Il gioco del buio
Inviato: martedì 15 giugno 2021, 12:58
Il gioco del buio
Alessandro Canella
Gli elettrodi attaccati lungo le braccia e sulle tempie iniziano a pizzicare. Spero almeno che questo esame duri meno del test a risposte multiple.
«Fastidio?»
Alzo lo sguardo sul dottore dall’altra parte della scrivania. «Solo un leggero prurito.»
L’uomo torna a rivolgere l’attenzione al computer. «Soffre di qualche disturbo?»
«Allergia al pelo animale.» Alzo un sopracciglio. «Non sono previsti gatti durante l’esperimento, vero?»
Il dottore ignora la domanda. «Difficoltà a prendere sonno?»
«A volte, soprattutto d’estate.»
«Mai sofferto d’attacchi di panico? Claustrofobia?»
Rispondo con un’alzata di spalle.
«Acluofobia?»
«Sarebbe?»
«Paura del buio.»
«Non direi. Insomma, forse da piccolo, ma quale bambino non ha paura del buio?»
Il dottore apre la bocca per un’altra domanda, quando dalla porta dello studio entra un uomo in completo grigio, sul petto una targhetta con su scritto un nome, forse straniero.
Raccoglie la mia cartella e scorre le pagine. «Chi abbiamo?» La pronuncia tradisce un leggero accento tedesco.
Il dottore si aggiusta gli occhiali. «Soggetto 23.»
Il tedesco si piega sul monitor. «Come mai qui?»
La domanda mi coglie alla sprovvista. Davvero non lo immagina? «Temo non vincerò il premio originalità della giornata.» Abbozzo un sorriso. «Insomma, 2000 Euro per fare da cavia per due settimane sono una bella cifra.»
«Problemi economici?»
Cristo, che tatto. «Sono uno studente fuori sede e senza borsa di studio. Di certo non navigo nell’oro.»
«Vive da solo?»
«No, condivido un appartamento con altri studenti.»
«Fidanzato?»
Stringo le labbra e scuoto la testa.
«Ultimo rapporto sessuale?»
«Scusi, questo cos’ha a che vedere con—»
«Si limiti a rispondere» s’intromette il dottore.
Deglutisco. «Sei mesi fa. Più o meno.»
«Paura più grande?»
Sto per rispondere, ma il crucco alza un dito. «Ci pensi attentamente. Non dica la prima cosa che le passa per la testa.»
Faccio come mi è stato detto e rimango in silenzio per un po’. «Essere ignorato. O dimenticato, addirittura.»
L’uomo dà un colpetto sulle spalle del collega per farlo alzare e sedersi al suo posto. Digita qualcosa sulla tastiera. «Ha preso visione dei rischi descritti sul modulo d’iscrizione? È consapevole che in caso di selezione le sarà chiesto di rinunciare a buona parte della sua privacy e dei suoi diritti civili?»
Annuisco. Non che l’annuncio sul giornale non facesse già intuire qualcosa al riguardo: team di ricerca scientifica cerca cavie umane per esperimento psicologico legato allo studio dello stress da isolamento estremo.
Il tedesco si alza. Senza troppi riguardi mi strappa gli elettrodi e mi porge un rotolone di carta assorbente con cui rimuovere il gel. «Attenda nell’atrio. Non appena conclusi i colloqui individuali, renderemo noti i candidati scelti.»
Butto la carta in un cestino e faccio per uscire.
«Un’ultima cosa.»
Mi giro.
«So che era scritto anche all’interno dell’annuncio, ma preferisco ricordarlo a tutti: fino al momento della selezione, è vietato qualunque scambio verbale tra candidati. Chiaro?»
Ancora una volta annuisco ed esco dallo studio.
L’atrio del centro di ricerca somiglia a un formicaio. Ad affollarlo più di un centinaio di candidati, uomini per lo più, tutti in piedi e in silenzio, come tante formiche attratte da un po’ di zucchero.
Vicino alle macchinette del caffè qualcuno riceve una telefonata. Fa appena in tempo a rispondere che lo avvicina un ragazzo pelato con addosso un camice bianco. Da dove mi trovo non capisco cosa dicono, ma dopo pochi secondi il tizio col cellulare viene accompagnato verso l’uscita.
Poco più tardi dagli altoparlanti parte un ronzio. «Verranno ora elencati i numeri dei candidati scelti per l’esperimento. I soggetti saranno divisi in cinque gruppi da tre. Non appena sentirete nominare il vostro numero, siete pregati di alzare la mano.»
Uno alla volta, l’annunciatrice elenca i numeri selezionati. Man mano che le formazioni si esauriscono, le singole squadre vengono fatte uscire da un corridoio laterale. Pochi minuti e arriva il momento dell’ultimo gruppo.
«Squadra 5. Numeri 7, 23, 86.»
Sì, cazzo!
Alzo il braccio e mi faccio largo tra la massa di esclusi che comincia a svuotare l’atrio lasciandosi a commenti di vario tipo. Bye bye, sfigati.
Non senza qualche difficoltà mi unisco ai miei compagni: 7, una donna dagli occhi gentili e in leggero sovrappeso, e 86, un omone riccio e dalla barba folta. Il pelato di poco prima ci fa segno di seguirlo.
Ci addentriamo tra i corridoi, fino a raggiungere un portellone nero oltre il quale si apre un’ampia stanza, al centro un totem a base triangolare con uno schermo per lato. Attorno al blocco di vetro e metallo, ad alcuni metri di distanza l’uno dall’altro, tre letti, simili a quelli degli ospedali, ognuno affiancato da un borsone e da un bagno chimico privo di pareti. Sul pavimento in linoleum, un nastro adesivo bianco collega le brande.
Il pelato si avvicina al borsone a lui più vicino. «Vi prego di spogliarvi e indossare la divisa contenuta all’interno. Sui cuscini troverete anche un bracciale elettronico. Non appena vestiti, riponete abiti e dispositivi elettronici nelle sacche. Vi saranno riconsegnati a esperimento ultimato. Se dovete avvisare qualcuno, questo è l’ultimo momento a disposizione per usare il cellulare.»
Inizio a spogliarmi dando le spalle a 7, sensibilità che 86 non sembra invece possedere.
Infilata la divisa e allacciato il braccialetto, faccio per scrivere un messaggio a mia madre. Le dita indugiano sui tasti. Cosa posso dire senza farla incazzare? Quando l’altro giorno le ho parlato dell’annuncio non si è dimostrata proprio entusiasta al riguardo. Oh, che si fotta. Non è lei quella che mi paga gli studi. Lascio cadere il cellulare nella sacca e chiudo la zip.
Il pelato passa a raccogliere i borsoni. Nel momento in cui gli porgo il mio, dal portellone compare lo scienziato con accento tedesco.
L’uomo poggia una mano sulle spalle del collega. «Da qui ci penso io.» Il tedesco attende che il pelato sia uscito prima di tornare a parlare. «Lasciate innanzitutto che vi ringrazi per il prezioso contributo che vi apprestate a fornire. Durante il periodo d’osservazione, questa sarà la vostra casa. Qui mangerete, qui dormirete, qui espleterete le vostre necessità corporali. Non avrete contatti con l’esterno e le uniche persone presenti sarete sempre e soltanto voi tre.» Con un dito indica il mio braccialetto. «Attraverso il dispositivo che tenete al polso, monitoreremo i vostri parametri: battito cardiaco, qualità del sonno, livello di sudorazione.»
Avvicino il braccialetto agli occhi per osservarlo meglio. La superficie è in gomma, con un leggero rigonfiamento nel punto in cui sono installati i sensori.
7 alza una mano. «Ci sta dicendo che dovremo fare i nostri bisogni davanti a tutti?»
Lo scienziato muove lo sguardo al soffitto. «La privacy non sarà un problema, almeno in parte. Per l’intera durata dell’esperimento, le luci rimarranno spente. Potrete riconoscere la disposizione dell’ambiente soltanto grazie al nastro adesivo fosforescente sul pavimento.» Gli occhi dell’uomo tornano a rivolgersi a noi. «Queste le regole da rispettare, pena l’espulsione e la perdita dell’intera somma di denaro promessa. Regola 1: mai togliere il braccialetto, per nessun motivo. Regola 2: quando dagli altoparlanti verrà annunciato il vostro numero, dovrete raggiungere il totem e fare ciò che vi verrà ordinato. Regola 3: rivolgersi agli altri solo col loro numero. Regola 4: è fatto divieto di scambiare cibo o altri oggetti con i compagni. Ultima regola: non sono ammessi atti di violenza di nessun tipo. Tutto chiaro?»
7 ed io ci scambiamo uno sguardo e annuiamo. Soltanto 86 rimane impassibile.
«Molto bene.» Lo scienziato si avvicina al portellone d’uscita. «Buona permanenza e buona fortuna, signori.»
L’uomo gira la maniglia ed esce. Pochi istanti più tardi le luci si spengono.
Quand’ero ragazzo, superata quell’età durante la quale il buio nasconde pericoli innominabili, rimanevo spesso con gli occhi aperti anche dopo che i miei genitori, dall’uscio della cameretta, mi avevano augurato la buonanotte e spento le luci. Mi piaceva vedere le forme dei mobili acquisire, poco alla volta, nuova consistenza, fino a riottenere la loro rassicurante familiarità.
Qui non è così.
Il buio è assoluto, impenetrabile. Nemmeno da sotto il portellone filtra alcun barlume. Unico elemento distinguibile sono i nastri adesivi, ma la loro luminescenza e così fioca da impedire di distinguere alcunché si trovi anche solo a un centimetro di distanza.
Con le mani cerco il bordo del letto. Lo afferro e mi ci siedo sopra per provare la consistenza del materasso. Un po’ troppo morbido per i miei gusti, ma mi ci posso abituare. Mi guardo attorno, se così si può dire. «Ho il sospetto che questa non sia la stanza più luminosa dell’albergo.»
Una risata femminile da sinistra. «Poco male. Almeno riuscirò ad addormentarmi senza difficoltà.»
«Aspetta a dirlo. Non mi hai ancora sentito russare.»
7 sospira. «Ti assicuro che dodici anni di matrimonio e tre figli maschi mi hanno temprata a questo e altro.»
Ridiamo, tranne 86. Non ho ancora sentito nessuno rumore provenire dalla sua direzione.
Con la coda dell’occhio scorgo una leggera variazione nella luminosità dell’ambiente provenire dal totem. Alzo lo sguardo e noto sul pannello rivolto nella mia direzione un LED rosso intermittente. Dagli altoparlanti parte un ronzio e una voce sintetizzata pronuncia il mio numero.
Anche se non posso vedere, percepisco l’attenzione degli altri su di me. Mi alzo dal letto e con passo incerto mi muovo in avanti. So che non ci sono ostacoli, eppure l’istinto mi consiglia cautela.
Raggiunto il totem, lo schermo s’illumina. Sul video, impostato verosimilmente con la luminosità al minimo, un orsetto in pixel art mi saluta scuotendo le zampe. L’espressione gioviale dell’animale cambia però subito, sostituita da un’animazione che lo mostra massaggiarsi la pancia con aria triste. A lato dello schermo tre tasti riportano le opzioni nutrimi, addormentami e puniscimi.
Il letto di 7 cigola. «Che succede?»
Mi gratto dietro il collo. «Sembra una sorta di tamagotchi.»
Nell’angolo in alto a destra un timer inizia un conto alla rovescia di 30 secondi. Senza pensarci, premo su nutrimi.
Lo schermo si spegne e dalla base giunge un clic. Gli altoparlanti chiamano il numero 86.
Passi pesanti che si avvicinano da destra.
Mi sposto di quel tanto che basta per notare che anche sul lato di 86 si è accesa una luce rossa, il cui ritmico lampeggiare illumina poco alla volta la sua figura sempre più massiccia.
Indietreggio. A fatica intravedo 86 chinarsi sulle ginocchia e prendere qualcosa alla base del totem. Torna in piedi, fa per girarsi.
Si ferma.
86 piega il collo e mi fissa, la bocca deformata da quello che sembra un sorriso grottesco.
86 viene richiamato dal totem poco dopo il mio turno iniziale, permettendo a 7 di mangiare. Dopo un po’ — minuti? ore? chi può dirlo — da 7 si passa al sottoscritto, e così via, secondo quello che appare un ordine prestabilito.
Quello che sembra casuale è invece l’intervallo tra un appello e il successivo. O almeno così credo. Avere consapevolezza del passare del tempo è impossibile qua dentro. Posso basarmi soltanto sul metabolismo del mio corpo, ma temo di non poterci fare affidamento ancora a lungo. Per il momento, credo siano trascorsi un paio di giorni dal nostro ingresso.
L’ormai familiare ronzio delle casse anticipa la nuova chiamata di 7. Lei però non sembra muoversi. Concentro l’udito nella sua direzione. Merda, sta dormendo!
La chiamo.
Nessuna reazione.
«7, cazzo, svegliati!»
Uno sbadiglio. «Che c’è?»
«Il totem! Sei stata chiamata!»
Il cervello di 7 ci mette un paio di secondi a elaborare l’informazione. La sento scendere dal materasso, inciampare e strisciare verso il totem. La poca luce emessa dallo schermo basta per intravederla premere sul touchscreen.
Dalle casse il solito rumore statico. Mi alzo in piedi e faccio per muovere un piede avan—
«86.»
Cosa? Non è possibile! «7, cosa cazzo hai schiacciato?»
«Nutrimi, che altro?»
«Non può essere, devi aver sbagliato qualcosa! O forse era scaduto il tempo.»
7 sbuffa. «Senti, punto uno: so distinguere un bottone da un altro. Punto due: mancava ancora un secondo allo scadere. Quindi incazzati quanto vuoi, ma io non c’entro nulla.»
Affondo le dita nella lenzuola e mi lascio andare a una serie di accidenti a denti stretti.
86 si avvicina al totem, prende il suo pasto e torna alla branda.
«Ehi, amico. Senti, non è che potremmo condividere il pranzo? O la cena, o quello che è?»
86 m’ignora.
«Non lo farà» dice 7. «Ricordi? Vietato condividere.»
Fanculo!
Lascio andare le lenzuola e mollo un pugno al cuscino.
Quanti giorni sono trascorsi? Tre? Quattro? Sette? Se solo riuscissi a dormire potrei almeno dare pace ai crampi e alla sete, invece nulla. Assurdo, tutto questo buio e non riesco a prendere sonno. Dio, perché 7 non è stata ancora richiamata? Perché ho l’impressione che questo turno stia durando molto più dei precedenti?
È tutta colpa sua. Sono certo che 7 abbia fatto qualche cazzata coi bottoni. Magari anche solo per errore, senza accorgersene.
nutrimi
addormentami
puniscimi
Eppure 86 è tornato alla branda con qualcosa in mano. Che non fosse cibo ma altro?
nutrimi
addormentami
puniscimi
O forse il cibo lo ottieni sempre, a prescindere dalla scelta. Aspetta…
Piego le labbra in un sorriso. Ora ho capito! I pulsanti non riguardano l’orso e i suoi bisogni, ma influenzano ciò che accadrà a chi viene dopo nella successione.
addormentami
puniscimi
Uno dei due deve far saltare il turno, non c’è altra spiegazione.
Ronzio dalle casse. Di nuovo il turno di 7. Vedi di non fare cazzate questa volta.
Raggiunge il totem e col dito picchietta sullo schermo. Altro ronzio e finalmente è il mio numero a essere chiamato.
Raggiungo il totem il più veloce che posso e con le mani mi metto a tastare la base fino a trovare ciò che cerco. Afferro la scatola e mentre torno al letto inizio a strappare il cartone. Nella foga il contenuto cade fuori. La bottiglietta d’acqua mi rimbalza sul piede e rotola via. L’incarto col cibo dev’essere invece qui vicino. Mi butto per terra, le mani che tastano alla rinfusa. Urto qualcosa, profuma di carne. Trovato! Con le unghie gratto via l’incarto quel tanto che basta e affondo i denti.
L’acqua del gabinetto è meno schifosa del previsto. O forse è soltanto la sete.
Dalle casse chiamano il mio numero.
L’orsetto mi saluta, mi chiede cosa fare. È giunto il momento di provare la mia teoria. Schiaccio su addormentami e aspetto di sentire cosa risponderà la voce artificiale.
«7.»
La donna mi raggiunge al centro della stanza. «Ma che succede?»
Giro la testa nella direzione della sua voce. «Credo di doverti delle scuse. Avevi ragione. A quanto pare questo gioco non ha un vero or—»
Qualcosa mi sfiora il braccio, tenta di afferrarlo. Il mio corpo reagisce saltando all’indietro. Cado per terra.
7 urla. Passi veloci alla mia sinistra che si allontanano.
I muscoli delle braccia e delle gambe tremano.
Poco distante, in direzione del totem, un respiro sordo e gutturale non sembra apprezzare il mio piccolo esperimento.
Per quanto mi sforzi, non riesco ancora a dormire. A quanto pare non sono però l’unico ad avere problemi.
Sul suo letto, 7 mugugna.
«Tutto a posto?»
«Sì, è solo che… Dio, è imbarazzante, ma oggi non sto molto bene di stomaco.»
La capisco. Lo sarebbe anche se fossimo tutti uomini, figuriamoci per lei.
«Ho una proposta. Che ne dici se mentre tu fai quello che devi fare noi ci copriamo le orecchie e urliamo a squarciagola?» Indirizzo la voce verso 86. «Sei d’accordo, chiacchierone?»
Come sempre, nessuna risposta.
«Lo prenderò per un sì.»
7 rimane a pensarci. «Sarebbe già qualcosa.»
«Allora è deciso.»
Mi copro le orecchie e inizio a gridare.
Vado avanti fino a quando la voce di 7 non sovrasta la mia. Era ora. La gola cominciava a bruciare.
«Meglio?»
«Sì, grazie. Davvero.» Il tono è gentile come sempre, eppure colgo una nota d’imbarazzo all’interno.
Dalla branda di 86 giunge un ritmico strusciare di lenzuola.
86 merita una lezione e so perfettamente come fare. Mi basta un turno.
Attendo il ronzio delle casse grattandomi il polso su cui è allacciato il braccialetto. Non so cosa darei per poterlo levare.
Le casse si attivano e lo schermo del totem s’illumina, mi chiama a sé.
nutrimi
addormentami
puniscimi
Sorrido e schiaccio sul terzo bottone.
«7.»
Cosa? No, non è possibile! Cosa ho sbagliato?
Sento 7 scendere dal letto. Devo fermarla, devo…
Un refresh dello schermo sostituisce l’immagine dell’orsetto affamato con un’animazione che lo mostra con un dito davanti alla bocca. Una lettera alla volta, sul video viene caricata una scritta: non dire nulla o verrai eliminato. A rimarcare il concetto, l’orsetto estrae una pistola e me la punta.
7 raggiunge il totem e prende la sua scatola. Con la luce del video contro, non riesco a distinguerne la figura, ma di sicuro lei vede me.
«Tutto a posto?»
Annuisco e senza dire una parola torno al mio letto.
È già da un po’ che 7 si agita tra le lenzuola. Si sforza di soffocare i lamenti, ma se c’è qualcosa che questo buio intensifica è proprio il senso dell’udito.
Vorrei chiederle come sta, ma mi vergogno. Ho paura che capirebbe cosa ho fatto.
Affondo la faccia nel cuscino e chiudo gli occhi. Il mal di testa sembra essere passato.
Non ho idea di quanto ho dormito. Di certo non abbastanza a giudicare dal buio che ancora riempie la stanza.
Dal letto di 7 non arriva nessun rumore. Forse anche lei dorme.
Dalle casse un nuovo ronzio. È il suo turno.
La chiamo, ma a rispondermi è soltanto l’eco della mia voce.
La chiamo di nuovo. Nulla.
Potrei andare io a schiacciare per lei, ma non ho idea di cosa questo comporterebbe. No, meglio stare al mio posto e vedere cosa succede.
Il conto alla rovescia scade con un lungo beep. Mi chiedo cosa accadrà.
Di nuovo il ronzio, ma ad essere chiamato non è il mio numero, bensì quello di 86. A quanto pare il giro ora è al contrario.
L’omone si alza dal suo letto, va a cliccare sullo schermo e subito torna al suo posto.
L’altoparlante chiama quindi me e io faccio la stessa cosa: mi alzo, prendo il pacchetto, torno indietro. Mi spiace per 7, ma almeno non ho dovuto saltare il pasto.
Dal letto di 7 ancora silenzio. Nessuna molla cigolante, nessuno struscìo di lenzuola, nessun colpo di tosse o sibilo del respiro.
Fanculo, devo fare qualcosa.
Striscio giù dal letto e seguo il nastro fosforescente fino al letto di 7.
La chiamo a bassa voce. Non risponde.
Con la mano risalgo la gamba del letto, seguo il bordo del materasso, faccio scivolare le dita sotto le lenzuola.
Non trovo nulla. A meno che…
Mi alzo e con gli occhi seguo il nastro fino al letto di 86. Corro nella sua direzione. «Dove l’hai messa?»
Qualcosa mi afferra per una spalla. Tento di divincolarmi, di colpirlo, ma una seconda tenaglia si stringe attorno al braccio, lo piega all’indietro.
«Cosa le hai fatto?» La testa mi gira più di quanto abbia mai fatto, il respiro si blocca nei polmoni. «Cosa… fatto?»
Con un ultimo barlume di coscienza, capisco di essere stato punito pure io.
È la luce a svegliarmi. Brucia come un tizzone ardente, anche attraverso le palpebre chiuse.
Copro il volto con un braccio e mi sforzo di aprire un occhio. Ai piedi del letto una figura indefinita mi osserva.
«Ci vorrà un po’ prima che ti abitui.» La voce è quella del tedesco.
Tento di sollevare la schiena. Lo scienziato mi aiuta a appoggiarmi alla testata del letto.
«Pensavo doveste monitorarci.» Ho la voce impastata. «E anche che la violenza non fosse consentita.»
«Mi pare sia stato tu ad aggredire per primo.»
«L’ho fatto per 7. Quel tizio, 86, deve averle fatto del male.» Tossisco. «Come sta?»
Il tedesco mi appoggia una mano sulla gamba. «Ancora non hai capito, vero? Eri tu la cavia. Soltanto tu.»
Lo scienziato lascia la presa e si avvia verso l’uscita.
Mi passo la lingua sulle labbra. «Quanto mancava alla fine dell’esperimento?»
Il tedesco si blocca. «Ancora parecchio.»
«Quindi è stato un fallimento.»
Non riesco ancora a metterlo a fuoco, ma sono certo che stia sorridendo. «L’esatto contrario.»
Alessandro Canella
Gli elettrodi attaccati lungo le braccia e sulle tempie iniziano a pizzicare. Spero almeno che questo esame duri meno del test a risposte multiple.
«Fastidio?»
Alzo lo sguardo sul dottore dall’altra parte della scrivania. «Solo un leggero prurito.»
L’uomo torna a rivolgere l’attenzione al computer. «Soffre di qualche disturbo?»
«Allergia al pelo animale.» Alzo un sopracciglio. «Non sono previsti gatti durante l’esperimento, vero?»
Il dottore ignora la domanda. «Difficoltà a prendere sonno?»
«A volte, soprattutto d’estate.»
«Mai sofferto d’attacchi di panico? Claustrofobia?»
Rispondo con un’alzata di spalle.
«Acluofobia?»
«Sarebbe?»
«Paura del buio.»
«Non direi. Insomma, forse da piccolo, ma quale bambino non ha paura del buio?»
Il dottore apre la bocca per un’altra domanda, quando dalla porta dello studio entra un uomo in completo grigio, sul petto una targhetta con su scritto un nome, forse straniero.
Raccoglie la mia cartella e scorre le pagine. «Chi abbiamo?» La pronuncia tradisce un leggero accento tedesco.
Il dottore si aggiusta gli occhiali. «Soggetto 23.»
Il tedesco si piega sul monitor. «Come mai qui?»
La domanda mi coglie alla sprovvista. Davvero non lo immagina? «Temo non vincerò il premio originalità della giornata.» Abbozzo un sorriso. «Insomma, 2000 Euro per fare da cavia per due settimane sono una bella cifra.»
«Problemi economici?»
Cristo, che tatto. «Sono uno studente fuori sede e senza borsa di studio. Di certo non navigo nell’oro.»
«Vive da solo?»
«No, condivido un appartamento con altri studenti.»
«Fidanzato?»
Stringo le labbra e scuoto la testa.
«Ultimo rapporto sessuale?»
«Scusi, questo cos’ha a che vedere con—»
«Si limiti a rispondere» s’intromette il dottore.
Deglutisco. «Sei mesi fa. Più o meno.»
«Paura più grande?»
Sto per rispondere, ma il crucco alza un dito. «Ci pensi attentamente. Non dica la prima cosa che le passa per la testa.»
Faccio come mi è stato detto e rimango in silenzio per un po’. «Essere ignorato. O dimenticato, addirittura.»
L’uomo dà un colpetto sulle spalle del collega per farlo alzare e sedersi al suo posto. Digita qualcosa sulla tastiera. «Ha preso visione dei rischi descritti sul modulo d’iscrizione? È consapevole che in caso di selezione le sarà chiesto di rinunciare a buona parte della sua privacy e dei suoi diritti civili?»
Annuisco. Non che l’annuncio sul giornale non facesse già intuire qualcosa al riguardo: team di ricerca scientifica cerca cavie umane per esperimento psicologico legato allo studio dello stress da isolamento estremo.
Il tedesco si alza. Senza troppi riguardi mi strappa gli elettrodi e mi porge un rotolone di carta assorbente con cui rimuovere il gel. «Attenda nell’atrio. Non appena conclusi i colloqui individuali, renderemo noti i candidati scelti.»
Butto la carta in un cestino e faccio per uscire.
«Un’ultima cosa.»
Mi giro.
«So che era scritto anche all’interno dell’annuncio, ma preferisco ricordarlo a tutti: fino al momento della selezione, è vietato qualunque scambio verbale tra candidati. Chiaro?»
Ancora una volta annuisco ed esco dallo studio.
L’atrio del centro di ricerca somiglia a un formicaio. Ad affollarlo più di un centinaio di candidati, uomini per lo più, tutti in piedi e in silenzio, come tante formiche attratte da un po’ di zucchero.
Vicino alle macchinette del caffè qualcuno riceve una telefonata. Fa appena in tempo a rispondere che lo avvicina un ragazzo pelato con addosso un camice bianco. Da dove mi trovo non capisco cosa dicono, ma dopo pochi secondi il tizio col cellulare viene accompagnato verso l’uscita.
Poco più tardi dagli altoparlanti parte un ronzio. «Verranno ora elencati i numeri dei candidati scelti per l’esperimento. I soggetti saranno divisi in cinque gruppi da tre. Non appena sentirete nominare il vostro numero, siete pregati di alzare la mano.»
Uno alla volta, l’annunciatrice elenca i numeri selezionati. Man mano che le formazioni si esauriscono, le singole squadre vengono fatte uscire da un corridoio laterale. Pochi minuti e arriva il momento dell’ultimo gruppo.
«Squadra 5. Numeri 7, 23, 86.»
Sì, cazzo!
Alzo il braccio e mi faccio largo tra la massa di esclusi che comincia a svuotare l’atrio lasciandosi a commenti di vario tipo. Bye bye, sfigati.
Non senza qualche difficoltà mi unisco ai miei compagni: 7, una donna dagli occhi gentili e in leggero sovrappeso, e 86, un omone riccio e dalla barba folta. Il pelato di poco prima ci fa segno di seguirlo.
Ci addentriamo tra i corridoi, fino a raggiungere un portellone nero oltre il quale si apre un’ampia stanza, al centro un totem a base triangolare con uno schermo per lato. Attorno al blocco di vetro e metallo, ad alcuni metri di distanza l’uno dall’altro, tre letti, simili a quelli degli ospedali, ognuno affiancato da un borsone e da un bagno chimico privo di pareti. Sul pavimento in linoleum, un nastro adesivo bianco collega le brande.
Il pelato si avvicina al borsone a lui più vicino. «Vi prego di spogliarvi e indossare la divisa contenuta all’interno. Sui cuscini troverete anche un bracciale elettronico. Non appena vestiti, riponete abiti e dispositivi elettronici nelle sacche. Vi saranno riconsegnati a esperimento ultimato. Se dovete avvisare qualcuno, questo è l’ultimo momento a disposizione per usare il cellulare.»
Inizio a spogliarmi dando le spalle a 7, sensibilità che 86 non sembra invece possedere.
Infilata la divisa e allacciato il braccialetto, faccio per scrivere un messaggio a mia madre. Le dita indugiano sui tasti. Cosa posso dire senza farla incazzare? Quando l’altro giorno le ho parlato dell’annuncio non si è dimostrata proprio entusiasta al riguardo. Oh, che si fotta. Non è lei quella che mi paga gli studi. Lascio cadere il cellulare nella sacca e chiudo la zip.
Il pelato passa a raccogliere i borsoni. Nel momento in cui gli porgo il mio, dal portellone compare lo scienziato con accento tedesco.
L’uomo poggia una mano sulle spalle del collega. «Da qui ci penso io.» Il tedesco attende che il pelato sia uscito prima di tornare a parlare. «Lasciate innanzitutto che vi ringrazi per il prezioso contributo che vi apprestate a fornire. Durante il periodo d’osservazione, questa sarà la vostra casa. Qui mangerete, qui dormirete, qui espleterete le vostre necessità corporali. Non avrete contatti con l’esterno e le uniche persone presenti sarete sempre e soltanto voi tre.» Con un dito indica il mio braccialetto. «Attraverso il dispositivo che tenete al polso, monitoreremo i vostri parametri: battito cardiaco, qualità del sonno, livello di sudorazione.»
Avvicino il braccialetto agli occhi per osservarlo meglio. La superficie è in gomma, con un leggero rigonfiamento nel punto in cui sono installati i sensori.
7 alza una mano. «Ci sta dicendo che dovremo fare i nostri bisogni davanti a tutti?»
Lo scienziato muove lo sguardo al soffitto. «La privacy non sarà un problema, almeno in parte. Per l’intera durata dell’esperimento, le luci rimarranno spente. Potrete riconoscere la disposizione dell’ambiente soltanto grazie al nastro adesivo fosforescente sul pavimento.» Gli occhi dell’uomo tornano a rivolgersi a noi. «Queste le regole da rispettare, pena l’espulsione e la perdita dell’intera somma di denaro promessa. Regola 1: mai togliere il braccialetto, per nessun motivo. Regola 2: quando dagli altoparlanti verrà annunciato il vostro numero, dovrete raggiungere il totem e fare ciò che vi verrà ordinato. Regola 3: rivolgersi agli altri solo col loro numero. Regola 4: è fatto divieto di scambiare cibo o altri oggetti con i compagni. Ultima regola: non sono ammessi atti di violenza di nessun tipo. Tutto chiaro?»
7 ed io ci scambiamo uno sguardo e annuiamo. Soltanto 86 rimane impassibile.
«Molto bene.» Lo scienziato si avvicina al portellone d’uscita. «Buona permanenza e buona fortuna, signori.»
L’uomo gira la maniglia ed esce. Pochi istanti più tardi le luci si spengono.
Quand’ero ragazzo, superata quell’età durante la quale il buio nasconde pericoli innominabili, rimanevo spesso con gli occhi aperti anche dopo che i miei genitori, dall’uscio della cameretta, mi avevano augurato la buonanotte e spento le luci. Mi piaceva vedere le forme dei mobili acquisire, poco alla volta, nuova consistenza, fino a riottenere la loro rassicurante familiarità.
Qui non è così.
Il buio è assoluto, impenetrabile. Nemmeno da sotto il portellone filtra alcun barlume. Unico elemento distinguibile sono i nastri adesivi, ma la loro luminescenza e così fioca da impedire di distinguere alcunché si trovi anche solo a un centimetro di distanza.
Con le mani cerco il bordo del letto. Lo afferro e mi ci siedo sopra per provare la consistenza del materasso. Un po’ troppo morbido per i miei gusti, ma mi ci posso abituare. Mi guardo attorno, se così si può dire. «Ho il sospetto che questa non sia la stanza più luminosa dell’albergo.»
Una risata femminile da sinistra. «Poco male. Almeno riuscirò ad addormentarmi senza difficoltà.»
«Aspetta a dirlo. Non mi hai ancora sentito russare.»
7 sospira. «Ti assicuro che dodici anni di matrimonio e tre figli maschi mi hanno temprata a questo e altro.»
Ridiamo, tranne 86. Non ho ancora sentito nessuno rumore provenire dalla sua direzione.
Con la coda dell’occhio scorgo una leggera variazione nella luminosità dell’ambiente provenire dal totem. Alzo lo sguardo e noto sul pannello rivolto nella mia direzione un LED rosso intermittente. Dagli altoparlanti parte un ronzio e una voce sintetizzata pronuncia il mio numero.
Anche se non posso vedere, percepisco l’attenzione degli altri su di me. Mi alzo dal letto e con passo incerto mi muovo in avanti. So che non ci sono ostacoli, eppure l’istinto mi consiglia cautela.
Raggiunto il totem, lo schermo s’illumina. Sul video, impostato verosimilmente con la luminosità al minimo, un orsetto in pixel art mi saluta scuotendo le zampe. L’espressione gioviale dell’animale cambia però subito, sostituita da un’animazione che lo mostra massaggiarsi la pancia con aria triste. A lato dello schermo tre tasti riportano le opzioni nutrimi, addormentami e puniscimi.
Il letto di 7 cigola. «Che succede?»
Mi gratto dietro il collo. «Sembra una sorta di tamagotchi.»
Nell’angolo in alto a destra un timer inizia un conto alla rovescia di 30 secondi. Senza pensarci, premo su nutrimi.
Lo schermo si spegne e dalla base giunge un clic. Gli altoparlanti chiamano il numero 86.
Passi pesanti che si avvicinano da destra.
Mi sposto di quel tanto che basta per notare che anche sul lato di 86 si è accesa una luce rossa, il cui ritmico lampeggiare illumina poco alla volta la sua figura sempre più massiccia.
Indietreggio. A fatica intravedo 86 chinarsi sulle ginocchia e prendere qualcosa alla base del totem. Torna in piedi, fa per girarsi.
Si ferma.
86 piega il collo e mi fissa, la bocca deformata da quello che sembra un sorriso grottesco.
86 viene richiamato dal totem poco dopo il mio turno iniziale, permettendo a 7 di mangiare. Dopo un po’ — minuti? ore? chi può dirlo — da 7 si passa al sottoscritto, e così via, secondo quello che appare un ordine prestabilito.
Quello che sembra casuale è invece l’intervallo tra un appello e il successivo. O almeno così credo. Avere consapevolezza del passare del tempo è impossibile qua dentro. Posso basarmi soltanto sul metabolismo del mio corpo, ma temo di non poterci fare affidamento ancora a lungo. Per il momento, credo siano trascorsi un paio di giorni dal nostro ingresso.
L’ormai familiare ronzio delle casse anticipa la nuova chiamata di 7. Lei però non sembra muoversi. Concentro l’udito nella sua direzione. Merda, sta dormendo!
La chiamo.
Nessuna reazione.
«7, cazzo, svegliati!»
Uno sbadiglio. «Che c’è?»
«Il totem! Sei stata chiamata!»
Il cervello di 7 ci mette un paio di secondi a elaborare l’informazione. La sento scendere dal materasso, inciampare e strisciare verso il totem. La poca luce emessa dallo schermo basta per intravederla premere sul touchscreen.
Dalle casse il solito rumore statico. Mi alzo in piedi e faccio per muovere un piede avan—
«86.»
Cosa? Non è possibile! «7, cosa cazzo hai schiacciato?»
«Nutrimi, che altro?»
«Non può essere, devi aver sbagliato qualcosa! O forse era scaduto il tempo.»
7 sbuffa. «Senti, punto uno: so distinguere un bottone da un altro. Punto due: mancava ancora un secondo allo scadere. Quindi incazzati quanto vuoi, ma io non c’entro nulla.»
Affondo le dita nella lenzuola e mi lascio andare a una serie di accidenti a denti stretti.
86 si avvicina al totem, prende il suo pasto e torna alla branda.
«Ehi, amico. Senti, non è che potremmo condividere il pranzo? O la cena, o quello che è?»
86 m’ignora.
«Non lo farà» dice 7. «Ricordi? Vietato condividere.»
Fanculo!
Lascio andare le lenzuola e mollo un pugno al cuscino.
Quanti giorni sono trascorsi? Tre? Quattro? Sette? Se solo riuscissi a dormire potrei almeno dare pace ai crampi e alla sete, invece nulla. Assurdo, tutto questo buio e non riesco a prendere sonno. Dio, perché 7 non è stata ancora richiamata? Perché ho l’impressione che questo turno stia durando molto più dei precedenti?
È tutta colpa sua. Sono certo che 7 abbia fatto qualche cazzata coi bottoni. Magari anche solo per errore, senza accorgersene.
nutrimi
addormentami
puniscimi
Eppure 86 è tornato alla branda con qualcosa in mano. Che non fosse cibo ma altro?
nutrimi
addormentami
puniscimi
O forse il cibo lo ottieni sempre, a prescindere dalla scelta. Aspetta…
Piego le labbra in un sorriso. Ora ho capito! I pulsanti non riguardano l’orso e i suoi bisogni, ma influenzano ciò che accadrà a chi viene dopo nella successione.
addormentami
puniscimi
Uno dei due deve far saltare il turno, non c’è altra spiegazione.
Ronzio dalle casse. Di nuovo il turno di 7. Vedi di non fare cazzate questa volta.
Raggiunge il totem e col dito picchietta sullo schermo. Altro ronzio e finalmente è il mio numero a essere chiamato.
Raggiungo il totem il più veloce che posso e con le mani mi metto a tastare la base fino a trovare ciò che cerco. Afferro la scatola e mentre torno al letto inizio a strappare il cartone. Nella foga il contenuto cade fuori. La bottiglietta d’acqua mi rimbalza sul piede e rotola via. L’incarto col cibo dev’essere invece qui vicino. Mi butto per terra, le mani che tastano alla rinfusa. Urto qualcosa, profuma di carne. Trovato! Con le unghie gratto via l’incarto quel tanto che basta e affondo i denti.
L’acqua del gabinetto è meno schifosa del previsto. O forse è soltanto la sete.
Dalle casse chiamano il mio numero.
L’orsetto mi saluta, mi chiede cosa fare. È giunto il momento di provare la mia teoria. Schiaccio su addormentami e aspetto di sentire cosa risponderà la voce artificiale.
«7.»
La donna mi raggiunge al centro della stanza. «Ma che succede?»
Giro la testa nella direzione della sua voce. «Credo di doverti delle scuse. Avevi ragione. A quanto pare questo gioco non ha un vero or—»
Qualcosa mi sfiora il braccio, tenta di afferrarlo. Il mio corpo reagisce saltando all’indietro. Cado per terra.
7 urla. Passi veloci alla mia sinistra che si allontanano.
I muscoli delle braccia e delle gambe tremano.
Poco distante, in direzione del totem, un respiro sordo e gutturale non sembra apprezzare il mio piccolo esperimento.
Per quanto mi sforzi, non riesco ancora a dormire. A quanto pare non sono però l’unico ad avere problemi.
Sul suo letto, 7 mugugna.
«Tutto a posto?»
«Sì, è solo che… Dio, è imbarazzante, ma oggi non sto molto bene di stomaco.»
La capisco. Lo sarebbe anche se fossimo tutti uomini, figuriamoci per lei.
«Ho una proposta. Che ne dici se mentre tu fai quello che devi fare noi ci copriamo le orecchie e urliamo a squarciagola?» Indirizzo la voce verso 86. «Sei d’accordo, chiacchierone?»
Come sempre, nessuna risposta.
«Lo prenderò per un sì.»
7 rimane a pensarci. «Sarebbe già qualcosa.»
«Allora è deciso.»
Mi copro le orecchie e inizio a gridare.
Vado avanti fino a quando la voce di 7 non sovrasta la mia. Era ora. La gola cominciava a bruciare.
«Meglio?»
«Sì, grazie. Davvero.» Il tono è gentile come sempre, eppure colgo una nota d’imbarazzo all’interno.
Dalla branda di 86 giunge un ritmico strusciare di lenzuola.
86 merita una lezione e so perfettamente come fare. Mi basta un turno.
Attendo il ronzio delle casse grattandomi il polso su cui è allacciato il braccialetto. Non so cosa darei per poterlo levare.
Le casse si attivano e lo schermo del totem s’illumina, mi chiama a sé.
nutrimi
addormentami
puniscimi
Sorrido e schiaccio sul terzo bottone.
«7.»
Cosa? No, non è possibile! Cosa ho sbagliato?
Sento 7 scendere dal letto. Devo fermarla, devo…
Un refresh dello schermo sostituisce l’immagine dell’orsetto affamato con un’animazione che lo mostra con un dito davanti alla bocca. Una lettera alla volta, sul video viene caricata una scritta: non dire nulla o verrai eliminato. A rimarcare il concetto, l’orsetto estrae una pistola e me la punta.
7 raggiunge il totem e prende la sua scatola. Con la luce del video contro, non riesco a distinguerne la figura, ma di sicuro lei vede me.
«Tutto a posto?»
Annuisco e senza dire una parola torno al mio letto.
È già da un po’ che 7 si agita tra le lenzuola. Si sforza di soffocare i lamenti, ma se c’è qualcosa che questo buio intensifica è proprio il senso dell’udito.
Vorrei chiederle come sta, ma mi vergogno. Ho paura che capirebbe cosa ho fatto.
Affondo la faccia nel cuscino e chiudo gli occhi. Il mal di testa sembra essere passato.
Non ho idea di quanto ho dormito. Di certo non abbastanza a giudicare dal buio che ancora riempie la stanza.
Dal letto di 7 non arriva nessun rumore. Forse anche lei dorme.
Dalle casse un nuovo ronzio. È il suo turno.
La chiamo, ma a rispondermi è soltanto l’eco della mia voce.
La chiamo di nuovo. Nulla.
Potrei andare io a schiacciare per lei, ma non ho idea di cosa questo comporterebbe. No, meglio stare al mio posto e vedere cosa succede.
Il conto alla rovescia scade con un lungo beep. Mi chiedo cosa accadrà.
Di nuovo il ronzio, ma ad essere chiamato non è il mio numero, bensì quello di 86. A quanto pare il giro ora è al contrario.
L’omone si alza dal suo letto, va a cliccare sullo schermo e subito torna al suo posto.
L’altoparlante chiama quindi me e io faccio la stessa cosa: mi alzo, prendo il pacchetto, torno indietro. Mi spiace per 7, ma almeno non ho dovuto saltare il pasto.
Dal letto di 7 ancora silenzio. Nessuna molla cigolante, nessuno struscìo di lenzuola, nessun colpo di tosse o sibilo del respiro.
Fanculo, devo fare qualcosa.
Striscio giù dal letto e seguo il nastro fosforescente fino al letto di 7.
La chiamo a bassa voce. Non risponde.
Con la mano risalgo la gamba del letto, seguo il bordo del materasso, faccio scivolare le dita sotto le lenzuola.
Non trovo nulla. A meno che…
Mi alzo e con gli occhi seguo il nastro fino al letto di 86. Corro nella sua direzione. «Dove l’hai messa?»
Qualcosa mi afferra per una spalla. Tento di divincolarmi, di colpirlo, ma una seconda tenaglia si stringe attorno al braccio, lo piega all’indietro.
«Cosa le hai fatto?» La testa mi gira più di quanto abbia mai fatto, il respiro si blocca nei polmoni. «Cosa… fatto?»
Con un ultimo barlume di coscienza, capisco di essere stato punito pure io.
È la luce a svegliarmi. Brucia come un tizzone ardente, anche attraverso le palpebre chiuse.
Copro il volto con un braccio e mi sforzo di aprire un occhio. Ai piedi del letto una figura indefinita mi osserva.
«Ci vorrà un po’ prima che ti abitui.» La voce è quella del tedesco.
Tento di sollevare la schiena. Lo scienziato mi aiuta a appoggiarmi alla testata del letto.
«Pensavo doveste monitorarci.» Ho la voce impastata. «E anche che la violenza non fosse consentita.»
«Mi pare sia stato tu ad aggredire per primo.»
«L’ho fatto per 7. Quel tizio, 86, deve averle fatto del male.» Tossisco. «Come sta?»
Il tedesco mi appoggia una mano sulla gamba. «Ancora non hai capito, vero? Eri tu la cavia. Soltanto tu.»
Lo scienziato lascia la presa e si avvia verso l’uscita.
Mi passo la lingua sulle labbra. «Quanto mancava alla fine dell’esperimento?»
Il tedesco si blocca. «Ancora parecchio.»
«Quindi è stato un fallimento.»
Non riesco ancora a metterlo a fuoco, ma sono certo che stia sorridendo. «L’esatto contrario.»