due globi azzurri attraversati da striature grigiastre, la fissano dall’alto al basso. La bocca di Ada si spalanca senza emettere alcun suono.
Tre donne entrano trasportando secchi colmi d’acqua fumante, riempiono la tinozza, e se ne vanno.
Il vecchio annuisce e scopre una fila di denti bianchissimi. «Il tuo bagno è pronto. Coraggio!»
Lei balbetta. «Devo fare il bagno, adesso?»
«Certo. Vedrai, sarà molto piacevole, finché l’acqua è ancora calda.»
Ada si appoggia alla tinozza, ci mette dentro la mano. Il calore le accarezza la pelle.

In piedi vicino alla riva del fiume, il falegname armeggia coi pantaloni e si slaccia la patta. La sua barba mal rasata punge il viso di Mariella che, chiusi gli occhi, prova a deglutire. L’uomo le copre il viso con la mano callosa e le infila due dita tra le labbra. Lei apre la bocca, le dita penetrano e le premono la lingua fino a farle male. Un sapore amarognolo si diffonde sul palato, un granello di segatura si stacca dall’unghia e la punge.
«Eddai, vecchio arnese, fai il tuo lavoro.» L’alito del falegname puzza di vino e d’aglio. «Troia, aiutami tu.»
Mariella allunga il braccio e cerca a tastoni il membro floscio. Trovatolo, lo massaggia alla buona.
Il falegname le colpisce il polso. «Mannò, non così.» Sbuffa e la spinge per farla voltare.
Lei si gira con le dita ancora ficcate in gola e appoggia la fronte sui mattoni del ponte. L’uomo fa scivolare la mano sotto la sua gonna, alza un bordo, afferra il fianco e spalma la panzona sulla sua schiena.
Mariella apre le gambe, un salsicciotto caldo le si infila tra le cosce. Il falegname si dondola avanti e indietro, il suo peso la spiaccica contro il muro. L’arnese finalmente si indurisce.
«Allarga di più, stupida cagna.» Le tira i capelli e chiude le dita nella sua bocca a mo’ di artiglio.
Lei geme dal dolore e apre di poco le ginocchia, il pene scivola in alto, ma non la penetra. Il dondolare si fa più concitato e il falegname ansima a ogni botta. Molla la presa sul fianco, porta il polso sulla sua gola e la stringe a sé. Mariella fatica a respirare: le dita in bocca le provocano conati di vomito e l’altra mano la strozza. Lacrime le scendono sulle guance, il muro ruvido le scortica il viso.
«Ossì!»
Un fiotto caldo si diffonde tra le cosce, le dita si ritraggono e la liberano. Mariella poggia le mani a terra e prende un respiro profondo. Tossisce e sputa la saliva salata.
«Ecco a te.»
Tre monete le colpiscono la mano, rimbalzano e affondano nella terra morbida della sponda del fiume. Le raccoglie e se le infila in tasca. Alza lo sguardo: la figura del falegname si allontana nel sentiero che riporta in strada. Il cielo volge alla sera, il sole rosso la fissa come un occhio ferino.
Si lecca il palato, dove una piccola ferita diffonde un sapore ferroso. Sospira, e ascolta le acque del fiume scorrere ai suoi piedi. Raccoglie un po’ d’acqua gelata con le mani a coppa, si risciacqua la bocca e si lava via il seme appiccicoso dalle cosce. Brividi di freddo le corrono lungo l’inguine.
«Mamma!» La voce della bambina è vicina.
Mariella si volta di scatto e abbassa la gonna. La sagoma di Ada, illuminata dalla luce del tramonto, corre verso di lei.
«Eccomi, mamma.»
Le si avvicina e le porge un sacchetto. Lei sospira, si alza e stringe la bambina tra le braccia.
«Mamma, mi soffochi.»
La libera e si abbandona sul terreno umidiccio. Ada, a sua volta, le si mette accanto e agita il sacchetto di fronte ai suoi occhi.
«Prendi. Sono buone.»
Mariella afferra l’involto e lo apre. Un odore dolciastro le arriva alle narici, lo stomaco inizia a gorgogliare.
La bambina ride. «Sembrano ragni, ma bisogna aprirli e mangiare quello che hanno dentro. Si chiamano masa... masanie—»
«Masanete.» Raccoglie un guscio di un granchio, lo schiaccia col pollice e succhia i granuli oleosi delle uova. «Te le ha date lui, per me? O gliele hai chieste tu?»
«Ho detto che volevo portartene un po’.» Sorride. «All’inizio mi facevano schifo, ma poi ne ho mangiate tantissime.»
«Brava, tesoro mio.» Lecca un carapace e ne raccoglie un altro. «Lui, è stato gentile con te, allora.»
«Certo, mi ha fatto il bagno. E mi ha strofinata per bene!»
«Come?»
«Con la spugna!»
Mariella getta a terra il guscio vuoto. «Ti ha lavata lui, non una serva?»
«L’ha fatto lui, è un vecchietto buono e affettuoso.»
Smette di respirare. «E ti ha pulita... anche in mezzo alle gambe?»
«Certo, anche lì.»
Stringe i denti e rimane in silenzio.
«E dopo? Cos’ha fatto?»
«Mi ha messo dei vestiti puliti e mi ha dato tante cose da mangiare.»
«Non ti ha...» tossisce e balbetta, «gli hai dato un bacetto per ringraziarlo?»
«Certo! Sono stata molto educata, come mi hai insegnato.» Annuisce. «E anche lui mi ha baciato tutte e due le guance, e mi ha detto di tornare quando voglio.»
«Solo le guance?»
Ada si volta e alza le sopracciglia. «Avrei dovuto baciarlo anche sulla fronte? Come fai tu con me?»
Scuote la testa. «No, no. Sei stata bravissima.» Stringe i pugni. «Bravissima.»

Le candele proiettano ombre serpentine sui muri della cattedrale. Da una cappella laterale provengono i brusii della celebrazione dei vespri. Mariella si avvicina a una colonna e si appoggia alla fredda pietra. Le figure dei santi, decorate sulle vetrate illuminate dal tramonto, la scrutano coi visi di vetro tinti di luce sanguigna.
Distoglie lo sguardo e fissa l’altare. Il vescovo pronuncia una cantilena in latino con gli occhi sbarrati: le iridi sono azzurre, striate da venature grigie. Il suo viso contratto è popolato di rughe. Mariella fissa quell’uomo. Si accarezza il ventre. Ricorda.

Mariella posa la mano sotto l’ombelico e massaggia il pancione. Quando il bambino scalcia le infonde gioia e coraggio, ma stavolta non si muove.
La badessa non smette di fissarla coi suoi occhi marroni. «Non ti penti per i tuoi peccati?»
Mariella rimane in silenzio. Sua Eccellenza è un uomo importante, influente e lei si fida di lui. Verrà a prenderla e la porterà via dal convento: gliel’ha promesso, e lei non ha motivo di non credergli.
Una lacrima le riga la guancia.
«Non parli? Non rispondi?»
Mariella si fissa la punta dei piedi.

Come può il frutto dell’amore essere un peccato? Così le dice sempre sua Eccellenza.
Lui arriverà, gliel’ha promesso. Lui ha Dio dalla sua parte. Lui la porterà via con sé, perché l’ama e ama il loro bambino.
La suora si siede sul suo scranno. «Questo è il modo con cui ci ripaghi per averti tolta dalla strada quand’eri in fin di vita?»
Mariella non fiata. Il suo uomo la prenderà con sé. Ne è sicura.
La badessa scuote la testa. «E io che pensavo che saresti anche potuta diventare una novizia.» Sospira. «Qui ormai non puoi più restare.»


Mariella percorre il corridoio che conduce alla sagrestia della cattedrale.
Un ragazzo le si para davanti e, sbarratale la strada, incrocia le braccia sul cane ricamato sul suo petto.
«Dove credi di andare?»
«Cercavo voi.»
Il giovane infila la mano in tasca, estrae il fazzoletto e l’appoggia sul viso a coprire il naso.
Lei scrolla le spalle. «Non è colpa mia se puzzo, abito sotto un ponte.»
D’Arcano si allontana di un passo. «Perché sei venuta qui? Cosa vuoi?»
Mariella gli si avvicina e lo fissa negli occhi. «Il pagamento. Credete che un sacchettino di masanete sia sufficiente?»
«Tu sei una peccatrice.» Sbuffa. «Come pretendi di avanzare richieste?»
«Se ho peccato, l’ho fatto solo per sopravvivere.»
«Te lo chiedo di nuovo.» Abbassa le sopracciglia. «Tua figlia è stata nutrita, vestita, lavata. Cosa vuoi di più?»
Mariella abbassa lo sguardo. «Ada è tutto quello che ho. Per lei ho fatto molti sacrifici.»
«Sto perdendo la pazienza.» Sbatte un piede. «Ho altro da fare.»
Lei allarga le labbra in un sorriso. «Lasciate che vi racconti una storia. C’era un ponte. Il diavolo l’ha costruito in una sola notte, ma in cambio ha voluto qualcosa.»
«La ricordo a menadito quella leggenda, tutti la conoscono. Cosa c’entra adesso?»
«Ho sacrificato mia figlia. Adesso voglio quello che mi spetta.»
La mano col fazzoletto ricade lungo il fianco. «Sacrificato?» Il viso imberbe è contratto, le labbra tremano. «Lei è sua figlia, chiameresti un sacrificio mandare una bambina da suo padre?»
Mariella scuote la testa. «Fate finta di non capire a cosa alludo.» Le lacrime le rigano le guance. «Continuate pure a mentire a voi stesso. Quanto a me, se ho delle colpe, queste ricadono sulla testa dell’uomo che mi ha fatto tante promesse, e poi mi ha abbandonata.»
Il ragazzo digrigna i denti. «So cosa ti aveva promesso, ma non credere di essere l’unica donna cui ha promesso qualcosa,» scuote la testa, «sua Eccellenza è un uomo debole, voi femmine lo tentate, come Eva ha fatto con Adamo.»
Mariella appoggia le mani sui fianchi. «Ditemelo ancora.» Le lacrime le offuscano la vista. «Ditemelo in faccia, che è colpa mia se mi ha messo incinta quando ero in convento.»
D’Arcano vacilla, stringe i denti. «Non credere che non capisca il tuo stato d’animo.»
«Allora dimostratemi di essere un vero uomo, non solo un cane.»
Il ragazzo ringhia. «Bada a te, donna.»
«Lui si è preso la nostra vita. Per colpa sua ho rinunciato a tutto.» Si asciuga gli occhi. «Ma ora voglio quanto mi spetta. Pagatemi e me ne andrò per sempre.»
«Mi chiedi molto.» Sospira, sposta il peso da un piede all’altro. «Va bene, aspetta qui, vedo cosa posso fare.»

La bambina siede a cavalcioni su un grosso sasso che spunta dall’acqua. Le sue risate si mescolano al fragore del fiume.
«Mamma! Vieni!»
Mariella alza la gonna e mette i piedi nel fiume gelido. Il crepuscolo incorona le montagne con luce dorata. Le torce serali accese sul Ponte del Diavolo, sopra di lei, brillano e illuminano la riva. Raggiunge la figlia che, a cavalcioni su una grossa roccia, agita le braccine e la chiama a sé.
«L’ho trovato.»
Mariella si aggrappa al masso e ne accarezza i rilievi lisci, levigati dall’acqua. La sua forma non lascia adito a dubbi: un bozzo a un’estremità ricorda una testa, la protuberanza allungata dall’altra parte una coda.
«Sembra un cane!»
«Sì!» La bambina abbraccia la roccia. «Il cane del diavolo, l’ho trovato! E ora, esprimo un desiderio!»
Prende un respiro profondo. «Cosa desideri, tesoro?»
«Voglio tanti soldi! Per mangiare cose buone e comprare una casa!»
Mariella ricaccia indietro le lacrime. Alza il sacchetto e lo fa penzolare di fronte a sé. Un cane dorato, dipinto sul cuoio, scintilla alla luce delle torce.
«Guarda.» Sorride. «Ecco i desideri che si avverano!»
Ada scende dalla roccia, afferra la borsetta con le sue manine ed estrae una manciata di zecchini d’oro.
«Siamo ricche!»
«Non proprio.» Ride. «Ma tireremo avanti per un bel po’.»
L’abbraccia, la stringe forte, poi alza lo sguardo e fissa il ponte sopra di loro: sulla facciata della cattedrale gotica, poco distante, i grossi pinnacoli si innalzano al cielo.
«Questa è la città del demonio.» Stringe i denti. «Andiamocene via.»
La bambina la fissa con occhi umidi, i suoi dentini scintillano al buio. Lo stomaco di Mariella si contorce. Ada l’avrebbe seguita ovunque, come un cagnolino; ma un giorno, purtroppo, avrebbe capito cosa comportava essere sua figlia.
Ultima modifica di MatteoMantoani il mercoledì 17 marzo 2021, 22:30, modificato 3 volte in totale.

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Re: Semifinale Francesco Nucera

Messaggio#3 » mercoledì 17 marzo 2021, 22:06

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Alessandro Canella

La voce ovattata di Tommy Lee attraversa le pareti del The Side e mi raggiunge fino al parcheggio. Con tono irritato ordina a Sir Bob Cornelius Rifo di alzare quelle fottute chitarre, dando il la all’assolo finale. È il mio passaggio preferito dell’intero album, ma in questo momento la concentrazione è altrove.
Chiudo gli occhi e faccio scendere la mano.
Le dita affondano tra i capelli di Giulia e iniziano a seguire il costante avanti e indietro della sua testa. La sento giocare con la lingua, avvolgermi con le labbra e scendere giù, fin dove le è possibile.
Appoggio la schiena sulla portiera dell’auto. È gelida e dal culo parte un brivido che percorre la spina dorsale.
L’orgasmo sale prepotente. Stringo i capelli di Giulia e tento di allontanarla, ma lei invece continua, anzi, aumenta il ritmo, la mano stretta attorno al cazzo ad accompagnare la bocca. Infine affonda il viso e lì rimane fino a che non mi svuoto dentro di lei.
Riapro gli occhi, il respiro corto.
Giulia è ai miei piedi. Ingoia e mi sorride. Col pollice pulisce una virgola di sperma dal mento, per poi succhiarsi il dito. Si alza e fa per baciarmi, ma prima che le sue labbra tocchino le mie allontano il volto.
«Dio, quanto sei pudico.» Sembra più delusa che arrabbiata.
Tiro su la zip e mi guardo attorno. «Tu invece non lo sei affatto.»
«Non tutte possono permetterselo. Pensavo l’avessi capito, ormai.» Si sistema la gonna. Una calza le si è strappata lungo la coscia. «Spero almeno ti sia piaciuto il regalo di compleanno.»
«A dire il vero speravo in quel vinile dei Pink di cui avevamo parlato.» Le faccio l’occhiolino.
«Non fare lo stronzo, non ti si addice.» A tradimento mi stampa un bacio. «Così impari.» Dall’interno della giacca tira fuori un pacchetto di Camel. «Cos’hai deciso per i tuoi?»
Me ne porge una, ma rifiuto anche quella. «Non è ancora il momento.»
«E quando sarà, di grazia? Prima o dopo la fine del liceo? O magari dell’università. Anzi no, aspettiamo che schiattino, che dici?»
«Ora però la stronza la fai tu. Pensavo avessi detto che non avevamo fretta.»
«Di quanti mesi fa parliamo? Non ti conoscessi, potrei quasi pensare che ti sei trovato un’altra. O forse semplicemente non hai le palle per prendere una decisione.» Con la mano libera mi stringe in mezzo alle gambe. «Ci ho preso?»
Le afferro il polso e la spingo contro l’auto alle sue spalle.
Giulia ride. «È il tuo modo da maschio alpha di dirmi che mi sbaglio?»
«Esatto, ti sbagli.»
«E riguardo quale delle due opzioni? No, non dirlo. Non importa.» Stavolta è lei a spingermi indietro. «Ormai sei un adulto, Lucio. È tempo di scegliere in cosa credere.»
Dà un ultimo tiro alla sigaretta e mi lancia uno di quei suoi sorrisi da troia. Senza smettere di fissarmi, si sfila gli slip da sotto la gonna e si siede sul cofano. Divarica le gambe. «E ora assaggiami.»

L’aspirapolvere di quella del piano di sopra mi sveglia alle 8 in punto, come ogni domenica. Affondo la faccia nel cuscino, ma ormai il sonno è andato. Sbuffo e mi giro a pancia in su. Il poster di Cristiano Ronaldo che esulta a petto nudo dopo il goal nella finale di Champions del 2014 mi dà il buongiorno dal soffitto.
Piego la testa verso il letto di Filippo. È vuoto, le lenzuola tese, come appena stirate. Perfetto stile militare. A volte sembra impossibile che mio fratello sia la stessa persona che una volta si è fatta fotografare con una stella di Natale infilata tra le chiappe.
Mi metto a sedere sul bordo del letto e prendo il cellulare dal comodino. Distendo la tendina delle notifiche e scorro una dozzina di messaggi d’auguri tutti uguali. Nel mezzo ne intravedo uno di Giulia inviato poco prima delle 4.
Vorrei che tu fossi qui.
Attivo la tastiera. Mi spiace per ieri. So essere un vero stronzo. Dammi un’ora e arrivo. Invio il messaggio, ma le dita indugiano sui tasti. Vorrei aggiungere altro, ma ancora non trovo il coraggio. Spengo lo schermo.
Mi vesto e raggiungo la cucina. Mia madre sta ritirando i piatti dalla lavastoviglie, mentre mio padre beve un caffè intanto che guarda alla TV gli highlights degli anticipi.
Senza farmi notare vado a schioccare un bacio sulla guancia di mia madre. «Giorno ma’.»
Per poco non fa cadere una tazzina. «Lucio, che fai già in piedi?»
«Chiedilo alla Dorelli. E comunque più tardi devo vedermi con degli amici.»
«Non avete festeggiato abbastanza ieri?» Non la vedo in faccia, ma sono sicuro che stia sorridendo. «Vuoi fare colazione?»
La moca è ancora sul fornello. «Un caffellatte non mi dispiacerebbe.»
Mio padre manda a fanculo il televisore. «Sti cazzo d’africani. Milioni per comprarli e poi ti durano mezza stagione prima di rompersi qualche legamento.» Si gira verso di me. «E pure te. Ancora caffellatte? Hai 18 anni, Cristo! È tempo di bere il caffè come gli adulti.»
«Ma devo berlo nero o posso usare il tuo dolcificante, pa’?»
Mio padre si toglie gli occhiali e me li punta contro. «Non essere strafottente.»
Annuisco. Meglio non farlo incazzare, almeno non oggi.
Mia madre appoggia il caffellatte sulla tavola e mi fa una carezza.
Dò un primo sorso. «Ma Filo?»
«In bagno» risponde mia madre. «Stamattina è uscito presto per andare a correre,» abbassa la voce «ma secondo me ti sta preparando una sorpresa. Oh, io non ho detto nulla.»
Porto le dita davanti alla bocca e la chiudo a chiave.
L’orologio sopra il frigo segna le 8:15. Finisco il caffellatte e saluto i miei. Sto per uscire, che incrocio Filo in corridoio.
«Ben svegliata, principessa. Pronto a festeggiare come si deve il passaggio al mondo di noi adulti?»
«Guarda che il mio compleanno era ieri. E poi sto uscendo.»
«Cos’è, vai a farti scartare il pacco da qualche amichetta?»
«Che sottile gioco di parole… No, davvero, mi spiace, ora non posso. Facciamo appena rientro, ok?»
«Non iniziare a rompere, che li conosco i tuoi impegni da pippaiolo.» Filo mi avvolge le spalle con un braccio e con l’altro traccia un arco in aria, come a volermi mostrare un paesaggio visibile solo a lui. «Oggi è un giorno importante per te. È il giorno in cui da fighetta cagacazzi quale sei, sboccerai in una bellissima farfalla.»
«Non sapevo che le farfalle sbocciassero.»
Filo mi molla uno scappellotto. «Una bellissima farfalla cagacazzi, ma pur sempre una farfalla. Quindi ora, fratellino, ti metti le scarpe ed esci con me, che ho una cosa da mostrarti.»
Faccio per rispondere, ma Filo alza un dito e mi zittisce. Dalla ciotola all’ingresso afferra il suo portachiavi a forma di teschio, quindi agguanta i cappotti dall’attaccapanni e mi lancia il mio.
Lo indosso e prendo il cellulare. Giulia non ha ancora letto il messaggio. Mi chiedo se…

«…sotto il letto hai guardato?»
Il telefono rimanda il cigolio dell’anta dell’armadio. «Mi prendi per il culo?»
Conosco Filo, non ha guardato. «Di solito mamma il borsone lo mette lì.»
Silenzio.
«L’hai trovato?»
«Sì…»
«Era sotto il letto, vero?»
«Senti, fa poco il furbo, che stamattina era il tuo turno per la pattumiera, e ancora una volta ho dovuto pensarci io a pararti il culo con papà. Che poi, perché sei uscito all’alba?»
«Colpa della Masi. Oggi fa il test di chimica e non so un cazzo. Ho assoluto bisogno dei bigini di Laura.»
«Come no. Secondo me è tutta una scusa per vederti con lei. Oh, mica te ne faccio una colpa. Con quelle tette che si ritrova pure io mi son fatto un paio di se—»
Chiudo la telefonata e lancio un’occhiata all’orologio. Sono già in ritardo e l’autobus ancora non si vede. Fanculo, sono nemmeno due chilometri, io me li faccio a piedi.
Attraverso la strada e m’immetto in via Zara, che da lì posso tagliare in linea retta se passo dal parcheggio del Lidl. Negli auricolari parte un pezzo di Carpenter Brut di cui non ricordo mai il nome. Controllo sulla smartband: Meet Matt Stri
Qualcosa si schianta contro la mia spalla. Perdo l’equilibro e cado sbattendo il ginocchio contro il cemento. Gli auricolari schizzano chissà dove.
Rialzo la testa e vedo due tizi correre in quella che fino a pochi instanti prima era la mia stessa direzione. Uno grida all’altro di sbrigarsi. Pochi secondi più tardi svoltano al primo incrocio e scompaiono.
Rimango steso a terra, incapace di reagire, fino a che non vengo risvegliato da un gemito proveniente da un vicolo alla mia destra. Puntello una mano e mi rialzo, in ascolto. Un secondo gemito, questo volta più acuto.
Mi guardo attorno alla ricerca di qualcuno a cui chiedere aiuto, ma per strada non c’è nessuno. Sospiro e con passo zoppicante mi addentro nel vicolo, stretto tra due palazzi.
Dietro un cassonetto spuntano due scarpe da tennis bianche macchiate di rosso. Giro attorno all’ostacolo. Raccolto in posizione fetale, qualcuno trema. Una ragazza, a giudicare dai vestiti.
Mi piego sul ginocchio sano e le scuoto le spalle coperte da lunghi capelli scuri. «Tutto bene? Che è successo?»
S’irrigidisce. «Vattene!» La voce è rotta dai singhiozzi. «Non ho bisogno di nessuno.»
«Ascolta, forse è il caso di chiamare un’ambulanza. Sei ferita?» Non vedo borse o zaini attorno. «Ti hanno derubata?»
Due occhi gonfi e rossi si piantano sui miei. «Ho detto d’andartene, coso! Sei sordo o soltanto idiota?»
Mi sforzo di ricambiare il suo sguardo, ma provo un forte imbarazzo nel farlo, come se mi sentissi in colpa per quello che le è successo.
Controllo l’orologio. Se non mi sbrigo, rischio di prendere un’altra insufficienza.
«Senti—»
Con una mano mi allontana.
«Per favore, vai via.» Piange. «Non ho bisogno della carità degli sconosciuti.»
Si aggrappa al bordo del cassonetto e tenta di tirarsi su, ma il dolore dev’essere troppo intenso e perde la presa. L’afferro per un soffio e la faccio appoggiare contro la parete del palazzo.
Fanculo chimica.
«Pensa quello che vuoi, ma io di qui non me ne vado.» Le porgo la mano. «Allora, cosa decidi?»
La ragazza mi guarda come se fossi un alieno.
Piego le labbra in un sorriso. «E comunque mi chiamo Lucio, non coso.»
Mi prende la mano. «Giulia.»

Filo parcheggia davanti un capannone abbandonato, nella vecchia zona industriale. Apre il portaoggetti e prende un pacchetto incartato come peggio non si potrebbe.
«Sarebbe quello il regalo?»
Nasconde il pacchetto sotto la giacca. «Quello cosa?»
Scendiamo dall’auto e ci avviciniamo alla recinzione. In un punto è crollata verso l’interno, permettendoci di entrare senza difficoltà.
Filo fa strada. A giudicare da come si muove, non dev’essere la prima volta. Indica uno degli ingressi laterali. «Il posto è quello.»
«Il posto per cosa?»
Si ferma e mi appoggia le mani sulle spalle. «Lucio, per una volta, una soltanto, fammi felice e non rompere, ok?» Fa per proseguire, invece si ferma. L’espressione sul suo volto è cambiata, sembra inquieto. «Davvero, te lo chiedo da fratello: fidati. E niente stronzate. Ci tengo a te, non lo scordare mai.»
«Oh, ma che ti prende?»
Filo m’ignora ed entra nel capannone. Prima di seguirlo, do un’ultima controllata ai messaggi: le spunte sono ancora grigie.
Ritiro il cellulare in tasca ed entro anch’io.
La differenza di luce è così netta rispetto all’esterno che mi ci vuole un po’ per mettere a fuoco l’ambiente e notare che non siamo soli. Una decina di tizi col volto coperto ci osserva. Uno di loro tiene un cane al guinzaglio, un pitbull o qualche razza simile.
Da un tavolino da campeggio alla nostra destra Filo prende due passamontagna. Me ne porge uno. «Fa come ti dico e parla a voce bassa.»
Non mi sento a mio agio, e forse proprio per questo indosso il passamontagna senza fare domande.
I tizi davanti a noi si dividono in due ali. Alle loro spalle compare un ragazzo legato a una sedia, nudo, la testa piegata in avanti coperta da un sacchetto.
Filo si avvicina allo sconosciuto. Con un gesto deciso strappa via il sacchetto e lo afferra per i capelli. «Signori, vi presento…»

…Giulia mi tira dentro l’ascensore un attimo prima che le porte automatiche si chiudano con un rumore secco.
«I sensori non funzionano da anni.» Si avvicina alla pulsantiera e seleziona il nono piano. «Qui tutto è rotto, inquilini compresi.»
Le pareti a specchio dell’ascensore moltiplicano all’infinito le nostre immagini. Mi do una controllata. Che idea del cazzo indossare la cravatta. Che poi, io il nodo nemmeno lo so fare e quel tutorial su YouTube non è che fosse così chiaro.
«Non siamo obbligati a rimanere.» Le mani di Giulia vanno a sistemarmi la cravatta. Sollevo un poco il mento per facilitarla. Sento il nodo ammorbidirsi attorno alla gola.
«Sono tuoi amici. Non possono essere poi tanto male se riescono a sopportarti.»
Giulia mi molla uno buffetto sulla guancia. «Non sono soltanto amici. Sono la mia famiglia.» Mi slaccia il colletto. «E lo stesso vale anche per te.»
«Sul fatto di riuscire a sopportarti?»
«No, sul fatto di non essere poi tanto male; quando non fai lo stronzo.»
L’ascensore si ferma.
Mano nella mano, raggiungiamo l’appartamento. Suoniamo il campanello. Da dentro un miscuglio di voci e musica. Suoniamo ancora.
La porta si spalanca e riconosco la voce di Florence che canta You got the love.
«Giulietta!» Un ragazzo in completo bianco e papillon abbraccia Giulia e la bacia sulle guance. Perlomeno non sono il più elegante. «Alla fine ti sei decisa a presentarci il tuo boy.» Mi squadra da testa a piedi.
Un secondo ragazzo, vestito pure lui come un gelataio, si avvinghia al primo appoggiandogli il mento sulla spalla. «E brava la nostra bimba, sempre più giovani ce li troviamo.»
«Non fate gli stronzi pure voi, che già ci pensa lui a farmi sentire vecchia.» Giulia mi prende per il fianco e mi stringe a sé. «Lucio, ti presento Dani e Matteo, i padroni di casa. Se vuoi prendere appunti, loro sono cintura nera di coglionaggine.»
Veniamo fatti accomodare. All’interno una ventina o forse più tra ragazzi e ragazze, tutti più grandi di me, sono impegnati chi a ballare, chi a bere, chi a chiacchierare, chi a limonare. Giulia mi presenta a tutti quelli che la salutano. Già al terzo nome inizio a dimenticare quelli precedenti e ad annuire in maniera automatica.
Raggiungiamo il tavolo del buffet. La presa di Giulia si fa più debole. Mi giro e la vedo trascinata via. Fa appena in tempo ad alzare un dito per dire che ci vorrà solo un minuto, che scompare nella folla.
Proprio quello che speravo non accadesse.
Decido di versarmi un bicchiere di Coca, ma qualcuno mi arpiona la spalla. È Dani. O Matteo? Merda…
«Perché non lo chiediamo a lui? Lucio — giusto? — abbiamo un quesito filosofico da sottoporti. La qui presente Rosa» con un movimento plateale del braccio Danimatteo indica una ragazza con i capelli rosa e le orecchie ricoperte da piercing «sostiene che la scrittura inclusiva non può coesistere con la comunicazione pubblicitaria.»
«No, brutta checca, non storpiare quello che ho detto! Quello che sostengo, da cazzoditraduttrice che con le parole ci vive, è che l’uso di perifrasi e simboli grafici ancora poco conosciuti e privi di una grammatica condivisa rischia di spostare il focus dal contenuto alla forma, e questo in campo pubblicitario, se permetti, è un cazzo di problema.»
«Ok ok, come dici te. E tu Lucio? A favore della schwa negli spot dei detersivi e fanculo quella bigotta della sciura Maria o la pensi come miss delicatezza?»
L’attenzione dei presenti si concentra su di me e non ho idea di cosa cazzo stiano parlando. Devo inventare qualcosa. «Ecco, a mio avviso… un punto d’incontro… un punto d’incontro forse c’è.» Tutti mi osservano in attesa della rivelazione. «Il principio di Colby: se dall’esterno non puoi cambiare lo status quo, prova dall’interno, per quanto piccoli siano all’apparenza i risultati.»
Nessuno dice nulla.
Danimatteo alza gli occhi. «Colby… Non mi è nuovo. Come fa di nome?»
«Terry, mi pare.»
«Terry Colby…» Si blocca. «Ma non è un personaggio di Mr Ro—»
«Scusa l’attesa!» Giulia mi prende sottobraccio e mi dà un bacio sulla guancia. «Ok, gente, interrogatorio concluso. Questo ragazzo ora è mio per almeno i prossimi 10 minuti.»
Ci facciamo largo tra la calca danzante ed entriamo in una camera ricolma di tele appoggiate le une sulle altre lungo le pareti. Al centro, su un cavalletto, un quadro non ancora ultimato ritraente i volti di Dani e Matteo che si baciano.
Giulia chiude la porta e vi si appoggia con la schiena. «Scusa. Avevo scordato cosa significa essere quello nuovo.»
«Poteva andare peggio. Se m’interrogavano di chimica, lì sì che sarei stato nella merda.»
Ride. Dio quanto è bella. «Grazie.»
«Di cosa?»
«Per esserci. Per essere qui con me. So bene quanto possa essere difficile all’inizio.»
«Quindi andando avanti diventa più semplice? Ti prego, dimmi che è così!»
Giulia abbassa gli occhi. «Vorrei che lo fosse, ma non succede sempre. Per alcuni non lo è mai.»
Passo l’indice sulla cornice impolverata di un quadro raffigurante un letto con le lenzuola disfatte. «Suppongo allora che la prossima volta sarà il mio turno in fatto di presentazioni.»
«Soltanto se lo vorrai. Non abbiamo fretta.» Si avvicina e mi prende le mani tra le sue. «Sono certa che saprai riconoscere il momento.»
Abbasso gli occhi sulle nostre dita intrecciate. «Ho il terrore che tu riponga troppa fiducia in me.»
Scuote la testa. «La mia non è fiducia. Io credo in te. E credo in noi.»

Filo stringe le dita attorno ai capelli del ragazzo legato alla sedia, gli solleva la testa. «Signori, vi presento Giulio
La gola mi si chiude.
La mia ragazza è davanti a me. Mi guarda, ma non mi vede.
Filo lascia la presa e la testa di Giulia cade in avanti. «Girano voci sul nostro amico.» Si pulisce la mano sui jeans. «Beh, alcune non sono proprio voci. Tipo il fatto che gli piaccia vestirsi da donna.» Indica un mucchietto di vestiti a lato della sedia, gli stessi che Giulia indossava ieri notte. «Il problema è che a quanto pare gonna e rossetto non gli bastano più. No, a lui ora piacciono anche i ragazzini. Dico bene, Giulio?»
Giulia solleva la testa e sorride. Uno degli incisivi è spezzato. «Mi spiace deluderti, ma a me interessano soltanto i cazzi dei veri uomini. Se ti abbassi i pantaloni te lo dimostro… Oh, stupida che sono. Dimenticavo che qui il ragazzino sei tu.»
Filo scoppia a ridere. Col pollice indica Giulia e guarda i suoi amici. «Simpatico, vero?» Il sorriso si piega in una smorfia di disgusto e col dorso della mano la colpisce in pieno volto. Il cane inizia ad abbaiare. «Sai, non ho mai capito come funziona con voi travestiti. Non siete né uomini né donne. Non siete niente!» Filo si avvicina a Giulia e le stringe le guance tra le dita. «Sai, una volta ho visto un porno con uno di voi. C’era sto tizio nel cesso di un locale - giacca e cravatta, tutto serio, tipo testimone di Geova, hai presente? - e se lo faceva succhiare da uno come te. Solo che all’inizio mica l’avevo capito io che l’altro era un uomo. E mentre guardavo mi chiedevo: cosa cazzo ci trova d’eccitante quello lì? Insomma, se abbassava la testa avrebbe visto soltanto una bocca e una parrucca bionda. Tanto valeva farselo succhiare da una puttana! E allora ho pensato che era esattamente così. Uno in te non potrà mai vedere quello che sei, ma soltanto quello che vuole la sua testa. È soltanto una cazzo di questione di apparenza!»
Giulia divincola la testa. «Perché non vai a farti fottere?» mugugna.
Filo allarga le dita e le molla due schiaffetti sulla guancia. «Devo riconoscere che ne hai di palle, per essere una checca.»
Il tizio col pitbull si avvicina ai vestiti di Giulia e fruga nelle tasche, mentre quella merda di cane le annusa un piede mostrando i denti. «Chissà se ne avrà ancora dopo aver dato un’occhiata a questo.» Armeggia con qualcosa, ma Filo glielo strappa dalle mani.
Gli occhi di mio fratello incrociano i miei. In mano tiene il cellulare di Giulia.
Sono fottuto. Non posso nemmeno parlare, altrimenti Giulia riconoscerà la mia voce.
Filo accende il cellulare, fa una smorfia. «Suppongo tu non sia interessato a condividere il tuo pin con noi, vero?»
Giulia risponde mandandogli un bacio.
«Come preferisci.» Filo lascia cadere il cellulare e lo colpisce più volte col tacco dello scarpone, fino a spaccarlo. «Non importa. È tempo di regali.» Infila la mano sotto la giacca e mi porge il pacchetto.
Le mani mi tremano. «Cos’è sta follia?» sussurro.
«Zitto e scarta.»
Esito, al che Filo mi fa cenno con la testa di darmi una spicciata. Rompo una delle pieghe laterali e strappo la carta, svelando una scatolina anonima in cartone. Appoggio i pollici sulla linguetta di chiusura e la sgancio. All’interno trovo un portachiavi in acciaio a forma di teschio con le orbite cave, identico a quello di mio fratello.
Prima che possa dire nulla, Filo prende il portachiavi e butta via la scatola. «Distendi le dita.» Mi prende una mano e infila medio e anulare all’interno delle orbite del teschio. «Ora richiudi.» La fronte scompare nel palmo, lasciando visibili soltanto i denti.
Osservo il tirapugni stretto tra le mie dita senza riuscire a dire nulla.
Filo mi prende la testa tra le mani e mi obbliga a guardarlo. «Non avere paura. Io sarò sempre al tuo fianco. So che farai la scelta giusta.» Mi abbraccia e avvicina la bocca al mio orecchio. «E poi mica vorrai che la gente pensi che anche tu sei frocio?» Lascia la presa, si fa da parte.
«Picchia! Picchia!» iniziano a gridare i suoi amici.
Sposto lo sguardo su Giulia. Sulle sue guance le lacrime sciolgono il sangue rappreso.
«Picchia! Picchia!»
Qualcuno mi spinge in avanti.
Giulia sorride, non so dire se per sfida o perché mi abbia riconosciuto sotto il passamontagna.
«Picchia! Picchia!» I piedi battono per terra.
La guardo e come quella prima volta mi sento piccolo.
«Picchia! Picchia! Picchia!»
Vorrei dirle che andrà tutto bene, che è tutto uno scherzo, che stasera andremo da Dani e Matteo e che passeremo la sera a parlare di musica e di futuro.
«Picchia!Picchia!Picchia!»
Vorrei dirle che è bellissima e che la amo e che anch’io credo in noi.
«…picchiapicchiapicchia…»
Vorrei dirle tante cose.
«…picchiapicchiapicchiapicchia!»
Invece sollevo il braccio e inizio a colpire.
lupus in fabula

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Re: Semifinale Francesco Nucera

Messaggio#4 » giovedì 25 marzo 2021, 21:14

Il cane del Diavolo
Ciao, buona lettura ma migliorabile. Non ho apprezzato la scelta del presente che, a mio avviso rallenta la lettura. Senza contare che almeno nei flashback avresti potuto cambiare il tempo utilizzato, giusto per aiutare il lettore a orientarsi. Occhio anche all'utilizzo dei termini, se scegli una terza soggettiva sarebbe il caso di adattare il vocabolario alle protagoniste, soprattutto in contesti storici. Sempre per la scelta della persona, ho avuto l'impressione che non ne avessi il pieno controllo, a volte uscivi troppo e la narrazione diventava asettica, quasi da narratore esterno.
Ho trovato qualche refuso, ma quelli non mancano mai e comunque non infastidiscono.
Punto di forza del racconto è l'intreccio che però è smorzato dalla struttura del racconto un po' troppo accademico. Anche questo ha rallentato non poco la lettura.
Nel complesso ho trovato un buon racconto che trovo un po' acerbo nella scrittura. Occhio anche all'utilizzo di troppi aggettivi nelle descrizioni.

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Bel racconto, anzi qualcosa di più. Attuale e ben scritto. Buona la tecnica, una prima persona credibile anche se a volte sei un po' uscito dal personaggio. Unico difetto il flashback che mi hanno destabilizzato, ci ho messo qualche riga di troppo per capire che non ero nello stesso tempo. Serve qualcosa di più netto per dare lo stacco.
Da lettore avrei meritato qualche indizio in più sulla sessualità di Giulio/a magari sotto forma di dubbi da parte del protagonista.
Ottimo il finale anche se mi sarei fermato quattro parole prima.


Non ho dubbi, vince per distacco: Wish you were here

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