Le Lucciole
Inviato: giovedì 10 giugno 2021, 17:14
L’auto si arrestò con un rumore di acciottolio e l’uomo spense i fari.
Una luna spenta illuminava di sbieco il sentiero che si inoltrava incerto tra gli ampi latifogli.
“Papa dove siamo?” chiese il bambino sul sedile accanto.
Ricordava di averlo chiesto anche lui molti anni prima. Suo fratello, invece, aveva taciuto e si era toccato il mozzicone d’orecchio che gli pendeva dalla testa, come era solito fare quando era nervoso.
“C’è un posto dove quello che desideri si realizza. Quello che più di tutto il tuo cuore desidera” rispose l’eco remota di sua madre. Ma lui non ebbe il cuore di ripetere quella antica frase e si limitò a far scendere il bambino e prenderlo per mano. Iniziarono a camminare, appena stabili sul terreno sconnesso. Ogni passo il passato tornava, le antiche sensazioni sopite riprendevano il loro posto come acqua in un fiume secco.
La mano di suo fratello la ricordava bene. Era morbida e dura al contempo. Quella di sua madre, invece, un ossuto grappolo di dita che lo tenevano stretto in modo nervoso.
“Non capiterà più bambini. Ve lo prometto”. Probabilmente avrà detto anche qualcos’altro durante il tragitto, ma lui ricordava solamente quella frase. Sapeva bene che faceva riferimento al suo occhio. C’era una benda, sopra, ma sotto ben poco. L’uomo con cui stava, quell’essere puzzolente, l’aveva fatto di nuovo. Una volta era toccato ad un labbro, per fortuna appena ammaccato. Poi ad un mignolo. Adesso era stata la volta dell’occhio.
Ogni volta giurava e spergiurava di lasciarlo, di mandarlo in galera, di ammazzarlo. Ma dopo un po’ lui tornava con in regalo un po’ di quella polvere bianca che va su per il naso e la storia finiva là. O ricominciava.
Quell’uomo era cattivo con loro. Suo fratello ne portava i segni e quel padiglione penzolante era stato un suo dono. Quell’uomo tornava e loro potevano solo nascondersi quando capivano che arrivav il momento brutto, quando lui girava gli occhi e le vene gli apparivano potenti sotto al collo.
Padre e figlio proseguirono con cautela, incespicando e traballando, nascosti dal velo della notte appena diluito dal chiarore del satellite.
“Papà hai visto? Ci sono tanti rami per terra” disse il piccolo.
Era normale che fosse così. Rimanevano delle tracce di quel qualcosa che abitava il bosco. Era il suo manifestarsi. Rami e fronde verdi e forti non potevano cadere da soli. Una forza arrabbiata e selvaggia gli strappava dai grandi alberi che custodivano quel luogo da sempre.
Era estate ma non vi era alcun rumore attorno a loro, niente che provenisse dall’intrico di vegetazione. Era come se la vita fosse volata altrove, sospinta via dalla strana elettricità che permeava quei luoghi. Era come se alla vita conosciuta se ne fosse sostituita un’altra, misteriosa ed oscura, eppure al contempo pulsante e tesa, come un grosso felino acquattato nell’erba.
Poi gli apparve all’improvviso l’immagine di quell’uomo malvagio. Paradossalmente era l’unica che la sua mente aveva conservato. La sua testa sotto le ruote di quel grande camion che lo aveva travolto. Indossava il caso mentre guidava lo scooter, ma non era servito a nient’altro che a rendere la sua faccia grottesca come un mascherone da fontana, con gli occhi e la lingua di fuori e la testa incassata nell’acciaio.
Il prezzo era stato pagato ed il desiderio avverato. E ciò che veramente desideri si avvera sempre se il tributo è versato.
Si rese conto di essere arrivato per via del luccichio.
“Guarda papà le lucciole!” disse con entusiasmo suo figlio.
Quei brillanti insetti gravitavano in senso antiorario in prossimità del cerchio di pietre. Non superavano mai il limite; non cambiavano mai direzione. Formavano una specie di cono di luce blanda ed opaca che si avvitava su se stessa, composta da decine di piccoli invertebrati attratti da una qualche oscura ragione in quei paraggi. Per i poeti sono l’emblema del firmamento in terra, ma non là. Apparivano, semmai, la grottesca rappresentazione di una qualche assurda anomalia, un assurdo girotondo.
Sua madre si era fermata a guardarle, questo lo ricordava. Gli era sembrato che singhiozzasse. Poi aveva guardato entrambi.
L’occhio buono, grigio e screziato di verde, era apparso oscuro e bordato di rosso.
Aveva chinato la testa e accarezzato il suo fratellone.
Era un bel bambino con i capelli scuri tagliati corti che mostravano fin troppo chiaramente la mutilazione dell’orecchio. Era più grande di lui e lo amava molto. Aveva tre anni di più ma da che si ricordava era sempre stato lui a vestirlo, a dargli da mangiare, a lavarlo. E se poteva lo nascondeva dall’uomo cattivo. Dormivano nello stesso letto e ogni notte lui gli stringeva la mano e quella pressione, morbida e dura, lo faceva star meglio.
“Aspetta qua” disse la donna, poi prese l’altro figlio ed entrò tra le pietre.
Lui fece la stessa cosa. Ebbe la sensazione che le lucciole si paralizzassero in aria per un istante mentre si avvicinavano, che tutto si solidificasse come un mosaico fatto di vetro temperato. Poi l’istante passò e varcarono quelle antiche pietre. Erano dentro al cerchio. Attorno ancora l’insolito nugolo d’insetti luminosi ed il loro insolito volteggiare antiorario. Ma adesso erano dentro.
“Papà ma che posto è questo?” chiese.
Forse lo chiese anche suo fratello. Oppure sua madre lo disse senza una ragione. Oppure nessuno parlò ed una voce gli rimbombò nella testa, mentre stranito ed incuriosito attendeva al di fuori del limite. Comunque fosse andata seppe la natura di quel luogo e che cosa dovesse accadere. Era un qualcosa che molti avevano appreso dalle vecchie sdentate che abitavano per quei monti. O lo avevano sentito sussurrare durante i falò estivi da ragazzacci spavaldi e spaccamondo. O lo aveva raccontato chi già c’era stato.
Lui lo aveva scoperto in quell’istante.
Non si poteva ottenere qualsiasi cosa, quale fosse il pagamento, ma solo ciò che veramente si desiderasse. Ciò che l’anima anelava più di ogni altra cosa.
“Papà?”
“Sai” rispose al figlio “tua madre ha distrutto tutto. Ma io glielo impedirò.” Lo disse assaporando l’amaro di quelle parole in bocca. Era l’amaro della sconfitta che non puoi evitare. Ma che non riesci comunque ad accettare.
Il bambino chinò il capo e non capì. In realtà, di tutto quel periodo fatto di litigi e separazioni aveva solo capito che la sua famiglia non c’era più. I bambini sono esseri semplici.
Alzò la testa e lo guardò con gli occhi pieni di lacrime.
“Papà, tu mi vuoi bene?” chiese con la sua vocina incrinata dalla paura.
Si sentì gelare, ma si fece forza. Era solo un’istante poi avrebbe cancellato tutto. Un nuovo inizio. Senza più errori. Sarebbero stati tutti meglio. Tutti.
Si cavò di tasca il coltello e lo aprì. Per un attimo, alla luce opaca delle lucciole, gli parve che il bambino avesse il padiglione dell’orecchio mozzato.
Poi affondò. Una, due, tre volte.
Il piccolo sussultò ma non pianse. Si accasciò senza un lamento. La luminescenza divenne più forte e rossastra. Il sangue uscì vermiglio dalle ferite e fu bevuto con avidità dal terreno. Il coltello cadde chi sa dove. Le lucciole girarono sempre più forte. Sempre di più. E di più. Chiuse gli occhi.
“Guardami” disse quella voce graffiante. Non la sentiva da anni. Aprì gli occhi e la vide, con il suo occhio bendato ed il labbro sfregiato.
“Mamma” disse con un fiato che fu liberazione e dolore.
Oltre il cerchio, oltre le lucciole, un bambino con i capelli a scodella guardava curioso il suo fratellino.
L’aria era immobile e calda, nessun rumore animava il bosco.
“Guardami” ripeté la donna.
Poi, dalla borsetta che teneva a tracolla, tirò fuori un martello. Era esattamente come lo ricordava: lungo e con il manico rosso.
La guardò nell’unico occhio grigio che quella notte era opaco ed arrossato.
Poi guardò il fratellone e lo salutò, con un largo sorriso. Anche lui rispose, come se fosse un gioco di quelli che facevano tra di loro.
Per la prima volta, in trent’anni, si sentì completamente felice.
Il primo colpo lo colpì dritto sulla fronte.
Fabrizio Clarissa
Una luna spenta illuminava di sbieco il sentiero che si inoltrava incerto tra gli ampi latifogli.
“Papa dove siamo?” chiese il bambino sul sedile accanto.
Ricordava di averlo chiesto anche lui molti anni prima. Suo fratello, invece, aveva taciuto e si era toccato il mozzicone d’orecchio che gli pendeva dalla testa, come era solito fare quando era nervoso.
“C’è un posto dove quello che desideri si realizza. Quello che più di tutto il tuo cuore desidera” rispose l’eco remota di sua madre. Ma lui non ebbe il cuore di ripetere quella antica frase e si limitò a far scendere il bambino e prenderlo per mano. Iniziarono a camminare, appena stabili sul terreno sconnesso. Ogni passo il passato tornava, le antiche sensazioni sopite riprendevano il loro posto come acqua in un fiume secco.
La mano di suo fratello la ricordava bene. Era morbida e dura al contempo. Quella di sua madre, invece, un ossuto grappolo di dita che lo tenevano stretto in modo nervoso.
“Non capiterà più bambini. Ve lo prometto”. Probabilmente avrà detto anche qualcos’altro durante il tragitto, ma lui ricordava solamente quella frase. Sapeva bene che faceva riferimento al suo occhio. C’era una benda, sopra, ma sotto ben poco. L’uomo con cui stava, quell’essere puzzolente, l’aveva fatto di nuovo. Una volta era toccato ad un labbro, per fortuna appena ammaccato. Poi ad un mignolo. Adesso era stata la volta dell’occhio.
Ogni volta giurava e spergiurava di lasciarlo, di mandarlo in galera, di ammazzarlo. Ma dopo un po’ lui tornava con in regalo un po’ di quella polvere bianca che va su per il naso e la storia finiva là. O ricominciava.
Quell’uomo era cattivo con loro. Suo fratello ne portava i segni e quel padiglione penzolante era stato un suo dono. Quell’uomo tornava e loro potevano solo nascondersi quando capivano che arrivav il momento brutto, quando lui girava gli occhi e le vene gli apparivano potenti sotto al collo.
Padre e figlio proseguirono con cautela, incespicando e traballando, nascosti dal velo della notte appena diluito dal chiarore del satellite.
“Papà hai visto? Ci sono tanti rami per terra” disse il piccolo.
Era normale che fosse così. Rimanevano delle tracce di quel qualcosa che abitava il bosco. Era il suo manifestarsi. Rami e fronde verdi e forti non potevano cadere da soli. Una forza arrabbiata e selvaggia gli strappava dai grandi alberi che custodivano quel luogo da sempre.
Era estate ma non vi era alcun rumore attorno a loro, niente che provenisse dall’intrico di vegetazione. Era come se la vita fosse volata altrove, sospinta via dalla strana elettricità che permeava quei luoghi. Era come se alla vita conosciuta se ne fosse sostituita un’altra, misteriosa ed oscura, eppure al contempo pulsante e tesa, come un grosso felino acquattato nell’erba.
Poi gli apparve all’improvviso l’immagine di quell’uomo malvagio. Paradossalmente era l’unica che la sua mente aveva conservato. La sua testa sotto le ruote di quel grande camion che lo aveva travolto. Indossava il caso mentre guidava lo scooter, ma non era servito a nient’altro che a rendere la sua faccia grottesca come un mascherone da fontana, con gli occhi e la lingua di fuori e la testa incassata nell’acciaio.
Il prezzo era stato pagato ed il desiderio avverato. E ciò che veramente desideri si avvera sempre se il tributo è versato.
Si rese conto di essere arrivato per via del luccichio.
“Guarda papà le lucciole!” disse con entusiasmo suo figlio.
Quei brillanti insetti gravitavano in senso antiorario in prossimità del cerchio di pietre. Non superavano mai il limite; non cambiavano mai direzione. Formavano una specie di cono di luce blanda ed opaca che si avvitava su se stessa, composta da decine di piccoli invertebrati attratti da una qualche oscura ragione in quei paraggi. Per i poeti sono l’emblema del firmamento in terra, ma non là. Apparivano, semmai, la grottesca rappresentazione di una qualche assurda anomalia, un assurdo girotondo.
Sua madre si era fermata a guardarle, questo lo ricordava. Gli era sembrato che singhiozzasse. Poi aveva guardato entrambi.
L’occhio buono, grigio e screziato di verde, era apparso oscuro e bordato di rosso.
Aveva chinato la testa e accarezzato il suo fratellone.
Era un bel bambino con i capelli scuri tagliati corti che mostravano fin troppo chiaramente la mutilazione dell’orecchio. Era più grande di lui e lo amava molto. Aveva tre anni di più ma da che si ricordava era sempre stato lui a vestirlo, a dargli da mangiare, a lavarlo. E se poteva lo nascondeva dall’uomo cattivo. Dormivano nello stesso letto e ogni notte lui gli stringeva la mano e quella pressione, morbida e dura, lo faceva star meglio.
“Aspetta qua” disse la donna, poi prese l’altro figlio ed entrò tra le pietre.
Lui fece la stessa cosa. Ebbe la sensazione che le lucciole si paralizzassero in aria per un istante mentre si avvicinavano, che tutto si solidificasse come un mosaico fatto di vetro temperato. Poi l’istante passò e varcarono quelle antiche pietre. Erano dentro al cerchio. Attorno ancora l’insolito nugolo d’insetti luminosi ed il loro insolito volteggiare antiorario. Ma adesso erano dentro.
“Papà ma che posto è questo?” chiese.
Forse lo chiese anche suo fratello. Oppure sua madre lo disse senza una ragione. Oppure nessuno parlò ed una voce gli rimbombò nella testa, mentre stranito ed incuriosito attendeva al di fuori del limite. Comunque fosse andata seppe la natura di quel luogo e che cosa dovesse accadere. Era un qualcosa che molti avevano appreso dalle vecchie sdentate che abitavano per quei monti. O lo avevano sentito sussurrare durante i falò estivi da ragazzacci spavaldi e spaccamondo. O lo aveva raccontato chi già c’era stato.
Lui lo aveva scoperto in quell’istante.
Non si poteva ottenere qualsiasi cosa, quale fosse il pagamento, ma solo ciò che veramente si desiderasse. Ciò che l’anima anelava più di ogni altra cosa.
“Papà?”
“Sai” rispose al figlio “tua madre ha distrutto tutto. Ma io glielo impedirò.” Lo disse assaporando l’amaro di quelle parole in bocca. Era l’amaro della sconfitta che non puoi evitare. Ma che non riesci comunque ad accettare.
Il bambino chinò il capo e non capì. In realtà, di tutto quel periodo fatto di litigi e separazioni aveva solo capito che la sua famiglia non c’era più. I bambini sono esseri semplici.
Alzò la testa e lo guardò con gli occhi pieni di lacrime.
“Papà, tu mi vuoi bene?” chiese con la sua vocina incrinata dalla paura.
Si sentì gelare, ma si fece forza. Era solo un’istante poi avrebbe cancellato tutto. Un nuovo inizio. Senza più errori. Sarebbero stati tutti meglio. Tutti.
Si cavò di tasca il coltello e lo aprì. Per un attimo, alla luce opaca delle lucciole, gli parve che il bambino avesse il padiglione dell’orecchio mozzato.
Poi affondò. Una, due, tre volte.
Il piccolo sussultò ma non pianse. Si accasciò senza un lamento. La luminescenza divenne più forte e rossastra. Il sangue uscì vermiglio dalle ferite e fu bevuto con avidità dal terreno. Il coltello cadde chi sa dove. Le lucciole girarono sempre più forte. Sempre di più. E di più. Chiuse gli occhi.
“Guardami” disse quella voce graffiante. Non la sentiva da anni. Aprì gli occhi e la vide, con il suo occhio bendato ed il labbro sfregiato.
“Mamma” disse con un fiato che fu liberazione e dolore.
Oltre il cerchio, oltre le lucciole, un bambino con i capelli a scodella guardava curioso il suo fratellino.
L’aria era immobile e calda, nessun rumore animava il bosco.
“Guardami” ripeté la donna.
Poi, dalla borsetta che teneva a tracolla, tirò fuori un martello. Era esattamente come lo ricordava: lungo e con il manico rosso.
La guardò nell’unico occhio grigio che quella notte era opaco ed arrossato.
Poi guardò il fratellone e lo salutò, con un largo sorriso. Anche lui rispose, come se fosse un gioco di quelli che facevano tra di loro.
Per la prima volta, in trent’anni, si sentì completamente felice.
Il primo colpo lo colpì dritto sulla fronte.
Fabrizio Clarissa