Un calice di fango
Inviato: venerdì 20 agosto 2021, 11:17
Seduto su un’asse tarlata che faceva da panca, Felyx Nephtar sorseggiava di malavoglia una scodella di brodo maleodorante. Attorno a lui, sciami di avventori laceri sfogavano sete e malumore in boccali rancidi e fiumi di bestemmie.
Si sforzò di non posare gli occhi sul liquido scuro mentre se lo portava alla bocca. Trattenne il fiato e buttò giù. Dèi, se faceva schifo. Bloccò a stento un conato, ci mancava solo che si prosciugasse vomitando. Si concentrò sulle voci al bancone.
“Magnati maledetti! Scommetto che loro, la Sete, non l’hanno mai provata!”
“E come potrebbero, col culo pieno d’oro e diamanti che si ritrovano?”
“Bisognerebbe farglielo veramente, il culo. Prenderli tutti, uno a uno, e riempirglielo di sabbia, così come il nostro è pieno di...”
Felyx soffiò, inquieto. Non erano gli schiamazzi a cui era abituato. Nella rabbia di quei disgraziati non c’era la solita ironia, l’energia grottesca di chi ogni giorno tira a campare come può. Li conosceva, quei tre: a scassinare e borseggiare non erano malaccio. Ad aspettarli a casa, se un tugurio pieno di ratti si può chiamare casa, almeno tre bocche da sfamare per ciascuno. Ora, però, le loro voci da mariti e padri mormoravano altro, suonavano diverse. Fredde. Felyx distinse la serietà di chi, sibilando, si prepara a infliggere la morte.
Prese un altro sorso di brodo disgustoso. Storse naso e bocca, inghiottì l’acido del rigurgito. Un accenno di crampo allo stomaco. Felyx soffiò, rassegnato: meglio dissenterico che morto. Rimase lì, a occhi bassi sulla scodella fetida, le orecchie ben tese.
I tre disperati non erano i soli a covare rancore: in ogni angolo della taverna, anzi di tutte le taverne a Javakt, ormai serpeggiava la rivolta. Posò la ciotola sul tavolo lercio. Se solo i soldati fossero stati più comprensivi, e i magnati meno avidi... Dèi, era più facile che piovesse nel deserto.
Accarezzò il manico della daga. Non gli sarebbe dispiaciuto sfilarlo dalla gola di una guardia o due, o infilzare il magnate Melkin come un porco sullo spiedo. Lo avrebbe fatto? Con un po’ di impegno e fortuna, sapeva di poterci riuscire.
Alzò gli occhi al bancone. Con la stessa freddezza sul volto scavato, molti anni prima, tra quei disperati c’era stato anche suo padre: uno dei tanti briganti senza nome, uno dei vinti. Chi se la ricordava più, la sua faccia. La faccia di ogni rivoltoso ucciso per la sete.
Lasciò l’elsa sotto il mantello, stritolò la ciotola e la svuotò in un sorso. Il brodo amaro non gli avrebbe fatto bene, preso così in una volta, ma ne aveva abbastanza di starsene lì tra i fantasmi. Con la coda dell’occhio, mentre reclinava la testa all’indietro, ne distinse uno più nero degli altri incappucciato in un angolo. Tra la manica e il guanto stretto sul boccale, un lembo di pelle verdastra, da rettile. Felyx trasalì: i Naga erano la setta più pericolosa del Mare Giallo, che ci faceva uno di loro in quella bettola?
Finì la sorsata e appoggiò la scodella sul legno bisunto insieme a una moneta, una delle ultime. Doveva saperlo. Tese ogni muscolo, pronto a scattare, ma la sagoma incappucciata fu più veloce: schizzò fuori dalla taverna e svanì nel nero dei vicoli. Felyx si fiondò all’inseguimento.
Imboccò una viuzza stretta e lurida, svoltò a sinistra e poi a destra. Scartò tra i rifiuti, tra i vecchi che ci dormivano in mezzo, le latrine intasate e i dissenterici che imbrattavano ogni angolo di strada. Era notte, ma certi luoghi non hanno mai pace, neanche dopo l’arsura del giorno.
Continuò a correre, senza perdere di vista gli svolazzi della cappa del Naga. Voleva disorientarlo smarrendosi tra i vicoli? Povero idiota: quel labirinto di stradine era il suo regno. Prese una parallela piena di baracche e immondizia.
Balzò sui bidoni, percorse un’asse inclinata e una trave. La luna risplendeva piena, e l’aria lassù era così fresca... Indugiò con lo sguardo sulle cupole di giada in lontananza, si riscosse e riprese a correre: non un fruscio degli stivali felpati sulla lamiera dei tetti.
Spulciò la sagoma ferma a rifiatare nella viuzza accanto. La raggiunse furtivo, attento a non tradirsi proiettando la sua ombra. Il Naga ora era proprio sotto di lui. Gli saltò addosso, sicuro di atterrarlo. Dopo l’impatto, si ritrovò avvinghiato a lui in un groviglio di muscoli e nervi. Strinse e colpì finché non riuscì a bloccarlo. Gli puntellò le braccia con le ginocchia, snudò la daga e gliela premette sulla gola.
“Che ci facevi alla taverna?”
Nessuna risposta. Rifiatò anche Felyx. Il Naga lo fissava con gli occhi da rettile: nessun tremito, nessuna emozione. Non un accenno di paura o dolore. Il suo viso era inespressivo, la linea sottile della bocca serrata. Solo le narici, minuscole fessure senza volume, si dilatavano e restringevano per respirare.
“Ci siete voi, dietro la rivolta?”
Nessuna risposta. Felyx premette più forte.
“Qual è il vostro scopo?”
Nessuna risposta, ancora. Dal collo pallido del Naga colò un rivolo violaceo. Le sue mascelle erano serrate, la faccia assente. La linea delle labbra si dischiuse: una lingua forcuta guizzò dentro e fuori dalla bocca. Felyx esitò: il suo morso era velenoso? Un guizzo viscido, e il Naga gli sfuggì dalle mani.
Felyx si ritrovò da solo, la daga ancora puntata contro la cappa nera e vuota. Soffiò irritato: come aveva fatto a farselo scappare!
Fece per alzarsi, ma una fitta allo stomaco lo piegò a terra. Maledetta brodaglia, doveva spedirlo al cesso proprio ora? Si tirò su alla meglio e sparì in una viuzza appartata. Si calò le brache. Chino a gambe larghe, spruzzò fuori la fogna. Con l’addome torturato dai crampi e il culo in fiamme. Nauseato dalla sua stessa merda.
“Dovresti mangiare un po’ meglio, figliolo.”
Felyx sussultò alla vista della vecchia stravaccata tra i rifiuti. Come accidenti era arrivata nel vicolo, perché lo stava fissando? Si ripulì alla meglio con la cappa del Naga, facendo il possibile per coprirsi le vergogne. La vecchia ridacchiò.
“Si può sapere che problemi hai?” Felyx si sbarazzò del manto imbrattato.
“Oh. Io nessuno, giovanotto.” Era coperta di cenci e aveva il volto grinzoso. Storpiò le labbra in un ghigno sdentato. “E tu, invece? Che problemi avresti?”
“Gli stessi di ogni poveraccio che non vuole morire di sete.” Si tirò su le brache. Due passi, e la vecchia era davanti a lui. “Non è colpa mia, se l’acqua che bevo puzza più dei topi morti...”
Felyx le porse un braccio. “Meglio se te ne vai, nonnina. Non vorrei che ti intossicassi.”
Sotto la pelle floscia del viso, gli occhi della vecchia scintillavano come lanterne. Gli prese il braccio e lo attirò a sé, non per alzarsi ma per sporgersi meglio. Lo inchiodò con lo sguardo e una stretta graffiante delle dita.
“Ferma la rivolta, Felyx Nephtar. Tu sai come.”
Felyx sussultò: la vecchia era sparita. A sonnecchiare tra i rifiuti c’era solo una gatta grigia, pulciosa e decrepita. Le vie degli Dèi dovevano proprio essere infinite, per scovarlo perfino alla latrina. L’ironia lo fece sorridere. Anche se la Dea Gatto lo aveva benedetto, la sua vita da disgraziato non era cambiata. Saccheggiava ancora i templi, beveva fanghiglia e di tanto in tanto ammazzava qualcuno. Per sopravvivere, si diceva scrollando le spalle. La gente in città aveva smesso di chiamarlo Malpelo, ma il cognome altisonante dei Nephtar, i vecchi Re del Deserto, serviva a poco se eri un ladruncolo con la dissenteria. La Dea Gatto glielo aveva accordato, va bene, ma quel titolo era buono solo per pulirsi il...
Meeeooow.
Il felino miagolò per confortarlo, o ammonirlo. Tra i saloni di un tempio dimenticato, Kesht gli aveva fatto giurare che avrebbe fermato i Naga.
Sfiorò la gatta con un dito e uscì dal vicolo a lunghe falcate. Felyx Nephtar era di nuovo da solo. Da solo in tutta quella merda.
Il vociare tra le strade cresceva. Simile a un grosso scarafaggio in movimento, una fiumana di miserabili zampettava verso il quartiere dei magnati. Vicolo dopo vicolo, l’insetto era sempre più grande, il brusio più insistente.
Felyx sgattaiolò dietro lo sciame. Davanti a lui, la strada si faceva più larga, le cupole di giada più vicine. Scartò a sinistra in una stradina parallela, superò lo folla e si fermò per lasciarla sfilare. Quei poveri pazzi brandivano torce, bastoni e qualche lama smussata. Nei cerchi sotto gli occhi e i visi smunti, rischiarati di profilo dalle fiaccole, nessuna voglia di parlamentare. Tra i tanti, riconobbe i tre pezzenti della taverna. Si sarebbero fatti ammazzare.
Ferma la rivolta, Felyx Nephtar. Tu sai come.
No che non lo sapeva. Riprese a muoversi furtivo, riagguantò lo scarafaggio e lo seguì di soppiatto per la parallela. Che altro poteva fare? Sulla via principale, il ronzio crebbe fino a farsi rombo.
“Acqua... Acqua... Acqua...”
Uno sferragliare di passi. Acciaio battuto sugli scudi. Una voce come un tuono.
“Nessuna invasione sarà tollerata. Tornate indietro!”
Felyx interruppe la marcia. Anche le zampe dell’insetto si erano fermate. Silenzio sulla strada principale. Per una volta, una sola stramaledetta volta, il capo delle guardie aveva ragione. Pregò Kesht che anche gli altri lo capissero. Che tornassero indietro.
“Acqua... Acqua... Acqua...”
Brusio. Brulichio. Lo scarafaggio aveva ripreso ad avanzare.
“Linea serrata. Scudi! Non cedete loro un passo.”
Felyx saettava nel vicolo. Il rombo era diventato clangore. Grida. Disperazione. Non aveva bisogno di affacciarsi sulla strada per immaginarsi la scena. Si preparò a finirci dentro. Il cappuccio era sul punto scivolare indietro nell’impeto della corsa. Lo fermò con la mano. L’oscurità del vicolo esplose in un inferno di fiaccole e acciaio sotto la luna. Di pezzenti schiacciati contro gli scudi e massacrati dalle guardie. Sulle labbra di tutti, la Sete.
“Perdonami, Kesht. Mi viene in mente solo questo.”
Snudò la daga e si tuffò nella rivolta. Sgusciò tra i disgraziati senza neanche sfiorarli. Doveva ancora nascere, qualcuno più furtivo di lui. Si fece largo in mezzo al caos, tra insetti e strepiti, bastoni e torce: un’ombra nel crepitio dei fuochi.
Uno dei tre ceffi della taverna era a terra. Era morto. Riempito di calci da una guardia isolata. Felyx arrivò alle spalle del soldato. Gli affondò la daga nella schiena.
Poi di nuovo avanti, fino al muro di scudi. A destra e a sinistra, davanti e dietro, un turbinio di nasi spaccati e mandibole rotte, sangue che colava e imprecazioni. Fetore. Un tappeto di corpi sotto gli stivali felpati.
Morte al magnate, ai sssuoi cani e ai pezzenti...
Felyx Nephtar sussultò. Di chi era quel sibilo? Lo cercò intorno a sé, ma era già svanito.
La linea delle guardie era sempre compatta, l’acciaio degli scudi infangato di rosso: rovesciato su un fianco, l’enorme scarafaggio zampettava moribondo nel vuoto. Felyx guizzò in avanti, menò un fendente basso e si ritrasse nello sciame. L’urlo di un soldato ferito a una gamba. Uno spiraglio tra gli scudi. Oltre la linea di sbarramento, il lucore della giada e dell’avorio.
Felyx balzò nella breccia, rotolò tra altre gambe e altri scudi. Piantò la daga dappertutto, soffiando tra una schivata e l’altra. Era di nuovo in piedi. Stava correndo. La furia della rivolta era dietro di lui. Il vociare si affievolì alle sue spalle.
La piazza del bazar era silenziosa, il lastricato pulito e rischiarato dai fuochi nei bracieri, le bancarelle coperte dai teloni. Felyx avanzò guardingo fino al chiosco più vicino e sparì sotto un ampio drappo. Il pungente aroma di spezie lo fece starnutire. Pivello che non era altro, possibile che cadesse ancora in errori così elementari? Si coprì naso e bocca con il turbante, controllò il respiro e rimase in ascolto.
Echi di passi, qualche ordine o imprecazione troppo distante, il brusio della rivolta in lontananza. I residui appetitosi di quel profumo speziato. La lingua che umettava le labbra riarse. La Sete. A parte quello, andava tutto bene: nessuno lo aveva sentito, era più che al sicuro. Scostò un lembo del telo e sbirciò fuori per studiare il cortile.
Nei palazzi dei magnati i lumi erano accesi, la sorveglianza all’esterno più alacre che mai: a pattugliare ogni ingresso c’erano almeno tre guardie. Chissà com’era la situazione all’interno.
Felyx esitò, indeciso sul da farsi. L’istinto l’aveva guidato fin lì, ma ora? Non aveva idea di come fermare la rivolta, sapeva solo che la gente là fuori moriva di sete, e lui non faceva eccezione. Dèi, cosa avrebbe dato per un goccio d’acqua decente. Gettò un’occhiata alle facciate eburnee del palazzo di Melkin, il gran magnate. Indugiò sulle guglie e le volte e le cupole di giada, sulle colonne di marmo e le vetrate variopinte alle finestre: un paradiso di opulenza che non lo avrebbe mai dissetato.
Abbassò lo sguardo sulle stalle a ridosso del palazzo: non di marmo, ma dalle solide pareti in legno e muratura, di cui riusciva a scorgere un ingresso chiuso, non sorvegliato. Tese le orecchie al massimo: non ne era sicuro, ma gli sembrò di udire lo sbuffo sommesso delle bestie. E dove c’erano loro... Si umettò le labbra, di nuovo. Com’è che stava sorridendo?
Arginò l’impulso di precipitarsi alle stalle e farsi ammazzare nell’abbeveratoio. Ci sarebbe arrivato, ma con calma: quanto alla rivolta, per ora non aveva uno straccio di idea, solo una pezza vecchia a tappargli naso e bocca. Soffiò via gli ultimi residui e ridacchiò sotto i baffi: una bella fortuna, potersi servire gratis al chiosco dello speziale.
Allentò il turbante sul naso: non gli serviva la luce per riconoscere polveri e droghe. Strappò un lembo del telone per creare due sportine, lo lasciò ricadere e strisciò sotto di esso, al buio. Rintracciò con sicurezza ciò che cercava: in una bustina combinò un paio di aromi innocui in un sonnifero da soffiare, nell’altra raggranellò un veleno solubile, dall’aroma delicato ma insapore. Quante cose gli aveva insegnato, quello sciacallo di Primus! Intascò le sportine e scostò di nuovo il telo: nessun ostacolo tra lui e le stalle, l’attenzione delle guardie era rivolta altrove.
Felyx uscì dal nascondiglio e superò il bazar in quattro balzi da gatto. Armeggiò con la serratura, destreggiandosi con grimaldelli e forcine fino a farla scattare. Spinse piano e si infilò dentro.
La frescura della notte svanì, inghiottita dal fiato caldo e dall’odore di cammelli e dromedari. C’era anche qualche cavallo, poco adatto al Mare Giallo ma che valeva una fortuna: molto più di lui e dei troppi poveracci là fuori. Il chiarore della luna filtrava da una finestrella socchiusa: gli stalli tremolavano di ombre e riflessi.
Procedette piano, accarezzando di tanto in tanto musi e pellicce con tocchi leggeri, rassicuranti. I cammelli e i dromedari si tranquillizzarono. L’odore di paglia e letame impregnava l’aria, ma non era affatto fastidioso: segno che gli animali erano trattati bene e bevevano meglio di lui. Beati loro.
Scorse l’abbeveratoio e lo raggiunse. Con un sospiro di sollievo, liberò il volto dal turbante e si chinò sulla vasca. L’oscurità dell’ambiente faceva apparire il liquido denso e scuro, con un lucore tremolante in superficie: tutta apparenza, non puzzava mica di fogna. Sorrise allo spettro che lo fissava dall’acqua con gli occhi cerchiati e le basette striate di polvere. Nessun ghigno. In quel riflesso distorto ma vero, a Felyx Nephtar si era seccata la bocca.
Si calò nell’acqua con tutta la testa. Il liquido lo avvolse in un abbraccio gentile. Lo schiocco di un bacio sulle labbra e le palpebre, una carezza sul naso, le guance e le orecchie. I capelli inzuppati, le dita e i polsi a mollo, la certezza di stemperare e rinascere. Aprì la bocca e accolse l’acqua buona. L’acqua vera. Quando riemerse, lo spettro nella vasca era scomparso: a fissarlo dalla superficie c’era il volto di un uomo, di un vivo. Felyx Nephtar sorrise a se stesso.
Fece per alzarsi, ma una macchia argentata, a tratti verdognola, apparve e scomparve dietro il suo riflesso. Uno sbuffo irrequieto delle bestie negli stalli. Una zaffata pestilenziale di merda. La sua merda. Con le dita ancora umide, Felyx afferrò la daga e si voltò, tranciando l’aria alle sue spalle. Incontrò la cappa con cui si era pulito il culo. Le scaglie paludate all’altezza della gola. Nessuna esitazione. Lacerò entrambe.
Nesssuna pietà per la Lince...
Di nuovo quel sussurro, quel sibilo: un pugnale cadde dalle mani del Naga, un fiotto viola gli strabordò dalla gola. Lo sguardo vacuo. Si stava spegnendo? Lo trafisse finché non fu sicuro che lo fosse davvero.
Felyx trascinò il cadavere e lo nascose sotto un mucchio di paglia e letame. Perché il Naga si trovava laggiù, chi aveva inseguito chi? Quei sibili rivoltanti erano i suoi, ma forse la rivolta non era il vero bersaglio di quella notte. Che fosse tutto un diversivo per arrivare a lui, il ladruncolo della Dea Gatto? Improbabile. Magari qualcun altro, qualcuno che non conosceva. Soffiò irritato, incapace di far quadrare i conti: i suoi sforzi erano gocce in un mare di sabbia.
Ferma la rivolta, Felyx Nephtar. Tu sai come.
Assicurò le due sportine: con un po’ di impegno e fortuna, poteva intrufolarsi a palazzo e penetrare non visto nelle stanze del magnate. Sussultò. Era questo! Forse non avrebbe fermato la rivolta, ma era ciò che andava fatto. Ciò che Kesht si aspettava da lui.
Si chinò a bere un altro sorso d’acqua: buttò giù e si leccò le labbra senza trattenere un sorriso. Riannodò il turbante sul viso e sgattaiolò fuori dalla finestra socchiusa. Ora che stava bene, era la cosa più naturale del mondo.
Un intarsio elaborato nell’ebano. Una maniglia d’oro massiccio. Felyx richiuse piano la porta: dall’altro lato del battente, una sinfonia di russate e respiri da orso. Il guardiano sonnecchiava già al suo arrivo, rinforzargli il pisolino con la polvere era stato uno scherzo.
La camera del gran magnate era un tripudio di tappeti, candele accese e tendaggi vari. L’aria era impastata di polvere e incensi. Tracce di fumo stantio. Un vago sentore di oppio. Felyx serrò il turbante su naso e bocca. Sfilò tra i drappeggi fino al letto a baldacchino, ne scostò un lembo e sbirciò: il gran magnate Melkin era lì, affumicato e sudato, un maiale lardoso buono solo a morire. L’uomo più influente del Mare Giallo.
Accarezzò l’impugnatura della daga. Poteva farlo. Toglierlo di mezzo sarebbe stato giusto. Sarebbe stato facile. Più di bere un bicchiere d’acqua. Soffiò piano, incapace di dominarsi del tutto. E il gran magnate lo sentì.
“Chi è là? Sei tu, Akis?”
La voce di Melkin strideva come quella di un castrato. Felyx stritolò il manico e mugugnò un verso d’assenso.
“Oh, bene. Sai, l’incenso mi ha fatto la bocca un po’ asciutta. Versami un goccio d’acqua e portamela, caro Akis. Con tutto il rumore là fuori non riesco a dormire.”
Altro mugugno di assenso. Felyx lasciò la presa sull’elsa e si avvicinò alla scrivania di Melkin, una meraviglia di intarsi e suppellettili di pregio. Accarezzò le gobbe d’oro di un cammello fermacarte, i piccoli diamanti incastonati al posto degli occhi. Staccò almeno quelli, non se ne sarebbe accorto nessuno. Rovistò tra i documenti e scorse una missiva strana, ancora sigillata, con una serpe stilizzata sulla ceralacca. La intascò insieme ai brillanti.
“Sbrigati, Akis! Non puoi capire la sete che ho!”
Felyx prese la brocca e un calice di vetro soffiato, dai bordi d’oro e tempestato di rubini. Troppo vistoso. Peccato. Versò l’acqua pura, l’acqua trasparente, l’acqua per cui gli uomini morivano. E ci mise dentro il veleno.
Ferma la rivolta, Felyx Nephtar. Tu sai come.
La Dea Gatto aveva ragione, l’aveva sempre avuta: un magnate assassinato avrebbe portato solo caos, miseria e altre rivolte da soffocare nel sangue. Non avrebbe cambiato davvero le cose. I cambiamenti veri camminano in punta di piedi, uccidono e rinnovano senza fare rumore. Come un magnate morto nel sonno e il suo ennesimo pigro rimpiazzo, il popolo da ingraziarsi con un po’ d’acqua in più, qualche tassa in meno, la certezza che almeno la rivolta sarebbe finita. Forse non avrebbe salvato il mondo, ma per un ladruncolo con la dissenteria era più che abbastanza.
Felyx fece spallucce e porse a Melkin il calice avvelenato. Andava bene così.
Si sforzò di non posare gli occhi sul liquido scuro mentre se lo portava alla bocca. Trattenne il fiato e buttò giù. Dèi, se faceva schifo. Bloccò a stento un conato, ci mancava solo che si prosciugasse vomitando. Si concentrò sulle voci al bancone.
“Magnati maledetti! Scommetto che loro, la Sete, non l’hanno mai provata!”
“E come potrebbero, col culo pieno d’oro e diamanti che si ritrovano?”
“Bisognerebbe farglielo veramente, il culo. Prenderli tutti, uno a uno, e riempirglielo di sabbia, così come il nostro è pieno di...”
Felyx soffiò, inquieto. Non erano gli schiamazzi a cui era abituato. Nella rabbia di quei disgraziati non c’era la solita ironia, l’energia grottesca di chi ogni giorno tira a campare come può. Li conosceva, quei tre: a scassinare e borseggiare non erano malaccio. Ad aspettarli a casa, se un tugurio pieno di ratti si può chiamare casa, almeno tre bocche da sfamare per ciascuno. Ora, però, le loro voci da mariti e padri mormoravano altro, suonavano diverse. Fredde. Felyx distinse la serietà di chi, sibilando, si prepara a infliggere la morte.
Prese un altro sorso di brodo disgustoso. Storse naso e bocca, inghiottì l’acido del rigurgito. Un accenno di crampo allo stomaco. Felyx soffiò, rassegnato: meglio dissenterico che morto. Rimase lì, a occhi bassi sulla scodella fetida, le orecchie ben tese.
I tre disperati non erano i soli a covare rancore: in ogni angolo della taverna, anzi di tutte le taverne a Javakt, ormai serpeggiava la rivolta. Posò la ciotola sul tavolo lercio. Se solo i soldati fossero stati più comprensivi, e i magnati meno avidi... Dèi, era più facile che piovesse nel deserto.
Accarezzò il manico della daga. Non gli sarebbe dispiaciuto sfilarlo dalla gola di una guardia o due, o infilzare il magnate Melkin come un porco sullo spiedo. Lo avrebbe fatto? Con un po’ di impegno e fortuna, sapeva di poterci riuscire.
Alzò gli occhi al bancone. Con la stessa freddezza sul volto scavato, molti anni prima, tra quei disperati c’era stato anche suo padre: uno dei tanti briganti senza nome, uno dei vinti. Chi se la ricordava più, la sua faccia. La faccia di ogni rivoltoso ucciso per la sete.
Lasciò l’elsa sotto il mantello, stritolò la ciotola e la svuotò in un sorso. Il brodo amaro non gli avrebbe fatto bene, preso così in una volta, ma ne aveva abbastanza di starsene lì tra i fantasmi. Con la coda dell’occhio, mentre reclinava la testa all’indietro, ne distinse uno più nero degli altri incappucciato in un angolo. Tra la manica e il guanto stretto sul boccale, un lembo di pelle verdastra, da rettile. Felyx trasalì: i Naga erano la setta più pericolosa del Mare Giallo, che ci faceva uno di loro in quella bettola?
Finì la sorsata e appoggiò la scodella sul legno bisunto insieme a una moneta, una delle ultime. Doveva saperlo. Tese ogni muscolo, pronto a scattare, ma la sagoma incappucciata fu più veloce: schizzò fuori dalla taverna e svanì nel nero dei vicoli. Felyx si fiondò all’inseguimento.
Imboccò una viuzza stretta e lurida, svoltò a sinistra e poi a destra. Scartò tra i rifiuti, tra i vecchi che ci dormivano in mezzo, le latrine intasate e i dissenterici che imbrattavano ogni angolo di strada. Era notte, ma certi luoghi non hanno mai pace, neanche dopo l’arsura del giorno.
Continuò a correre, senza perdere di vista gli svolazzi della cappa del Naga. Voleva disorientarlo smarrendosi tra i vicoli? Povero idiota: quel labirinto di stradine era il suo regno. Prese una parallela piena di baracche e immondizia.
Balzò sui bidoni, percorse un’asse inclinata e una trave. La luna risplendeva piena, e l’aria lassù era così fresca... Indugiò con lo sguardo sulle cupole di giada in lontananza, si riscosse e riprese a correre: non un fruscio degli stivali felpati sulla lamiera dei tetti.
Spulciò la sagoma ferma a rifiatare nella viuzza accanto. La raggiunse furtivo, attento a non tradirsi proiettando la sua ombra. Il Naga ora era proprio sotto di lui. Gli saltò addosso, sicuro di atterrarlo. Dopo l’impatto, si ritrovò avvinghiato a lui in un groviglio di muscoli e nervi. Strinse e colpì finché non riuscì a bloccarlo. Gli puntellò le braccia con le ginocchia, snudò la daga e gliela premette sulla gola.
“Che ci facevi alla taverna?”
Nessuna risposta. Rifiatò anche Felyx. Il Naga lo fissava con gli occhi da rettile: nessun tremito, nessuna emozione. Non un accenno di paura o dolore. Il suo viso era inespressivo, la linea sottile della bocca serrata. Solo le narici, minuscole fessure senza volume, si dilatavano e restringevano per respirare.
“Ci siete voi, dietro la rivolta?”
Nessuna risposta. Felyx premette più forte.
“Qual è il vostro scopo?”
Nessuna risposta, ancora. Dal collo pallido del Naga colò un rivolo violaceo. Le sue mascelle erano serrate, la faccia assente. La linea delle labbra si dischiuse: una lingua forcuta guizzò dentro e fuori dalla bocca. Felyx esitò: il suo morso era velenoso? Un guizzo viscido, e il Naga gli sfuggì dalle mani.
Felyx si ritrovò da solo, la daga ancora puntata contro la cappa nera e vuota. Soffiò irritato: come aveva fatto a farselo scappare!
Fece per alzarsi, ma una fitta allo stomaco lo piegò a terra. Maledetta brodaglia, doveva spedirlo al cesso proprio ora? Si tirò su alla meglio e sparì in una viuzza appartata. Si calò le brache. Chino a gambe larghe, spruzzò fuori la fogna. Con l’addome torturato dai crampi e il culo in fiamme. Nauseato dalla sua stessa merda.
“Dovresti mangiare un po’ meglio, figliolo.”
Felyx sussultò alla vista della vecchia stravaccata tra i rifiuti. Come accidenti era arrivata nel vicolo, perché lo stava fissando? Si ripulì alla meglio con la cappa del Naga, facendo il possibile per coprirsi le vergogne. La vecchia ridacchiò.
“Si può sapere che problemi hai?” Felyx si sbarazzò del manto imbrattato.
“Oh. Io nessuno, giovanotto.” Era coperta di cenci e aveva il volto grinzoso. Storpiò le labbra in un ghigno sdentato. “E tu, invece? Che problemi avresti?”
“Gli stessi di ogni poveraccio che non vuole morire di sete.” Si tirò su le brache. Due passi, e la vecchia era davanti a lui. “Non è colpa mia, se l’acqua che bevo puzza più dei topi morti...”
Felyx le porse un braccio. “Meglio se te ne vai, nonnina. Non vorrei che ti intossicassi.”
Sotto la pelle floscia del viso, gli occhi della vecchia scintillavano come lanterne. Gli prese il braccio e lo attirò a sé, non per alzarsi ma per sporgersi meglio. Lo inchiodò con lo sguardo e una stretta graffiante delle dita.
“Ferma la rivolta, Felyx Nephtar. Tu sai come.”
Felyx sussultò: la vecchia era sparita. A sonnecchiare tra i rifiuti c’era solo una gatta grigia, pulciosa e decrepita. Le vie degli Dèi dovevano proprio essere infinite, per scovarlo perfino alla latrina. L’ironia lo fece sorridere. Anche se la Dea Gatto lo aveva benedetto, la sua vita da disgraziato non era cambiata. Saccheggiava ancora i templi, beveva fanghiglia e di tanto in tanto ammazzava qualcuno. Per sopravvivere, si diceva scrollando le spalle. La gente in città aveva smesso di chiamarlo Malpelo, ma il cognome altisonante dei Nephtar, i vecchi Re del Deserto, serviva a poco se eri un ladruncolo con la dissenteria. La Dea Gatto glielo aveva accordato, va bene, ma quel titolo era buono solo per pulirsi il...
Meeeooow.
Il felino miagolò per confortarlo, o ammonirlo. Tra i saloni di un tempio dimenticato, Kesht gli aveva fatto giurare che avrebbe fermato i Naga.
Sfiorò la gatta con un dito e uscì dal vicolo a lunghe falcate. Felyx Nephtar era di nuovo da solo. Da solo in tutta quella merda.
Il vociare tra le strade cresceva. Simile a un grosso scarafaggio in movimento, una fiumana di miserabili zampettava verso il quartiere dei magnati. Vicolo dopo vicolo, l’insetto era sempre più grande, il brusio più insistente.
Felyx sgattaiolò dietro lo sciame. Davanti a lui, la strada si faceva più larga, le cupole di giada più vicine. Scartò a sinistra in una stradina parallela, superò lo folla e si fermò per lasciarla sfilare. Quei poveri pazzi brandivano torce, bastoni e qualche lama smussata. Nei cerchi sotto gli occhi e i visi smunti, rischiarati di profilo dalle fiaccole, nessuna voglia di parlamentare. Tra i tanti, riconobbe i tre pezzenti della taverna. Si sarebbero fatti ammazzare.
Ferma la rivolta, Felyx Nephtar. Tu sai come.
No che non lo sapeva. Riprese a muoversi furtivo, riagguantò lo scarafaggio e lo seguì di soppiatto per la parallela. Che altro poteva fare? Sulla via principale, il ronzio crebbe fino a farsi rombo.
“Acqua... Acqua... Acqua...”
Uno sferragliare di passi. Acciaio battuto sugli scudi. Una voce come un tuono.
“Nessuna invasione sarà tollerata. Tornate indietro!”
Felyx interruppe la marcia. Anche le zampe dell’insetto si erano fermate. Silenzio sulla strada principale. Per una volta, una sola stramaledetta volta, il capo delle guardie aveva ragione. Pregò Kesht che anche gli altri lo capissero. Che tornassero indietro.
“Acqua... Acqua... Acqua...”
Brusio. Brulichio. Lo scarafaggio aveva ripreso ad avanzare.
“Linea serrata. Scudi! Non cedete loro un passo.”
Felyx saettava nel vicolo. Il rombo era diventato clangore. Grida. Disperazione. Non aveva bisogno di affacciarsi sulla strada per immaginarsi la scena. Si preparò a finirci dentro. Il cappuccio era sul punto scivolare indietro nell’impeto della corsa. Lo fermò con la mano. L’oscurità del vicolo esplose in un inferno di fiaccole e acciaio sotto la luna. Di pezzenti schiacciati contro gli scudi e massacrati dalle guardie. Sulle labbra di tutti, la Sete.
“Perdonami, Kesht. Mi viene in mente solo questo.”
Snudò la daga e si tuffò nella rivolta. Sgusciò tra i disgraziati senza neanche sfiorarli. Doveva ancora nascere, qualcuno più furtivo di lui. Si fece largo in mezzo al caos, tra insetti e strepiti, bastoni e torce: un’ombra nel crepitio dei fuochi.
Uno dei tre ceffi della taverna era a terra. Era morto. Riempito di calci da una guardia isolata. Felyx arrivò alle spalle del soldato. Gli affondò la daga nella schiena.
Poi di nuovo avanti, fino al muro di scudi. A destra e a sinistra, davanti e dietro, un turbinio di nasi spaccati e mandibole rotte, sangue che colava e imprecazioni. Fetore. Un tappeto di corpi sotto gli stivali felpati.
Morte al magnate, ai sssuoi cani e ai pezzenti...
Felyx Nephtar sussultò. Di chi era quel sibilo? Lo cercò intorno a sé, ma era già svanito.
La linea delle guardie era sempre compatta, l’acciaio degli scudi infangato di rosso: rovesciato su un fianco, l’enorme scarafaggio zampettava moribondo nel vuoto. Felyx guizzò in avanti, menò un fendente basso e si ritrasse nello sciame. L’urlo di un soldato ferito a una gamba. Uno spiraglio tra gli scudi. Oltre la linea di sbarramento, il lucore della giada e dell’avorio.
Felyx balzò nella breccia, rotolò tra altre gambe e altri scudi. Piantò la daga dappertutto, soffiando tra una schivata e l’altra. Era di nuovo in piedi. Stava correndo. La furia della rivolta era dietro di lui. Il vociare si affievolì alle sue spalle.
La piazza del bazar era silenziosa, il lastricato pulito e rischiarato dai fuochi nei bracieri, le bancarelle coperte dai teloni. Felyx avanzò guardingo fino al chiosco più vicino e sparì sotto un ampio drappo. Il pungente aroma di spezie lo fece starnutire. Pivello che non era altro, possibile che cadesse ancora in errori così elementari? Si coprì naso e bocca con il turbante, controllò il respiro e rimase in ascolto.
Echi di passi, qualche ordine o imprecazione troppo distante, il brusio della rivolta in lontananza. I residui appetitosi di quel profumo speziato. La lingua che umettava le labbra riarse. La Sete. A parte quello, andava tutto bene: nessuno lo aveva sentito, era più che al sicuro. Scostò un lembo del telo e sbirciò fuori per studiare il cortile.
Nei palazzi dei magnati i lumi erano accesi, la sorveglianza all’esterno più alacre che mai: a pattugliare ogni ingresso c’erano almeno tre guardie. Chissà com’era la situazione all’interno.
Felyx esitò, indeciso sul da farsi. L’istinto l’aveva guidato fin lì, ma ora? Non aveva idea di come fermare la rivolta, sapeva solo che la gente là fuori moriva di sete, e lui non faceva eccezione. Dèi, cosa avrebbe dato per un goccio d’acqua decente. Gettò un’occhiata alle facciate eburnee del palazzo di Melkin, il gran magnate. Indugiò sulle guglie e le volte e le cupole di giada, sulle colonne di marmo e le vetrate variopinte alle finestre: un paradiso di opulenza che non lo avrebbe mai dissetato.
Abbassò lo sguardo sulle stalle a ridosso del palazzo: non di marmo, ma dalle solide pareti in legno e muratura, di cui riusciva a scorgere un ingresso chiuso, non sorvegliato. Tese le orecchie al massimo: non ne era sicuro, ma gli sembrò di udire lo sbuffo sommesso delle bestie. E dove c’erano loro... Si umettò le labbra, di nuovo. Com’è che stava sorridendo?
Arginò l’impulso di precipitarsi alle stalle e farsi ammazzare nell’abbeveratoio. Ci sarebbe arrivato, ma con calma: quanto alla rivolta, per ora non aveva uno straccio di idea, solo una pezza vecchia a tappargli naso e bocca. Soffiò via gli ultimi residui e ridacchiò sotto i baffi: una bella fortuna, potersi servire gratis al chiosco dello speziale.
Allentò il turbante sul naso: non gli serviva la luce per riconoscere polveri e droghe. Strappò un lembo del telone per creare due sportine, lo lasciò ricadere e strisciò sotto di esso, al buio. Rintracciò con sicurezza ciò che cercava: in una bustina combinò un paio di aromi innocui in un sonnifero da soffiare, nell’altra raggranellò un veleno solubile, dall’aroma delicato ma insapore. Quante cose gli aveva insegnato, quello sciacallo di Primus! Intascò le sportine e scostò di nuovo il telo: nessun ostacolo tra lui e le stalle, l’attenzione delle guardie era rivolta altrove.
Felyx uscì dal nascondiglio e superò il bazar in quattro balzi da gatto. Armeggiò con la serratura, destreggiandosi con grimaldelli e forcine fino a farla scattare. Spinse piano e si infilò dentro.
La frescura della notte svanì, inghiottita dal fiato caldo e dall’odore di cammelli e dromedari. C’era anche qualche cavallo, poco adatto al Mare Giallo ma che valeva una fortuna: molto più di lui e dei troppi poveracci là fuori. Il chiarore della luna filtrava da una finestrella socchiusa: gli stalli tremolavano di ombre e riflessi.
Procedette piano, accarezzando di tanto in tanto musi e pellicce con tocchi leggeri, rassicuranti. I cammelli e i dromedari si tranquillizzarono. L’odore di paglia e letame impregnava l’aria, ma non era affatto fastidioso: segno che gli animali erano trattati bene e bevevano meglio di lui. Beati loro.
Scorse l’abbeveratoio e lo raggiunse. Con un sospiro di sollievo, liberò il volto dal turbante e si chinò sulla vasca. L’oscurità dell’ambiente faceva apparire il liquido denso e scuro, con un lucore tremolante in superficie: tutta apparenza, non puzzava mica di fogna. Sorrise allo spettro che lo fissava dall’acqua con gli occhi cerchiati e le basette striate di polvere. Nessun ghigno. In quel riflesso distorto ma vero, a Felyx Nephtar si era seccata la bocca.
Si calò nell’acqua con tutta la testa. Il liquido lo avvolse in un abbraccio gentile. Lo schiocco di un bacio sulle labbra e le palpebre, una carezza sul naso, le guance e le orecchie. I capelli inzuppati, le dita e i polsi a mollo, la certezza di stemperare e rinascere. Aprì la bocca e accolse l’acqua buona. L’acqua vera. Quando riemerse, lo spettro nella vasca era scomparso: a fissarlo dalla superficie c’era il volto di un uomo, di un vivo. Felyx Nephtar sorrise a se stesso.
Fece per alzarsi, ma una macchia argentata, a tratti verdognola, apparve e scomparve dietro il suo riflesso. Uno sbuffo irrequieto delle bestie negli stalli. Una zaffata pestilenziale di merda. La sua merda. Con le dita ancora umide, Felyx afferrò la daga e si voltò, tranciando l’aria alle sue spalle. Incontrò la cappa con cui si era pulito il culo. Le scaglie paludate all’altezza della gola. Nessuna esitazione. Lacerò entrambe.
Nesssuna pietà per la Lince...
Di nuovo quel sussurro, quel sibilo: un pugnale cadde dalle mani del Naga, un fiotto viola gli strabordò dalla gola. Lo sguardo vacuo. Si stava spegnendo? Lo trafisse finché non fu sicuro che lo fosse davvero.
Felyx trascinò il cadavere e lo nascose sotto un mucchio di paglia e letame. Perché il Naga si trovava laggiù, chi aveva inseguito chi? Quei sibili rivoltanti erano i suoi, ma forse la rivolta non era il vero bersaglio di quella notte. Che fosse tutto un diversivo per arrivare a lui, il ladruncolo della Dea Gatto? Improbabile. Magari qualcun altro, qualcuno che non conosceva. Soffiò irritato, incapace di far quadrare i conti: i suoi sforzi erano gocce in un mare di sabbia.
Ferma la rivolta, Felyx Nephtar. Tu sai come.
Assicurò le due sportine: con un po’ di impegno e fortuna, poteva intrufolarsi a palazzo e penetrare non visto nelle stanze del magnate. Sussultò. Era questo! Forse non avrebbe fermato la rivolta, ma era ciò che andava fatto. Ciò che Kesht si aspettava da lui.
Si chinò a bere un altro sorso d’acqua: buttò giù e si leccò le labbra senza trattenere un sorriso. Riannodò il turbante sul viso e sgattaiolò fuori dalla finestra socchiusa. Ora che stava bene, era la cosa più naturale del mondo.
Un intarsio elaborato nell’ebano. Una maniglia d’oro massiccio. Felyx richiuse piano la porta: dall’altro lato del battente, una sinfonia di russate e respiri da orso. Il guardiano sonnecchiava già al suo arrivo, rinforzargli il pisolino con la polvere era stato uno scherzo.
La camera del gran magnate era un tripudio di tappeti, candele accese e tendaggi vari. L’aria era impastata di polvere e incensi. Tracce di fumo stantio. Un vago sentore di oppio. Felyx serrò il turbante su naso e bocca. Sfilò tra i drappeggi fino al letto a baldacchino, ne scostò un lembo e sbirciò: il gran magnate Melkin era lì, affumicato e sudato, un maiale lardoso buono solo a morire. L’uomo più influente del Mare Giallo.
Accarezzò l’impugnatura della daga. Poteva farlo. Toglierlo di mezzo sarebbe stato giusto. Sarebbe stato facile. Più di bere un bicchiere d’acqua. Soffiò piano, incapace di dominarsi del tutto. E il gran magnate lo sentì.
“Chi è là? Sei tu, Akis?”
La voce di Melkin strideva come quella di un castrato. Felyx stritolò il manico e mugugnò un verso d’assenso.
“Oh, bene. Sai, l’incenso mi ha fatto la bocca un po’ asciutta. Versami un goccio d’acqua e portamela, caro Akis. Con tutto il rumore là fuori non riesco a dormire.”
Altro mugugno di assenso. Felyx lasciò la presa sull’elsa e si avvicinò alla scrivania di Melkin, una meraviglia di intarsi e suppellettili di pregio. Accarezzò le gobbe d’oro di un cammello fermacarte, i piccoli diamanti incastonati al posto degli occhi. Staccò almeno quelli, non se ne sarebbe accorto nessuno. Rovistò tra i documenti e scorse una missiva strana, ancora sigillata, con una serpe stilizzata sulla ceralacca. La intascò insieme ai brillanti.
“Sbrigati, Akis! Non puoi capire la sete che ho!”
Felyx prese la brocca e un calice di vetro soffiato, dai bordi d’oro e tempestato di rubini. Troppo vistoso. Peccato. Versò l’acqua pura, l’acqua trasparente, l’acqua per cui gli uomini morivano. E ci mise dentro il veleno.
Ferma la rivolta, Felyx Nephtar. Tu sai come.
La Dea Gatto aveva ragione, l’aveva sempre avuta: un magnate assassinato avrebbe portato solo caos, miseria e altre rivolte da soffocare nel sangue. Non avrebbe cambiato davvero le cose. I cambiamenti veri camminano in punta di piedi, uccidono e rinnovano senza fare rumore. Come un magnate morto nel sonno e il suo ennesimo pigro rimpiazzo, il popolo da ingraziarsi con un po’ d’acqua in più, qualche tassa in meno, la certezza che almeno la rivolta sarebbe finita. Forse non avrebbe salvato il mondo, ma per un ladruncolo con la dissenteria era più che abbastanza.
Felyx fece spallucce e porse a Melkin il calice avvelenato. Andava bene così.