Voglio solo tornare a casa
Inviato: domenica 13 giugno 2021, 17:15
È notte fonda e non ci sono umani in giro: nessuno, nella strada deserta tra le curate villette di periferia, desidera vendicarsi con il vicino o mettere fine alla propria sofferenza.
Se mi avvicinassi alle abitazioni la situazione cambierebbe, ma per stanotte ho già da fare.
Scivolo leggero ad un palmo da terra, sotto i lampioni, seguito a breve distanza dall'essenza di Lucia Remassi, anni ottantre, vedova. Rallento, do un'occhiata alle mie spalle. L'anziana, avanza a piccoli passi, il capo chino a fissarsi i piedi. La sua essenza fumosa, che lascia intravedere l'auto nera parcheggiata dietro di lei, non nasconde il suo sguardo spento.
Gli umani non smettono di incuriosirmi. Lucia odiava tutti, si augurava di morire da anni, ed ora non era felice di essere giunta al termine di questo suo ciclo vitale.
Avanziamo in silenzio. La casa della donna si trova appena oltre la zona residenziale, dove inizia il bosco. È una struttura a due piani un pò fatiscente, la luce di una lanterna ne illumina l'ingresso, tre scalini di legno malandati sono coperti da una tettoia in plastica.
Siamo arrivati. Mi avvicino agli scalini e mi volto verso la donna allungando un braccio verso di lei. La tunica che mi copre ondeggia, scoprendo la mia mano che di umano non ha quasi più nulla. Le mie dita rinsecchite somigliano a quelle delle mummie. Meglio tenere coperto il resto del mio aspetto, non voglio dover recuperare un'essenza impazzita dallo spavento.
La donna solleva la testa, le labbra sottili semiaperte, mi fissa con sguardo vaquo.
Sposto la mano verso la casa, indicandogliela. «Siamo giunti alla tua dimora Lucia.»
Senza dire una parola, lei avanza a piccoli passi, verso l'ingresso.
«È dunque questa la tua scelta?» le domando, abbassando il braccio.
Lei si ferma, il piede sul primo gradino, mi da le spalle. «Voglio solo tornare a casa.»
Le stesse parole che mi aveva detto in ospedale, quando ho accolto la sua essenza. Non aveva detto altro, ma a me bastava. Non doveva darmi motivazioni.
«D'accordo.»
Lucia indugia qualche secondo davanti alla soglia e attraversa la porta, scomparendo attraverso il legno scrostato.
Un gatto nero con un collarino rosa, sbuca da dietro la casa e si siede ad osservare la porta, sotto la lanterna. La luce si spegne, immergendo l'abitazione e l'animale nell'oscurità.
Lascio quel luogo solitario, infilandomi tra le ombre del bosco. C'è qualcun altro che mi attende.
Affondo la pala nella terra, spingo con il piede per dare più forza. Ho il fiatone, il cuore mi batte a mille e mi tremano le gambe.
La torcia che ho appoggiato a terra illumina i miei piedi. Ruoto le braccia, sollevando la zolla di terra e la rovescio di lato, sopra la fossa.
Mi appoggio di peso sulla pala. Non respiro. Non è solo per la fatica.
Calmati ora, il grosso è fatto, va tutto bene.
Il silenzio del bosco sembra volermi ammonire.
Non dovevo... ho ucciso, ho ucciso una persona. Sono un assassino.
La vista mi si appanna, cerco di stare dritto, stringo la mano sul legno del manico.
Lacrime calde mi scaldano le guance. Scivolo in ginocchio, la pala mi sfugge e cade a terra con un tonfo. Ormai è fatta. Non posso tornare indietro. Lo stomaco mi si contrae e vomito bile sulla terra smossa. Boccheggio, ho la mente annebbiata.
Sara, l'ho fatto per te. Il mostro non c'è più.
«È la mia parola contro la sua Giorgio, hanno detto così.» Sara, coricata sul divano, si tira la copertina di cotone sopra la testa e mi gira la schiena. «Basta, ti prego, non voglio più parlarne.»
Stringo i pugni, in piedi davanti a lei. Cosa posso fare?
Roberto Calessi.Vorrei ammazzarlo, quel pezzo di merda. Ha negato tutto. Con mia sorella in ospedale, piena di lividi. La mia sorellina. Ha solo quindici anni e... Gli occhi mi si riempiono di lacrime e mi volto. Vado in cucina.
Mi siedo su uno sgabello e appoggio la fronte sul marmo della penisola. Cosa posso fare?
Al momento le indagini sono in corso, faremo tutto il possibile. La legge sapeva solo dire questo? Possibile che a quel bastardo sia bastato usare un contraccettivo per passarla liscia?
Non sono state trovate tracce di... picchio la testa sul marmo, ma la voce piatta del polizziotto che parlava con i miei genitori, mi continua a martellare nel cervello.
L'ho cercato su Facebook, Roberto. So chi è. Ho la sua faccia stampata in mente.
Deve pagarla per quello che ha fatto, non può passarla liscia. L'ho cercato, ho chiesto in giro, ho scoperto dove lavora, ma lui non si fa trovare. Non cia sta neanche andando, a lavoro.
Ha paura e fa bene. Se mi capita tra le mani...
Ci ha rovinato la vita. Mamma e Sara continuano a piangere e papà sembra uno spiritato.
Non fanno nulla.
Mi hanno detto di smetterla, che per il bene di Sara dobbiamo dimenticare ed andare avanti, ma non ce la faccio.
Mi alzo, vado all'ingresso, lancio via le laciabatte e mi infilo le scarpe da ginnastica. Prendo il marsupio, le chiavi dell'auto, ed esco.
È quasi sera, i miei arriveranno tra poco, non ho voglia di un'altra cena depressiva in famiglia, di fingere che vada tutto bene e sorridere. Mi viene la nausea solo a pensarci.
Salgo sulla mia vecchia Ford Fusion ed accendo il motore. Dentro c'è puzza di sigaretta, dovrei lavarla. Fa un caldo boia oggi, e l'aria condizionata non va. Pigio sul tasto dei vetri automatici ed abbasso il mio e quello del passeggero.
Devo distrarmi un pò. Andrò a bere una birra, magari Riccardo è in giro. Frugo nel marsupio, tiro fuori il telefono e lo sblocco. Mando un messaggio al mio amico e butto tutto sul sedile di fianco a me. Intanto andrò a mangiare un panino al mcdonald, è da un sacco che non ci vado ed è fuori città, guidare un pò mi rilasserà. Parto.
Alzo il volume della radio, Virgin Radio picchia con il suo rock e copre la voce piatta del polizziotto che mi legge per l'ennesima volta le dichiarazioni di Sara. Sta zitto, tu.
Accellero. Imbocco la statale, prendo il telefono, non ci sono notifiche. Lo ributto sul sedile.
Gli Aerosmith suonano "living on the edge".
L'anno scorso ero al loro concerto a Firenze in quello stesso periodo. Il loro ultimo concerto. Mi sembra passato un secolo. Canticchio la canzone e accellero.
Ecco il Mcdonald. Intanto berrò qui una birra. Mi infilo nel Mcdrive ed ordino due hamburger ed una becks. Pago, prendo i panini e mi vado a parcheggiare in fondo, vicino al boschetto, sotto l'ombra degli alberi.
Appoggio il sacchetto di carta marrone sulle gambe e lo apro. Il profumo di patatine fritte e di carne cotta mi avvolge. Il nodo allo stomaco si scioglie un pò. Prendo una patatina e l'addento, cerco la birra. La stappo con il portachiavi e ne bevo un sorso. È bella fresca e mi rigenera.
Mi asciugo il sudore dalla fronte e faccio un lungo respiro. Chiudo gli occhi e mi lascio andare indietro sul poggiatesta. Devo calmarmi.
Mi raddrizzo e bevo ancora un pò.
Ho fatto bene a farmi un giro. Devo uscire un pò di più di casa, sto impazzendo.
Prendo un hamburger, lo scarto per metà e lo addento. Fantastico. Come può essere così buona una fettina di carne surgelata buttata dentro due fette di pane precotto?
Fuori il tramonto sembra volermi dare una mano stasera, rasserenandomi con i suoi colori caldi.
Una ragazza apre la porticina del Mcdrive e con una breve corsa, consegna un sacchetto ad una macchina parcheggiata poco più avanti. Mastico il mio panino e la osservo rientrare velocemente dentro il locale. L'auto si parcheggia in un angolo isolato.
Appallottolo la carta dell'hamburger e prendo l'altro, lo scarto e lo addento. Riccardo avrà risposto? Controllo il cellulare. Nada. Boh, sarà dalla donna.
Mangio il mio panino. Forse ne porterò un paio anche a Sara.
Dall'auto di prima, scende un tizio con un cappellino bianco, camicia slacciata e jeans. Lo guardo avvicinarsi ad un bidone e poi tentare un tiro, con il sacchetto del cibo avvolto a palla. Manca il centro. Si avvicina al bidone e si china a raccogliere la spazzatura. Gli cade il cappello e un ciuffo di capelli biondi mi fa saltare qualche battito.
È lui. Come ho fatto a non riconoscerlo subito?
Roberto si guarda attorno, prende il cappello, se lo rimette in testa e va veloce verso la sua auto.
Ti ho beccato, stronzo.
Il respiro pian piano torna normale. Cerco la torcia e la afferro. Illumino davanti a me. C'è terra smossa tutt'attorno, ma sono lontano dal sentiero, nessuno passa mai da lì. Pareggio il terreno scavato. Sono andato abbastanza in profondità, il cadavere non dovrebbe riaffiorare con la pioggia, spero solo che qualche animale selvatico non venga a scavare proprio qui.
Un brivido di freddo mi corre lungo la schiena. Sono completamente sudato, eppure mi sembra che l'aria si stia facendo più fresca. Saranno gli alberi, probabilmente lì sotto, si scalda meno il terreno di giorno e la notte si rinfresca prima.
Mi rialzo aiutandomi con una mano appoggiata sul ginocchio. Mi spazzolo i vestiti. Macchie scure rimangono sulla mia t-shirt marrone e sui jeans. Non è terra. Dovrò far sparire quegli abiti, li brucerò. Voglio andare a casa, farmi una doccia calda e dimenticarmi di questa notte.
La macchina è parcheggiata in una careggia fuori dal bosco, è nascosta ma meglio andarsene prima possibile. Dovrò controllare anche lei, potrebbero essere rimaste macchie di sangue nel cofano o sul sedile e se la polizia dovesse...
Un fruscio tra le piante.
Mi irrigidisco. Punto la torcia tra i cespugli, il fascio di luce tremola come la mia mano.
Due occhi gialli mi fissano. Tremo, il cuore in gola, metto a fuoco l'animale.
Un gatto nero con un collarino rosa è fermo con una zampa alzata, abbagliato.
Faccio un sospiro di sollievo. Cosa ci fa un gatto domestico nel bosco? Non mi sembra ci siano case nei paraggi, ma probabilmente si allontanano parecchio di notte. Sono animali notturni i gatti, giusto?
Raccolgo la pala, ma con la coda dell'occhio sbircio il gatto, che ora si è seduto e si lecca il pelo tranquillamente. Che spavento mi ha fatto prendere. C'era così silenzio prima, che quel fruscio mi ha fatto perdere qualche anno di vita. Ne ho già persi abbastanza questa sera.
In effetti, c'è fin troppo silenzio. Le cicale? Non c'erano animali in quel bosco? Forse li avevo spaventati quando ero arrivato trascinando il corpo.
Faccio un lungo sospiro. Me ne devo andare.
Voglio tornare a casa. Farmi una doccia e dormire.
Ma resto fermo.
Perchè non riesco ad andar via? Un brivido mi corre di nuovo lungo la schiena. Sono solo, nel bosco, di notte, non è normale starsene li impalati senza un motivo, sopra una fossa con l'unica compagnia di un morto. E di un gatto.
Sbircio ancora verso il felino. Non sta più guardando me. Fissa un punto alle mie spalle, con gli occhi sgranati, immobile. Seguo il suo sguardo, non c'è nulla.
Il gatto rizza il pelo e comincia a ringhiare. Soffia minaccioso e scappa via.
Mi volto ed illumino in giro con la torcia. Cespugli immobili, alti fusti ricoperti di muschio. Buio.
Non c'è niente di strano, ma la paura mi stringe lo stomaco. Potrebbe sbucare qualunque cosa da lì in mezzo. Devo andarmene.
Sollevo la pala, la stringo in una mano, non si sa mai che mi serva usarla, e comincio a camminare a passo svelto verso la mia auto. Con la torcia mi illumino attorno, mi fermo e dò ancora un occhiata dietro di me, per sicurezza. Il gatto è sparito e non c'è nient'altro in giro. Meglio così.
Cammino, la mente sgombra. Un ramo, non inciampare. Mi abbasso per evitare un rampicante, controllo a terra dove metto i piedi con la torcia.
La mia mente si è svuotata improvvisamente, il tempo sembra volare ed in pochi istanti sono all'auto. Mi sembrava di averci messo molto di più prima, al mio arrivo.
Prendo la torcia tra i denti e frugo in tasca cercando le chiavi. Trovate. Clicco sul bottone di apertura, apro la portiera. La luce all'interno dell'abitacolo si accende.
Rimetto in tasca le chiavi, spengo la torcia e la butto sul sedile. Vado dietro l'auto, apro il baule e ci butto dentro la pala. Lo richiudo un pò troppo forte, torno dal lato del guidatore, apro lo sportello, entro in auto e mi siedo.
Ah già.
Alzo il sedere e infilo la mano in tasca. Eccole lì. Prendo le chiavi e le infilo nell'accensione.
Appoggio la testa contro il volante. Forza Giorgio.
Andiamo.
Giro la chiave, il motore si avvia silenzioso, metto la prima, accellero piano. La strada battuta davanti a me scorre come se stessi navigando su un fiume circondato dall'erba alta. Vado avanti, come un'automa. Metti la seconda, accellera. La radio tace.
Seguo l'auto grigia. Le luci rosse posteriori illuminano la strada di campagna come un tunnel per l'inferno. Un pensiero molto umano, non è da me.
Giorgio Pasotti, anni 23, ha percorso il suo sentiero di sangue. La sua vittima, Roberto Calessi, anni 24, aveva concluso il suo ciclo vitale due ore prima ed il suo corpo mortale riposava tra gli alberi del bosco. La sua essenza non era rimasta bloccata, non c'era sulla sua fossa.
L'auto procede spedita. Vuole tornare a casa Giorgio. Lo seguo.
Il sentiero termina sulla statale e l'auto grigia la imbocca svoltando verso destra.
Uno schianto terribile illumina la notte di scintille, spedendo pezzi di vetri e lamiera in tutte le direzioni. L'auto grigia, infossata su tutto il lato sinistro, in una scia di fuoco, striscia diversi metri in avanti e si cappotta, rotola tre volte su sè stessa.
Si ferma sottosopra, fumante, una luce posteriore accesa, le altre tutte scoppiate. Un grosso camion con tutto il frontale schiacciato in basso, è fermo di traverso lungo la corsia. Un faro bianco è rimasto acceso.
Silenzio. Lungo la strada buia non passa nessuno.
Giorgio striscia fuori dal finestrino in frantumi, gattona, si allontana.
Si alza in piedi appoggiando le mani sulle ginocchia, e rimane piegato così, la testa sollevata verso l'auto. È incredulo.
Mi avvicino. Sono alle sue spalle. Giorgio rabbrividisce, si spinge con le mani sulle ginocchia e si raddrizza. Si volta e guarda verso il camion, il suo sguardo mi incrocia e i suoi occhi si sgranano.
Grida e indietreggia, cade all'indietro.
«Dio Santo! Mi hai fatto prendere un colpo! Ma chi... sei l'autista del camion? Io non, non ho visto, credo che...»
L'umano sembra confuso, meglio aspettare. Si rialza e il suo sguardo scende lungo il mio corpo. Ora fissa i miei piedi, che levitano a qualche centimentro da terra, con la bocca aperta.
«Ma cosa...» L'umano fa un passo indietro, si volta verso la sua auto. Delle fiamme sbucano dal motore. La sua testa si gira da me al suo mezzo più volte.
Allungo una mano verso di lui, la tunica non la scopre. «Sono qui per te.»
Vedo attraverso la sua essenza il rosso delle fiamme che si fa più intenso e scivola dentro l'abitacolo dell'auto grigia, avvolgendo il corpo umano che giace ricoperto di sangue, schiacciato tra i resti dei sedili e del cruscotto.
Giorgio ha paura. Mi ha dato un nome. La morte. Molti mi chiamano così. Sta guardando l'auto e ha visto il suo corpo. È sconvolto, il suo spirito freme, non accetta quello che vede.
Capita spesso nelle morti violente che le essenze credano ancora di essere nel loro corpo.
Silenzio. L'auto viene completamente avvolta dalle fiamme.
Dal camion scende un uomo corpulento, con una ferita alla testa; si tiene le mani sul capo guarda ad occhi sgranati le fiamme davanti a sè, oltre di noi, poi si volta, risale sul camion.
Sta chiamando i soccorsi. Ma sa che è successo qualcosa di irreparabile. Scende dal camion con il telefono in mano e corre verso l'auto, ci passa di fianco, cerca di guardare dentro, ma le fiamme sono alte.
Giorgio ha gli occhi spenti. Si volta verso i me, mi fissa i piedi.
Tengo il braccio teso verso di lui. «Il tuo ciclo vitale è concluso. Vai oltre.»
Non mi risponde.
La sua mente si è già persa, è tutto buio. Ha paura, non vuole restare da solo.
«Cosa vuoi fare?» gli chiedo. Ma so già la risposta.
«Voglio solo tornare a casa.»
Se mi avvicinassi alle abitazioni la situazione cambierebbe, ma per stanotte ho già da fare.
Scivolo leggero ad un palmo da terra, sotto i lampioni, seguito a breve distanza dall'essenza di Lucia Remassi, anni ottantre, vedova. Rallento, do un'occhiata alle mie spalle. L'anziana, avanza a piccoli passi, il capo chino a fissarsi i piedi. La sua essenza fumosa, che lascia intravedere l'auto nera parcheggiata dietro di lei, non nasconde il suo sguardo spento.
Gli umani non smettono di incuriosirmi. Lucia odiava tutti, si augurava di morire da anni, ed ora non era felice di essere giunta al termine di questo suo ciclo vitale.
Avanziamo in silenzio. La casa della donna si trova appena oltre la zona residenziale, dove inizia il bosco. È una struttura a due piani un pò fatiscente, la luce di una lanterna ne illumina l'ingresso, tre scalini di legno malandati sono coperti da una tettoia in plastica.
Siamo arrivati. Mi avvicino agli scalini e mi volto verso la donna allungando un braccio verso di lei. La tunica che mi copre ondeggia, scoprendo la mia mano che di umano non ha quasi più nulla. Le mie dita rinsecchite somigliano a quelle delle mummie. Meglio tenere coperto il resto del mio aspetto, non voglio dover recuperare un'essenza impazzita dallo spavento.
La donna solleva la testa, le labbra sottili semiaperte, mi fissa con sguardo vaquo.
Sposto la mano verso la casa, indicandogliela. «Siamo giunti alla tua dimora Lucia.»
Senza dire una parola, lei avanza a piccoli passi, verso l'ingresso.
«È dunque questa la tua scelta?» le domando, abbassando il braccio.
Lei si ferma, il piede sul primo gradino, mi da le spalle. «Voglio solo tornare a casa.»
Le stesse parole che mi aveva detto in ospedale, quando ho accolto la sua essenza. Non aveva detto altro, ma a me bastava. Non doveva darmi motivazioni.
«D'accordo.»
Lucia indugia qualche secondo davanti alla soglia e attraversa la porta, scomparendo attraverso il legno scrostato.
Un gatto nero con un collarino rosa, sbuca da dietro la casa e si siede ad osservare la porta, sotto la lanterna. La luce si spegne, immergendo l'abitazione e l'animale nell'oscurità.
Lascio quel luogo solitario, infilandomi tra le ombre del bosco. C'è qualcun altro che mi attende.
Affondo la pala nella terra, spingo con il piede per dare più forza. Ho il fiatone, il cuore mi batte a mille e mi tremano le gambe.
La torcia che ho appoggiato a terra illumina i miei piedi. Ruoto le braccia, sollevando la zolla di terra e la rovescio di lato, sopra la fossa.
Mi appoggio di peso sulla pala. Non respiro. Non è solo per la fatica.
Calmati ora, il grosso è fatto, va tutto bene.
Il silenzio del bosco sembra volermi ammonire.
Non dovevo... ho ucciso, ho ucciso una persona. Sono un assassino.
La vista mi si appanna, cerco di stare dritto, stringo la mano sul legno del manico.
Lacrime calde mi scaldano le guance. Scivolo in ginocchio, la pala mi sfugge e cade a terra con un tonfo. Ormai è fatta. Non posso tornare indietro. Lo stomaco mi si contrae e vomito bile sulla terra smossa. Boccheggio, ho la mente annebbiata.
Sara, l'ho fatto per te. Il mostro non c'è più.
«È la mia parola contro la sua Giorgio, hanno detto così.» Sara, coricata sul divano, si tira la copertina di cotone sopra la testa e mi gira la schiena. «Basta, ti prego, non voglio più parlarne.»
Stringo i pugni, in piedi davanti a lei. Cosa posso fare?
Roberto Calessi.Vorrei ammazzarlo, quel pezzo di merda. Ha negato tutto. Con mia sorella in ospedale, piena di lividi. La mia sorellina. Ha solo quindici anni e... Gli occhi mi si riempiono di lacrime e mi volto. Vado in cucina.
Mi siedo su uno sgabello e appoggio la fronte sul marmo della penisola. Cosa posso fare?
Al momento le indagini sono in corso, faremo tutto il possibile. La legge sapeva solo dire questo? Possibile che a quel bastardo sia bastato usare un contraccettivo per passarla liscia?
Non sono state trovate tracce di... picchio la testa sul marmo, ma la voce piatta del polizziotto che parlava con i miei genitori, mi continua a martellare nel cervello.
L'ho cercato su Facebook, Roberto. So chi è. Ho la sua faccia stampata in mente.
Deve pagarla per quello che ha fatto, non può passarla liscia. L'ho cercato, ho chiesto in giro, ho scoperto dove lavora, ma lui non si fa trovare. Non cia sta neanche andando, a lavoro.
Ha paura e fa bene. Se mi capita tra le mani...
Ci ha rovinato la vita. Mamma e Sara continuano a piangere e papà sembra uno spiritato.
Non fanno nulla.
Mi hanno detto di smetterla, che per il bene di Sara dobbiamo dimenticare ed andare avanti, ma non ce la faccio.
Mi alzo, vado all'ingresso, lancio via le laciabatte e mi infilo le scarpe da ginnastica. Prendo il marsupio, le chiavi dell'auto, ed esco.
È quasi sera, i miei arriveranno tra poco, non ho voglia di un'altra cena depressiva in famiglia, di fingere che vada tutto bene e sorridere. Mi viene la nausea solo a pensarci.
Salgo sulla mia vecchia Ford Fusion ed accendo il motore. Dentro c'è puzza di sigaretta, dovrei lavarla. Fa un caldo boia oggi, e l'aria condizionata non va. Pigio sul tasto dei vetri automatici ed abbasso il mio e quello del passeggero.
Devo distrarmi un pò. Andrò a bere una birra, magari Riccardo è in giro. Frugo nel marsupio, tiro fuori il telefono e lo sblocco. Mando un messaggio al mio amico e butto tutto sul sedile di fianco a me. Intanto andrò a mangiare un panino al mcdonald, è da un sacco che non ci vado ed è fuori città, guidare un pò mi rilasserà. Parto.
Alzo il volume della radio, Virgin Radio picchia con il suo rock e copre la voce piatta del polizziotto che mi legge per l'ennesima volta le dichiarazioni di Sara. Sta zitto, tu.
Accellero. Imbocco la statale, prendo il telefono, non ci sono notifiche. Lo ributto sul sedile.
Gli Aerosmith suonano "living on the edge".
L'anno scorso ero al loro concerto a Firenze in quello stesso periodo. Il loro ultimo concerto. Mi sembra passato un secolo. Canticchio la canzone e accellero.
Ecco il Mcdonald. Intanto berrò qui una birra. Mi infilo nel Mcdrive ed ordino due hamburger ed una becks. Pago, prendo i panini e mi vado a parcheggiare in fondo, vicino al boschetto, sotto l'ombra degli alberi.
Appoggio il sacchetto di carta marrone sulle gambe e lo apro. Il profumo di patatine fritte e di carne cotta mi avvolge. Il nodo allo stomaco si scioglie un pò. Prendo una patatina e l'addento, cerco la birra. La stappo con il portachiavi e ne bevo un sorso. È bella fresca e mi rigenera.
Mi asciugo il sudore dalla fronte e faccio un lungo respiro. Chiudo gli occhi e mi lascio andare indietro sul poggiatesta. Devo calmarmi.
Mi raddrizzo e bevo ancora un pò.
Ho fatto bene a farmi un giro. Devo uscire un pò di più di casa, sto impazzendo.
Prendo un hamburger, lo scarto per metà e lo addento. Fantastico. Come può essere così buona una fettina di carne surgelata buttata dentro due fette di pane precotto?
Fuori il tramonto sembra volermi dare una mano stasera, rasserenandomi con i suoi colori caldi.
Una ragazza apre la porticina del Mcdrive e con una breve corsa, consegna un sacchetto ad una macchina parcheggiata poco più avanti. Mastico il mio panino e la osservo rientrare velocemente dentro il locale. L'auto si parcheggia in un angolo isolato.
Appallottolo la carta dell'hamburger e prendo l'altro, lo scarto e lo addento. Riccardo avrà risposto? Controllo il cellulare. Nada. Boh, sarà dalla donna.
Mangio il mio panino. Forse ne porterò un paio anche a Sara.
Dall'auto di prima, scende un tizio con un cappellino bianco, camicia slacciata e jeans. Lo guardo avvicinarsi ad un bidone e poi tentare un tiro, con il sacchetto del cibo avvolto a palla. Manca il centro. Si avvicina al bidone e si china a raccogliere la spazzatura. Gli cade il cappello e un ciuffo di capelli biondi mi fa saltare qualche battito.
È lui. Come ho fatto a non riconoscerlo subito?
Roberto si guarda attorno, prende il cappello, se lo rimette in testa e va veloce verso la sua auto.
Ti ho beccato, stronzo.
Il respiro pian piano torna normale. Cerco la torcia e la afferro. Illumino davanti a me. C'è terra smossa tutt'attorno, ma sono lontano dal sentiero, nessuno passa mai da lì. Pareggio il terreno scavato. Sono andato abbastanza in profondità, il cadavere non dovrebbe riaffiorare con la pioggia, spero solo che qualche animale selvatico non venga a scavare proprio qui.
Un brivido di freddo mi corre lungo la schiena. Sono completamente sudato, eppure mi sembra che l'aria si stia facendo più fresca. Saranno gli alberi, probabilmente lì sotto, si scalda meno il terreno di giorno e la notte si rinfresca prima.
Mi rialzo aiutandomi con una mano appoggiata sul ginocchio. Mi spazzolo i vestiti. Macchie scure rimangono sulla mia t-shirt marrone e sui jeans. Non è terra. Dovrò far sparire quegli abiti, li brucerò. Voglio andare a casa, farmi una doccia calda e dimenticarmi di questa notte.
La macchina è parcheggiata in una careggia fuori dal bosco, è nascosta ma meglio andarsene prima possibile. Dovrò controllare anche lei, potrebbero essere rimaste macchie di sangue nel cofano o sul sedile e se la polizia dovesse...
Un fruscio tra le piante.
Mi irrigidisco. Punto la torcia tra i cespugli, il fascio di luce tremola come la mia mano.
Due occhi gialli mi fissano. Tremo, il cuore in gola, metto a fuoco l'animale.
Un gatto nero con un collarino rosa è fermo con una zampa alzata, abbagliato.
Faccio un sospiro di sollievo. Cosa ci fa un gatto domestico nel bosco? Non mi sembra ci siano case nei paraggi, ma probabilmente si allontanano parecchio di notte. Sono animali notturni i gatti, giusto?
Raccolgo la pala, ma con la coda dell'occhio sbircio il gatto, che ora si è seduto e si lecca il pelo tranquillamente. Che spavento mi ha fatto prendere. C'era così silenzio prima, che quel fruscio mi ha fatto perdere qualche anno di vita. Ne ho già persi abbastanza questa sera.
In effetti, c'è fin troppo silenzio. Le cicale? Non c'erano animali in quel bosco? Forse li avevo spaventati quando ero arrivato trascinando il corpo.
Faccio un lungo sospiro. Me ne devo andare.
Voglio tornare a casa. Farmi una doccia e dormire.
Ma resto fermo.
Perchè non riesco ad andar via? Un brivido mi corre di nuovo lungo la schiena. Sono solo, nel bosco, di notte, non è normale starsene li impalati senza un motivo, sopra una fossa con l'unica compagnia di un morto. E di un gatto.
Sbircio ancora verso il felino. Non sta più guardando me. Fissa un punto alle mie spalle, con gli occhi sgranati, immobile. Seguo il suo sguardo, non c'è nulla.
Il gatto rizza il pelo e comincia a ringhiare. Soffia minaccioso e scappa via.
Mi volto ed illumino in giro con la torcia. Cespugli immobili, alti fusti ricoperti di muschio. Buio.
Non c'è niente di strano, ma la paura mi stringe lo stomaco. Potrebbe sbucare qualunque cosa da lì in mezzo. Devo andarmene.
Sollevo la pala, la stringo in una mano, non si sa mai che mi serva usarla, e comincio a camminare a passo svelto verso la mia auto. Con la torcia mi illumino attorno, mi fermo e dò ancora un occhiata dietro di me, per sicurezza. Il gatto è sparito e non c'è nient'altro in giro. Meglio così.
Cammino, la mente sgombra. Un ramo, non inciampare. Mi abbasso per evitare un rampicante, controllo a terra dove metto i piedi con la torcia.
La mia mente si è svuotata improvvisamente, il tempo sembra volare ed in pochi istanti sono all'auto. Mi sembrava di averci messo molto di più prima, al mio arrivo.
Prendo la torcia tra i denti e frugo in tasca cercando le chiavi. Trovate. Clicco sul bottone di apertura, apro la portiera. La luce all'interno dell'abitacolo si accende.
Rimetto in tasca le chiavi, spengo la torcia e la butto sul sedile. Vado dietro l'auto, apro il baule e ci butto dentro la pala. Lo richiudo un pò troppo forte, torno dal lato del guidatore, apro lo sportello, entro in auto e mi siedo.
Ah già.
Alzo il sedere e infilo la mano in tasca. Eccole lì. Prendo le chiavi e le infilo nell'accensione.
Appoggio la testa contro il volante. Forza Giorgio.
Andiamo.
Giro la chiave, il motore si avvia silenzioso, metto la prima, accellero piano. La strada battuta davanti a me scorre come se stessi navigando su un fiume circondato dall'erba alta. Vado avanti, come un'automa. Metti la seconda, accellera. La radio tace.
Seguo l'auto grigia. Le luci rosse posteriori illuminano la strada di campagna come un tunnel per l'inferno. Un pensiero molto umano, non è da me.
Giorgio Pasotti, anni 23, ha percorso il suo sentiero di sangue. La sua vittima, Roberto Calessi, anni 24, aveva concluso il suo ciclo vitale due ore prima ed il suo corpo mortale riposava tra gli alberi del bosco. La sua essenza non era rimasta bloccata, non c'era sulla sua fossa.
L'auto procede spedita. Vuole tornare a casa Giorgio. Lo seguo.
Il sentiero termina sulla statale e l'auto grigia la imbocca svoltando verso destra.
Uno schianto terribile illumina la notte di scintille, spedendo pezzi di vetri e lamiera in tutte le direzioni. L'auto grigia, infossata su tutto il lato sinistro, in una scia di fuoco, striscia diversi metri in avanti e si cappotta, rotola tre volte su sè stessa.
Si ferma sottosopra, fumante, una luce posteriore accesa, le altre tutte scoppiate. Un grosso camion con tutto il frontale schiacciato in basso, è fermo di traverso lungo la corsia. Un faro bianco è rimasto acceso.
Silenzio. Lungo la strada buia non passa nessuno.
Giorgio striscia fuori dal finestrino in frantumi, gattona, si allontana.
Si alza in piedi appoggiando le mani sulle ginocchia, e rimane piegato così, la testa sollevata verso l'auto. È incredulo.
Mi avvicino. Sono alle sue spalle. Giorgio rabbrividisce, si spinge con le mani sulle ginocchia e si raddrizza. Si volta e guarda verso il camion, il suo sguardo mi incrocia e i suoi occhi si sgranano.
Grida e indietreggia, cade all'indietro.
«Dio Santo! Mi hai fatto prendere un colpo! Ma chi... sei l'autista del camion? Io non, non ho visto, credo che...»
L'umano sembra confuso, meglio aspettare. Si rialza e il suo sguardo scende lungo il mio corpo. Ora fissa i miei piedi, che levitano a qualche centimentro da terra, con la bocca aperta.
«Ma cosa...» L'umano fa un passo indietro, si volta verso la sua auto. Delle fiamme sbucano dal motore. La sua testa si gira da me al suo mezzo più volte.
Allungo una mano verso di lui, la tunica non la scopre. «Sono qui per te.»
Vedo attraverso la sua essenza il rosso delle fiamme che si fa più intenso e scivola dentro l'abitacolo dell'auto grigia, avvolgendo il corpo umano che giace ricoperto di sangue, schiacciato tra i resti dei sedili e del cruscotto.
Giorgio ha paura. Mi ha dato un nome. La morte. Molti mi chiamano così. Sta guardando l'auto e ha visto il suo corpo. È sconvolto, il suo spirito freme, non accetta quello che vede.
Capita spesso nelle morti violente che le essenze credano ancora di essere nel loro corpo.
Silenzio. L'auto viene completamente avvolta dalle fiamme.
Dal camion scende un uomo corpulento, con una ferita alla testa; si tiene le mani sul capo guarda ad occhi sgranati le fiamme davanti a sè, oltre di noi, poi si volta, risale sul camion.
Sta chiamando i soccorsi. Ma sa che è successo qualcosa di irreparabile. Scende dal camion con il telefono in mano e corre verso l'auto, ci passa di fianco, cerca di guardare dentro, ma le fiamme sono alte.
Giorgio ha gli occhi spenti. Si volta verso i me, mi fissa i piedi.
Tengo il braccio teso verso di lui. «Il tuo ciclo vitale è concluso. Vai oltre.»
Non mi risponde.
La sua mente si è già persa, è tutto buio. Ha paura, non vuole restare da solo.
«Cosa vuoi fare?» gli chiedo. Ma so già la risposta.
«Voglio solo tornare a casa.»