Eccoci qua, a questa edizione ci sono stati parecchi racconti che mi son piaciuti e, dal 2°al 6°posto, è stato davvero difficile stilare la classifica. Come al solito, più che quello che annoto sul testo (quasi sempre appunti di stile volti ad aiutare l'autore) mi baso sulla godibilità del racconto in sé e quanto abbia apprezzato l'idea che c'era dietro. E' inevitabile, quindi, che si vada a toccare il campo della soggettività. Premessa scontata, lo so, ma mi dispiace molto non aver potuto mettere alcuni brani più in alto :[
1 - Katia, di Read_Only2 - Pari patta, di Pietro D’Addabbo3 - Amaro far niente, di Dario Cinti 4 - Dimitri e Gobbio, di Stefano Moretto
5 - La rotella di liquirizia, di Alexandra Fischer
6 - Indesiderata, di Andrea Spinelli
7 - Tre mesi sono abbastanza, di Andrea Lauro
8 - Conigli, di Gianni Tabaldi
Tre mesi sono abbastanza, di Andrea Lauro
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Ciao Andrea! E' la prima volta che ti commento, ma ho avuto occasione di leggerti in giro diverse volte e apprezzo molto il tuo stile di scrittura! Ti faccio qualche appunto sul testo sperando ti possano tornare utili.
Leggo la mail di quel galoppino del mio capo e già mi girano. È una lista di compiti, vediamo… uno, due… ma! [prima di questo avrei preferito una veloce spulciata di quali erano questi compiti, anche per capire che genere di lavoro facesse. Tipo: Rispondere all'email del sigor Zarry... organizzare il foglio di lavoro delle entrate... ma! Sono le stesse cose che mi ha detto di fare ieri.] Sono le stesse cose che mi ha detto di fare ieri. Cos’è, gli ho detto che non ci stavo [non ci stava fisicamente al lavoro o non ci stava a fare i compiti assegnati? crea un po' di confusione così] e allora me lo scrive? No, non ce la faccio più. Sbatto il mouse sulla scrivania e i miei due colleghi fanno un salto. «Ora basta! Alberto m’ha rotto le palle.»
E che fanno, i due pecoroni? Mi danno ragione? “Siamo con te”? Macché, abbassano la testa, muti. [Qui avrei evitato questo piccolo tell perché si poteva gestire lo show con altrettanti caratteri, ma è una piccolezza] Peggio per loro, non è chinandosi che si ottiene qualcosa.
Va bene, andiamo a prendere il toro per le corna. Che poi, parliamo di questo toro. Gli fai il muso duro e ci mette un secondo a tornare un vitellino.
Attraverso l’ufficio e spalanco la porta. Me lo trovo alla sua bella scrivania, con la sua bella cravattina da Bocconiano fresco di studi. «Buongiorno» mi fa.
«Si può sapere che mail mi hai scritto?»
«Il… il planning della settimana.»
«Ti ho già detto che non li faccio. Non puoi costringermi.»
«Ma sono da fare.» E sotto sotto ci sta prendendo gusto, lo sento. «Non puoi rifiutarti.»
Ah, qui lo volevo. Gioca la carta del capo, e ora lo metto al muro. «Ti sembra che una mail come quella sia il modo giusto di comunicare con un tuo sottoposto?»
«A me sembra…» Alberto si ferma, scaccia l’idea con la mano. «Ascolta. Non ho tempo per queste cose, sto aspettando una telefonata. Quindi per favore esci e—»
«Eh no! Adesso che fai, mi liquidi?» Sbarbatello arrogante. Me li bevo, quelli come te. «Scommettiamo che se dico quello che ho in mente poi mi ascolti?»
Alberto rimane a fissarmi per tre secondi buoni. «Va bene» sospira, «dimmi.»
«Questo che fai è mobbing.»
«No che non lo è.» E lo dice pure con fare annoiato, il damerino.
«Cos’è, vuoi dei testimoni?»
«Non dubito che tu ne abbia.» E ora c’è un tono schifato, nella sua voce. «È da tre mesi che sono qui, e mi sono già fatto un’idea di che persona sei.»
Se sta per darmi del paraculato lo rovino, giuro. Questi neolaureati arrivano qui e pensano di poter mettere i piedi in testa a tutti. Ma il ragazzo è furbo, ora l’ho capito, non passerà il limite con parole che lo inchioderebbero.
«Tre mesi che son qui» continua, «e perché sia mobbing ce ne vogliono almeno sei. Sei mesi di atti persecutori reiterati.» Adesso sorride apertamente.
«Vedo che ti sei informato.»
«Certo.»
Cos’è questa, se non una dichiarazione di colpevolezza? Sta giocando con me, è chiaro. E se non sapessi di avere le spalle coperte, avrei già abbassato la testa anch’io, come i miei colleghi.
«Sentimi bene» abbasso la voce, perché capisca che lo scherzo ha da finire. [stona questo "ha da finire". Finora non c'è stato alcun indizio di regionalità né nella prosa né nel dialogo. Meglio un neutro "deve finire"]«Tre mesi sono abbastanza per chi so io. È da quando sei arrivato che mi lamento di quanto mi fai lavorare. E tu continui, e continui.» Punto il dito sulla sua bella scrivania lucida. «Io c’ho Rovelli, al sindacato. È mio nipote. Mi ha detto di fargli sapere se ti darai una calmata oppure no.»
Alberto mi guarda, mi odia. E soprattutto ha finito di sorridere.
Mi allontano dalla scrivania. «Quindi oggi lo chiamo, Rovelli. Dimmi tu cosa devo riferire.»
Suona il telefono.
Alberto non mi stacca gli occhi di dosso, la mano si allunga verso la cornetta e quando la trova risponde. «Sì.» Pausa, e ancora sta a studiarmi. «Bene. Salgo subito.»
E ancora, è la sua mano a cercare il resto del telefono per mettere giù. Capisco che è successo qualcosa, ma non so che cosa.
Alberto si alza e si avvicina. «Era il Direttore Amministrativo. Mi ha detto che posso salire da lui.»
«Il… Direttore Amministrativo?»
«Vado a firmare.»
«A firmare…?»
«Per il mio trasferimento.» Annuisce. «Da domani lavorerò in qualche distaccamento. Devono ancora dirmi dove, basta che sia lontano da qui.»
Va verso la porta, senza nemmeno prendersi la giacchetta. Si volta verso di me. «Lavorare con te è stato un inferno. Di’ questo, al tuo sindacalista.»
Commento:
Allora, non mi ha fatto impazzire, ho trovato la storia piuttosto piatta, ma penso di aver capito l'intento dietro il brano. Volevi far passare il protagonista per la vittima del sopruso per poi, alla fine, mostrare che era in realtà lui che perpetrava il sopruso contro il suo capo. (Ma correggimi se sbaglio)
Purtroppo, se questo era l'intento, fin dall'inizio non ho empatizzato con il protagonista e ho visto sempre lui dalla parte del torto. Penso che ciò sia da attribuire proprio alle prime righe, quando si lamenta della email e dei compiti assegnategli, senza però esternare perché quei compiti non gli andavano bene. Se ti fossi soffermato di più sulla mole di lavoro che il capo gli imponeva ogni settimana (magari, a suo avviso, molto maggiore di quella dei suoi colleghi) penso che avresti avuto un risultato migliore. Poi, dalla conversazione col capo, appare subito evidente che quest'ultimo è la vittima e quindi il finale non mi ha colpito un granché.
Il tutto comunque non è scritto male (e infatti tutto quello che ti ho appuntato é poca cosa) e il dialogo è credibile e ben gestito. Peccato perché, se ci ho azzeccato con la mia supposizione, l'idea poteva essere molto carina se sviluppata meglio.
Fammi sapere però se l'intento era un altro e non l'ho capito io!
Dimitri e Gobbio, di Stefano Moretto
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Ciao Stefano! E' la seconda volta che ti commento, se non sbaglio.
Zampetto in salotto.[Ahia, punto di vista animale. Sempre difficile da gestire, ma vediamo un po' come te la cavi...] La coda, i baffi e le zampine sono congelate. Quand'è che torna a fare caldo? Fuori non ci sono neanche più uccellini da cacciare!
Sposto il peso sulle zampe posteriori e appoggio quelle davanti sul divano. Hanno spostato il mio cuscino in fondo al divano, da lì non mi arriva il calore della stufetta, uffa. Mi do la spinta per salire sul divano, monto sul bracciolo accanto alla stufetta e mi sdraio. Un po' scomodo, ma il calore mi scalda tutta la pelliccia, che goduria.
Marta entra in salotto e mi guarda con un sopracciglio alzato. «Sgorbio, proprio sul bracciolo ti devi mettere? Non stai più comodo sul cuscino?»
«Meow.» Sì che sto più comodo lì, ma preferisco il caldo.
Il piccolo Dimitri segue Marta con passo incerto. «Gobbio! Gobbio!» La sua vocina stridula rimbomba nella stanza. «No gatto 'attivo!»
Si avvicina con le mani protese verso di me. Mi rigiro e strofino la testa sul bracciolo, il mio odore impregna la stoffa. Questo posto è mio! Vattene!
Sembra che non gli interessi per nulla, le sue manine mi afferrano i fianchi e mi sollevano.
«Miao!» Sollevo una zampa, mi scappano un pochino le unghie fuori.
Marta fa un breve scatto verso di noi e allunga una mano, ma si ferma prima di raggiungerci. Dal mio sguardo deve aver capito che non voglio fare del male al suo cucciolo, anche se è così irritante. Come se gli avessi mai fatto un graffio. [mi è piaciuto questo passaggio]
Dimitri mi sposta, le mie zampe posteriori ["posteriori" cozza un po' in bocca a un gatto, avrei preferito zampe e basta o zampe di dietro] e la coda strisciano su tutto il divano. Mi depone sul cuscino, lontano dalla stufetta e al freddo, e mi dà un paio di colpetti sulla testa.
«Qui. Bravo Gobbio.»
«Meow.» [fino ad ora, dopo ogni miagolio, avevi giustamente spiegato il significato che esso aveva per il gatto, qui non lo hai fatto]
Marta sorride e si siede sul divano, vicino alla stufetta. Però io non posso, vero?
«Bravo Dimitri. Dai, sali su e guardiamo un po' di TV con Sgorbio.» [Questo "sali su" all'inizio mi ha confuso, ci voleva assolutamente un "sali sul divano" qui, dato che l'altezza del bambino non era ancora chiarissima. So che non volevi ripetere la parola, ma potevi gestirtela in molti modi per evitare la ripetizione]
Dimitri alza le braccia e saltella. «TV! TV!» Pianta le mani sopra il divano e solleva una gamba. Allungo una zampina e gli do una pacchetta sulla spalla per aiutarlo a salire, un po' alla volta riesce a montare su. Si piazza accanto al mio cuscino e agita le gambe facendo tremare tutto.
«Meow.» E dai, stai fermo.
Marta gli mette una mano sulle gambe. «Dai Dimitri, dai fastidio a Sgorbio.» Grazie [,] Marta.
La TV si accende, immagini di persone, suoni strani, musica continuano ad alternarsi. Non ci capisco niente, ma finché li tiene calmi e posso riposare un po' va bene. Stanotte Dimitri mi ha tenuto sveglio per un sacco di tempo, avrò dormito meno di dieci ore!
Mi viene da sbadigliare. Spalanco la bocca e chiudo gli occhi. Che bello, è come stiracchiare la bocca [ripetizione]. Richiudo i denti, ma colpiscono qualcosa, cosa mi è entrato in bocca?! Ritraggo la testa, Dimitri mi ha messo un ditino tra i denti mentre sbadigliavo. Tira indietro la mano e ride.
«Gobbio buffo!»
Anche Marta ride con lui e gli passa una mano tra i capelli. «Dai, non fare i dispetti a Sgorbio che poi ti morde.»
Ehi, io non ho mai morso il tuo cucciolo. Anche se se lo meriterebbe, certe volte. Al massimo gli ho fatto un agguato da sotto il letto, ma sempre senza unghie!
«Meow.» Lasciatemi dormire vi prego, ho sonno.
Dimitri si lascia cadere di lato verso di me. Cosa vuole ancora?
«Gobbio.» Avvicina una manina e mi tocca la coda. La sposto subito via, Dimitri ride. «Gobbio!»
Si avvicina ancora, mi tocca il fianco e inizia a lisciarmi il pelo. Okay, così va bene se proprio vuoi. Appoggio la testa al cuscino e rilasso i muscoli. Le sue ditine che scorrono sulla pelliccia sono quasi piacevoli. Oh, ha iniziato a usare le unghine, che bello quando mi grattano. Gli faccio un po' di fusa come ricompensa.
Dimitri ride di nuovo e la sua manina si ferma. Rialzo la testa, i suoi occhietti sono fissi sulla TV.
«Meow!» Ehi, non smettere di coccolarmi, me lo devi. Ti ho pure fatto le fusa!
Sposta lo sguardo su di me, forse ha capito.
«'Cusa Gobbio.» Riprende a massaggiarmi il pelo, io ributto giù la testa e riprendo a fare le fusa. Bravo cucciolino. Continua così finché non mi addormento e magari stanotte non ti faccio un agguato mentre dormi.
Commento
Dai, ti sei salvato. Il brano è molto simpatico e ho sorriso diverse volte durante la lettura. Nel testo c'è qualche pensiero un pochino esagerato rispetto al resto, ma è quasi impossibile essere pienamente coerenti con questi PDV estremi. Comunque, è una prova sicuramente riuscita, soprattutto per gli amanti dei gatti (e io, per tua fortuna, sono tra questi) :V
Bravo e buona edition!
Katia, di Read_Only
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Ciao Morena! E' sempre un piacere leggerti, vediamo un po' cos'hai tirato fuori...
Nonostante dovessi iniziare le medie, mamma non voleva che prendessi il pullman da sola e così mi aveva messo [Forse qui ti sei dimenticata un "in"?] un pulmino privato. Non le fregava nulla di ciò che volessi io, doveva sempre fare di testa sua. Le chiedevo perché e mi rispondeva “perché no” e se insistevo finiva che le buscavo pure.
Ciononostante, come sempre agli inizi di settembre, avevo grande entusiasmo per il nuovo anno scolastico. Ho sempre amato gli inizi: l’inizio anno, l’inizio scuola, persino i lunedì. Li ho sempre visti come un’occasione di riscatto, una possibilità di ricominciare da capo.
Rinunciai a mettere il broncio e decisi di approcciare anche al [non mi suona, forse ci voleva "il"] pullmino [refuso] come un nuovo inizio. [Una buona introduzione]
Il pulmino non era come me l’aspettavo: era un vecchio Ducati [Non son sicuro che una ragazzina si soffermi sulla marca del pulmino]con tre panche parallele, due lato finestrino e una centrale, e una in fondo, tutte ugualmente scomode.
«Ciao, Maria, sono Ida» mi salutò quella che sembrava essere l’assistente di Rosa, che scoprii essere l’autista. Mi fece cenno di sedermi. Sorrisi e mi voltai verso il pulmino. Una dozzina di ragazzini, più o meno coetanei, mi guardava incuriosita. [Ah, ok. Col fatto che lo avevi descritto prima, me lo ero immaginato vuoto. Attenta.] Erano tutti addossati uno sull’altro, con i loro zaini colorati sulle gambe.
C’era silenzio, ma durò poco, il tempo necessario a etichettarmi. Vestiti di seconda mano, scarpe usurate e zaino vecchio di almeno due anni. Non una da frequentare insomma. Due ragazze iniziarono a sussurrarsi cose nell’orecchio, sicuramente su di me, i maschi tornarono a parlare di calcio riprendendo un discorso lasciato a metà per il mio arrivo.
Oltre i loro sguardi, oltre i sussurri malevoli e i gossip calcistici, in fondo al pulmino, [C'era] un’intera panca libera.
«Fatele spazio» li invitò Ida con il consueto accento napoletano pesantissimo di ogni adulto. Ignorai sia lei sia i tentativi piuttosto timidi della mandria di ubbidire.
Mi accomodai sulla panca libera.
Di nuovo cadde il silenzio.
Credo sia da quel pulmino che ho iniziato a non sopportare di essere fissata. Ogni sguardo pesava su di me come un macigno, ventiquattro pietruzze silenziose che come spilli si insinuavano nella testa.
«Katia? Scendi» la voce di Ida ruppe il silenzio, e come molle tutte le teste scattarono verso l’ingresso del pulmino. [Carina l'immagine, ma la battuta mi confonde. Deve salire sul pulmino questa Katia, no?]
Conobbi Katia.
Questa enorme ragazza dai passi pesanti e la faccia lentigginosa fece il suo ingresso urlando “Buongiorno!” e avanzando a passo spedito verso lo spazio libero in fondo.
Posò i suoi occhietti marroni su di me, e il sorriso le si spense in volto.
«Quello è il mio posto, bella» mi disse, e rise. Si guardò intorno in cerca di approvazione e gli altri ridacchiarono.
Lanciai uno sguardo alla mia destra, dove calcolai ci fosse spazio sufficiente almeno per altre due obese come lei.
«C’è posto» le spiegai.
«Oh, ma te vuo’ leva’ ‘a nanz ‘o cazz?» tuonò paonazza con una cadenza cafona che trovai irritante.
«No».
Fu tutto ciò che dissi e fui fiera di me, perché la voce era ferma e non abbassai mai lo sguardo. Non sarebbe stata la prima volta che mi menavo con qualcuno. Ida fiutò la rissa, perché si decise a intervenire.
«Maria! Dai, togliti. Ugo falle spazio».
Sbigottita fissai la signora Rosa, che ricambiava lo sguardo dallo specchietto retrovisore. Mi alzai silenziosa e mossi passi incerti verso l’inizio del pulmino, dove Ugo aveva lasciato spazio sufficiente ad accogliere mezza chiappa.
Katia mi spinse via sotto gli occhi di Ida, che abbassò lo sguardo, e si sedette. Stese un coscione suino su tutto il posto e tirò fuori dai jeans firmati un cellulare cafonissimo tutto dorato con un ciondolo “D&G”. Le due ragazze iniziarono a rivestirla di complimenti per l’acquisto.
Restai sbigottita e cercai lo sguardo di Ida, che pur di non guardare teneva la testa sul pavimento sporco.
«Sai, è la figlia del camorrista» spiegò in un sussurro Ugo.
Fu la prima volta che imparai come si vive a Napoli: guardando altrove a ogni piccolo sopruso quotidiano, anche quando sei grande e puoi fare la differenza.
Fu la prima volta che desiderai di andarmene. Perché Napoli la vivi guardando altrove, e io altrove non so guardare.
Commento:
Eccellente. Davvero. Per ora il migliore che ho letto. Dettagli ottimi, immagini vivide, dialogo e pensieri azzeccati, flusso informativo anche. Ti ho segnato pochissimo sul testo perché, in effetti, c'è davvero poco da dire se non che il racconto mi ha colpito.
Inoltre, anche io, col mio racconto, ho parlato di Napoli, ma credo che il tuo lo batta su tutti i fronti.
Bravissima!
Amaro far niente, di Dario Cinti
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Ciao Dario! Ecco i mei appunti sul testo:
Patrick udì Jodie chiudere il portone al piano di sotto e andarsene. [Non il massimo questo attacco. Tralasciando il verbo percettivo, fa sforzare un po' troppo il lettore nel ricostruire la scena. Io avrei fatto qualcosa del tipo: "Al piano di sotto, Jodie sbatté il portone e i suoi passi si allontanarono sul vialetto. Patrick aprì gli occhi e scivolò fuori dal letto", per intenderci.]
Aprì gli occhi e scivolò fuori dal letto.
“Buongiorno, Patrick.” pigolò S.A.M.A.N.T.H.A
Pat alzò il dito medio verso l’altoparlante nell’angolo in alto.
La finestra filtrava la luce del sole nascente sull’Oceano Pacifico.
Il tosaerba automatico, sotto di lui, pettinava il giardino luccicante di rugiada.
Il cancello si stava dando l’olio da solo sui cardini.
Patrick aggiustò l’elastico delle braghe del pigiama. La sconfitta già gli mordeva lo stomaco eppure si mosse ugualmente.
Affondò le mani nelle lenzuola e le sfilò fin quasi a snudare il materasso.
Quasi, come tutte le cazzo di volte.
Il letto, con forza contraria e molto più energica, se le riprese aspirandole con un risucchio e le redistribuì sulla superficie quadrata senza una piega.
Patrick sbuffò.
Come diceva Albert Einstein? “Stupidità significa fare e rifare la stessa cosa aspettandosi risultati diversi” [Ottimo questo primo paragrafo, mostra bene la situazione e come la vive il personaggio.]
Patrick scese le scale.
Il rullo piazzò sul tavolo della cucina il vassoio con la colazione.
Tè verde e fette biscottate integrali con già spalmate sopra tre tipi di marmellate diverse.
Un paradiso di profumi invitanti aleggiò beffardo.
«Buon appetito.» disse S.A.M.A.N.T.H.A
Pat raggiunse la credenza, afferrò uno dei manicotti e tirò.
Sigillato, ovvio.
Darei non so cosa per prepararmi un'omelette da solo. Scegliermi gli ingredienti, falla saltare…
Si morse il labbro.
I ricettori vocali captavano ogni parola e S.A.M.A.N.T.H.A gli avrebbe sbattuto sotto il grugno, in quattro minuti esatti, la miglior omelette da quando il padreterno aveva inventato le galline. [Non male!]
Piuttosto un dito in gola.
Lo schermo a parete si accese.
Jodie, in camice bianco, teneva l’ennesima conferenza attorno al suo staff.
«Ingegner Swift» una giornalista dalla platea alzò la mano «può confermare che la NASA installerà l’ultima versione di S.A.M.A.N.T.H.A nel razzo che porterà gli astronauti su Marte? Si prospetta un viaggio facile per loro, dunque?»
Lei sorrise.
«Più che facile, una vera pacchia. La nostra super-intelligenza domotica farà sì che la missione non sarà più scomoda di un weekend sulla spiaggia di un villaggio turistico!»
Risate e applausi.
«Spegni.» bofonchiò Patrick.
Lo schermo tornò nero.
Brava, tesoro. Ora persino sugli Shuttle la gente sarà obbligata a non fare più un cazzo.
Il fiato gli divenne corto.
Devo fare qualcosa oppure mi piglia un infarto. Ma cosa? COSA?
Negli ultimi quattro mesi dall’installazione della IA aveva macchiato, bagnato, svitato, strappato, scucito, divelto, scheggiato…e quella stronza domotica aveva risolto prima di dargli il tempo di alzare un dito.
Una scintilla scoccò in fondo al cervello.
L’idea lo eccitò e la testa ormai fiaccata dalle settimane di perfezione domestica si accese come un camino annaffiato di diavolina. [carina la similitudine ma c'è una piccola infrazione del PdV. Non apprezzo mai quando si nasconde una parte dell'interiorità del personaggio a vantaggio di un "effetto scenico". Mi sbalza fuori]
Gli sarebbe valso il divorzio ma era meglio della camicia di forza.
Afferrò sia la tazza con il tè verde che il piatto con l’omelette e volò sugli scalini del seminterrato.
Giunto davanti alla stanza di comando di S.A.M.A.N.T.H.A illuminata da centinaia di led, scagliò il piatto a terra.
Al rumore di vetri infranti e al profumino di uova cotte seguì l’apertura di una fenditura nel battiscopa.
Dal buco emerse il bocchettone aspiratutto che prese a pulire ogni frammento di cibo e porcellana.
Ora sei distratta!
Patrick aprì l’anta del pannello di controllo e ci versò dentro il te verde.
Sfrigolii di cortocircuito e bip di allarme.
Poco tempo e si autoriparerà, devo sbrigarmi!
Salì i gradini a coppie e tornò al corridoio.
Afferrò la cornice del Lo Stagno delle Ninfee di Monet e lo sfilò dalla parete.
Nessun braccio meccanico sbucò dalle appliques per riprendersi la tela.
Ce l’ho fatta!
La peluria dietro il collo e sotto i testicoli si drizzarono per l’entusiasmo.
Patrick sfilò e riappese il quadro a ripetizione.
Riagganciò la cornice per l’ennesima volta e udì lo stridore dei freni dell’auto di sua moglie. [Ammazza, così in fretta è arrivata?]
S.A.M.A.N.T.H.A aveva fatto la spia.
Pat si lasciò cadere sulla moquette.
Cazzo, se ne era valsa la pena! [Con quest'ultima frase ho sentito particolarmente il distacco che si è creato tra me e il PDV, tanto che mi chiedo se, in effetti, il protagonista non fosse diventato realmente un po' matto. Fino a questo punto, sebbene l'assurda situazione, era tutto logico nella sua interiorità ma, non so, staccare e riattaccare a ripetizione una cornice non mi è sembrata la trasgressione più liberatoria che ci potesse essere, mi sarei aspettato qualcosa di diverso. Ma probabilmente sono io xD]
Commento:
Racconto davvero simpatico e godibile. Mi è piaciuta molto l'idea e il modo in cui l'hai realizzata. Lo stile è ottimo e scorrevole, cosa che avevo notato anche in un tuo precedente racconto. Peccato per quel distacco che ho avvertito nel finale, ma forse volevi proprio mostrare la pazzia del protagonista. Anche l'arrivo della moglie mi è sembrato un po' improvviso, non dico che non è possibile ma, per come l'hai gestita, mi è sembrata che un attimo prima fosse alla conferenza e quello dopo era lì.
Comunque complimenti per il racconto e alla prossima!
Indesiderata, di Andrea Spinelli
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Ciao Andrea! E' la prima volta che ti commento mi sa. Ti faccio qualche appunto sul testo, ma il tuo stile è più che buono e sono generalmente piccolezze quelle che ti segnalo.
Mio padre fa un tiro di sigaretta. “È un amore, ragazzì.”
“Sì, lo è.”
“Devi esse’ una brava sorella maggiore.”
“Lo sarò. Ho quasi nove anni.”
È nato Riccardino. [Non so, messo così mi sa più di tell che pensiero logico della bambina. Una considerazione del genere ci sta appena lo vede, ma qui è chiaro che lo stanno guardando già da un po'.]Ho un fratello tutto mio che dorme nell’incubatrice. Lo guardiamo da dietro una porta di vetro: [Qui esci fuori dal pdv. Potevi cavartela con qualcosa tipo: "Mi appoggio sul vetro pieno di ditate. Riccardino ha la pelle vivace..." per far intendere che stavano fuori dalla stanza del bambino senza però scadere nel tell] ha la pelle di un rosa vivace, gli occhi ancora chiusi, il nasino all’insù.
Mio padre fa un altro tiro di sigaretta, in ospedale non si dovrebbe. Se lo beccano gli fanno una multa. “Io con le parole non so’ bravo, ragazzì. Però questo qui è un gioiellino che solo tu’ madre poteva sputa’ fuori.”
“Papà! Sputare?! Che schifo di termine è?”
“Te l’ho detto, Giuliè. Non so’ bravo a parlare.”
Guardare Riccardino dal vetro è uno spettacolo: il gonfiore incantevole degli occhi; la bocca che si muove come quella di un pesce; le manine strette a pugno.
Lui è un miracolo, e io ne sono una delle testimoni dirette. [Non so, mi stona un po' come pensiero di una bambina di 9 anni]
“Me stanno a chiamà, Giuliè. Me fanno vedè tu’ madre” papà indica un’infermiera all’ingresso del reparto. Gli sta facendo cenno di avvicinarsi.
Mi dà la sigaretta. “Tienila, ragazzì. Aspetta qui, tra poco ritorno e finisco di fumarmela.” La donna in camice gli fa strada lungo il corridoio del reparto.
Torno alla porta di vetro. Riccardo ha aperto la bocca, gli cola un po’ di saliva. Forse ha fame.
Che dolcezza infinita! È un vero portento. [Anche qui, non mi sembrano esclamazioni calzanti per un PdV di quell'età] Perché ora che c’è lui, mamma sarà più contenta e quindi sarà più buona con me. I grandi a volte fanno e dicono cose che non vorrebbero. Io però ci rimango male lo stesso quando lei mi prende a schiaffi perché ho messo in disordine la stanza.
Ora che c’è questo cucciolotto, tutto cambierà.
Lo porterei io dalla mamma, adesso. Sarebbe un modo per far pace una volta per tutte con lei. Glielo porterei e le direi che da oggi sarò la brava bambina che ha sempre desiderato.
Ehi, questa cosa gliela posso dire subito. L’ospedale è deserto e nessuno mi vedrà.
Chiudo la sigaretta nel pugno. Non sia mai che qualcuno la vede e fa la multa a me. Infilo la porta del corridoio e avanzo. Mi viene incontro una donna in camicia da notte che passeggia, con la mano sul pancione. La supero e mi fermo davanti a una porta socchiusa. Mamma e papà sono lì dentro, riconosco le voci.
Metto l’orecchio sul battente. La sigaretta nella mia mano è calda e mi fa stringere i denti.
“Giulia ha detto che è felice, Vale’.”
“Mente. Lei è gelosa. Lo era anche di noi.”
“”Te dico che è contenta. L’ho vista co’ i miei occhi.”
“Lei è stata uno sbaglio, Diego, e tu lo sai. Ho dovuto rinunciare alla carriera per colpa sua. Mi avevano scritturato per quel film in Francia, ricordi? Ma noi non siamo stati attenti e… e il mio sogno è andato in mille pezzi.” [Questo dialogo sa un po' troppo di "as you know Bob". Avrei apprezzato qualcosa di più sottinteso]
La sigaretta nella mia mano brucia. Lo fa come un maledetto ferro arroventato. [Anche qui salta particolarmente all'occhio quest'espressione un po' spinta. E qui, oltre al dolore che sente, ci vorrebbe un pensiero su quello che ha detto la madre]
“Diego, promettimi che questo figlio sarà la nostra rinascita. Amami di nuovo! Amami come mi amavi prima di Giulia.”
“Non piangere, Vale’.”
“Promettimelo, Diego.”
“Te lo prometto.”
Stacco l’orecchio dal battente. Un groppo di saliva mi intasa la gola.
Corro a ritroso nel corridoio. La sigaretta si consuma nella mia mano, ma io non sento più niente. Nessun dolore.
Torno davanti alla porta di vetro. Riccardino si è svegliato e piange. Ha fame, ma non ci sono infermiere nei dintorni.
Dovrei piangere io, non lui. [Bella questa considerazione]Mia madre mi ha sempre odiato, da quando sono nata. Lei è stata uno sbaglio, Diego, e tu lo sai. Con Riccardino la situazione andrà peggio.
Guardo dal vetro i suoi occhi profusi, la bocca piena di saliva, le manine squamate.[Carino il rovesciamento con la descrizione iniziale]
“Io ti odio!” tiro un pugno alla porta. Si apre, non l’hanno chiusa a chiave.
Entro nella stanza. C’è odore di latte. Nelle loro incubatrici, i neonati sono avvolti in lenzuola rosa o blu.
Mi fermo accanto a quella di Riccardino. Piange come un vitello.[Espressione formulare non in linea col PDV, a mio parere]
“Smettila.”
Non è un miracolo, è una condanna a morte. La mia.
Frigna, si agita, scuote i pugnetti a mezz’aria. Che fastidio.
“Ti ho detto di smetterla!” apro la mano. Della sigaretta accesa, è rimasta solo una strisciolina prima del filtro. Mi basta. Abbasso il braccio e gliela schiaccio sulla fronte.
Commento:
Non male. Lo stile è immersivo e la narrazione ben gestita. Anche l'idea mi è piaciuta, i soprusi della madre sulla figlia sono solo lo specchio di quelli che si prospettano tra la bambina e il fratellino. La cosa con cui ho avuto più problemi (e su cui mi trovo d'accordo con Davide) è stato il punto di vista, in alcune parti poco credibile. Non è comunque gravissimo, perché questo difetto si bilancia abbondantemente con i pregi del brano, ma sicuramente non ha aiutato con l'empatizzare con la protagonista.
La rotella di liquirizia, di Alexandra Fischer
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Ciao Alexandra! Era un po' che non ci leggevamo! Vediamo com'è andata questa edizione...
Il sacchetto di carta bianca cambia di mano: − Oh, ma che bel pensiero. Marta, non dovevi disturbarti.
Marta guarda la compagna: è l’intervallo, sono nel corridoio, sole, perché Aurelia fa paura, grande e grossa com’è. [C'è un po' di confusione in questo inzio che poteva essere evitata semplicemente esternando da chi a chi passasse il sacchetto, invece di limitarsi ad un vago "cambia di mano"]Le lascia prendere la rotella di liquirizia, regalo della zia e portafortuna per i compiti di aritmetica, quelli che le fanno più paura.
Ora sa che sbaglierà l’ennesimo, mentre la rotella di liquirizia, decorata da una gelatina al mirtillo ricoperta di zuccherini azzurri, sparisce per metà nella bocca di Aurelia.
È così da settembre e ogni volta lei ci rimette la liquirizia portafortuna: i suoi voti di aritmetica salgono, quelli di Aurelia si alzano. [Qui o non ho capito io, o volevi scrivere un'altra cosa. Forse che quelli di una si alzano e quelli dell'altra si abbassano?]Marta è magra e spaurita nel grembiulino bianco, sotto al quale spuntano i pantaloni scozzesi e le scarpe marroni con le stringhe.
Aurelia è alta, imponente, il corpo straripa nel grembiule bianco.
Marta ha provato a sfidarla, una volta, incoraggiata dai manifesti nel corridoio: tanti disegni al carboncino che raffigurano i fantini con il numero sulla maglia a cavallo di purosangue tratteggiati appena, per dimostrarne la velocità. [Qui avrei ampliato un pochino questo pensiero, così è un po' monco altrimenti.]
Ci ha ottenuto dei graffi, uno schiaffo, un sacchetto di rotelle schiacciato per terra.
E teme la maestra, una donna alta e sottile, dai capelli rossi impeccabili e gli occhi azzurri gelidi come un mare d’inverno: tutte e tre le volte ha rimproverato lei, anziché Aurelia, così, si è rassegnata a darle parte della paga del giovedì, come la zia chiama il sacchetto delle rotelle, mentre le scompiglia i capelli e le dice di applicarsi di più con l’aritmetica.
Marta, però, capisce che il sorriso della zia è di facciata, le legge la delusione nel volto.
***
Due giorni dopo il compito [,] Aurelia ritira il suo con un sorriso, la maestra l’ha lodata con un bellissimo voto, poi chiama Marta e le sussurra: − Da domani andrai a fare aritmetica al piano di sotto.
Marta annuisce, ritira il compito: il piano di sotto è la classe di sostegno, quella per chi legge male, scrive peggio e ignora il calcolo.
Ed è così che il tempo delle scuole elementari passa, fra rotelle di liquirizia pagate ad Aurelia per evitare ceffoni o peggio e l’aula di sostegno, fino a quando passa l’esame di quinta con una sufficienza stiracchiata in aritmetica.
***
Vent’anni dopo.
Aurelia entra nell’agenzia pubblicitaria per il colloquio di lavoro: ha in mente il nome dell’art director ma si consola con il pensiero che di Marta al mondo ce ne sono tante e la piccola che ogni tanto le torna alla memoria sotto forma di bambina sempre in lacrime le appare un piccolo sopruso quotidiano della memoria da sopportare: i suoi l’hanno educata a farsi largo a spintoni nel mondo. [Ottimo questo cambio di prospettiva. Davvero azzeccato!]
Fa un bel respiro e si sistema il tailleur con la gonna meglio che può: certo, la sua tendenza a ingrassare non l’aiuta, malgrado i pilates.
La segretaria, in tuta di ciniglia viola e dalla linea da ginnasta, la chiama: − Marta Reverdito è pronta a riceverla.
Aurelia stringe a sé la cartella con tutta la documentazione: è sempre stata un’ottima contabile, sarebbe potuta diventare vice direttore, se la banca per la quale lavorava non fosse fallita.
Entra, e una donna alta e sottile, dall’abito di lana grigia decorato da una cintura a catena, le tende la mano.
Marta si sente a disagio nel tailleur gessato. [Qui, come in altre parti del testo, sarebbe stato meglio metterci un pensiero vero e proprio che mostrasse il suo imbarazzo, invece di dire che si sente a disagio e basta]
Aurelia la stringe e in quei lineamenti riconosce subito Marta, quella Marta, ma in una versione sicura di sé: − Accomodati, Aurelia cara, è un bel pensiero che tu abbia scelto di candidarti presso di noi.
Aurelia tira fuori la cartella, balbetta: − Scusami per allora.
Marta agita la mano sinistra, dove brillano una fede d’oro bianco e una veretta di diamanti: − Non c’è di che. Ti assumerò, ma sarai la prima a entrare e l’ultima a uscire, oltre che in fondo alla lista per quel che riguarda gli straordinari −. Apre un cassetto della scrivania, tira fuori un sacchetto di rotelle di liquirizia: − Serviti pure, cara Aurelia. [Bella chiusura!]
Commento:
Sai cosa? Mi è piaciuto molto! Tra tutti i tuoi racconti che ho letto qui e sulla tela, questo è probabilmente quello che ho apprezzato di più. Brava!
Certo, ci sono un po' troppe cosette raccontate, ma non hanno inficiato più di tanto sulla godibilità del testo. Ho trovato anche molti bei dettagli visivi e il punto di vista era abbastanza coerente per entrambi i personaggi.
Complimenti e continua così Alexandra!
Pari patta, di Pietro D’Addabbo
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Ciao Pietro! Ecco i miei appunti sul testo:
Lorenzo mi passa il fucile, il tubo dell’aria compressa sotto il calcio si impiccia nei cuscinetti del bancone ma il gestore lo sblocca. [Non male come establishing shot. Molto furbo perché riesci a dare il quadro generale partendo da una scena in movimento]
«Bravo fratellino, hai fatto un sacco di centri» nel telo dietro le mensole i bersagli abbattuti aspettano che abbia finito anch’io, poi saranno nostri. ["Saranno nostri" intendi i bersagli abbattuti? E cosa sono? Bottiglie? lattine?]
«Quanti colpi ho sparato? Ho perso il conto, non sono sicuro che fossero venti» ma quanto si lagna.
Chiudo un occhio, allineo il mirino al bersaglio, comincio a sparare. Il FOPP dello sparo somiglia a quello delle pistole col silenziatore nei film di Zerozerosette. [Qui potevi andare tranquillo con 007 e ti risparmiavi dieci caratteri xD] I bersagli cadono uno dopo l’altro, rapidi, non c’è gusto a fare solo centro. Diciannove, venti, ventuno, ventidue… STUNF STUNF STUNF.
Il gestore mi strappa il fucile dalle mani, colpi finiti. Un altro bel po’ di cubetti di carta caduti nel telo, scorta di sorpresine assicurata. [Ok, qui si capisce di cosa si tratta, forse avresti potuto anticipare un pochettino la comprensione. Ma nulla di grave] Senza dimenticare lo spuntino a base di wafer bucherellati dall’impatto del pallino di gomma.
Lorenzo mi colpisce il braccio coi suoi pugnetti «Cattivo, hai fatto due colpi in più. Li ho contati. Potevi lasciarli a me, lo sapevi.»
«Davvero, ne ho fatti ventidue? Va beh, te li fai la prossima volta» tra un anno, domani la festa è finita e il carrozzone del tiro a segno riparte. «Mi spiace, non ci ho pensato». Macchè, privilegi da fratello maggiore. [Molto carino]
«Li apriamo ora?»
«D’accordo, mettiamoci laggiù, sulle scale della scuola» le finestre delle nostre classi sono spente, ma si vedono le castagne e le foglie gialle che abbiamo ritagliato con le maestre per l’arrivo della primavera. I gradini sono freddi sotto il sedere, ma le panchine sono piene d’anziani e i genitori sono a casa, possiamo decidere da noi, per la prima volta.
Scartiamo i dadi di cartone, [Qui ci andava un punto, altrimenti è difficile comprendere la frase] la busta vuota delle noccioline, sgranocchiate prima di passare al divertimento ‘serio’, accoglie i nostri trofei. Gli occhi di Lorenzo luccicano a vedere tutta quella grazia. Il muso lungo è già dimenticato, dividiamo un pacchetto di wafer alla nocciola.
«Andiamo, ci siamo sparati tutti i soldi di nonno. Possiamo tornare a casa» lo aiuto ad alzarsi, lo spazzolo energicamente sui pantaloncini perchè non resti sul sedere il segno della polvere. Ci avviamo verso casa e voltiamo l’angolo.
«Ehi!» un ragazzo, più alto di me, farà almeno le medie, si affianca [Anche qui è strutturata male la frase a livello di punteggiatura. Sarebbe meglio: un ragazzo, più alto di me, mi si affianca. Farà almeno le medie.]«Ehi! Serata fortunata?».
Indica il sacchetto trasparente che ho stretto in mano. Lorenzo stringe altrettanto forte l’altra mia mano.
«Sì, siamo stati bravi».
«Che me ne dai uno? Io non ho vinto niente».
Mi mordo le labbra, le sorprese sono tante, Lorenzo ha paura. Papà direbbe che il sacrificio di un pedone, a volte, vale una partita.
«D’accordo. Aspetta».
Passo la bustina a mio fratello, lo guardo negli occhi «A quale puoi rinunciare?». Esita, poi tuffa la mano e sceglie con cura, mi passa il prescelto.
Neanche guardo cos’è.
Allungo la mano verso il ragazzotto e deposito l’obolo nella sua mano «Ok, a te.» [Davvero avvincente questa parte. Bravo.]
Il tipo si fissa la mano aperta, noi partiamo a passo svelto. C’è ancora molta strada, da qui a casa. Il chiarore dei lampioni della piazza non arriva alle spalle della scuola, c’è solo la luna e il lampione al prossimo incrocio.
Le calze scendono e il freddo punge i polpacci sotto i pantaloncini.
«Ehi, ehi! Tu!» di nuovo quella voce. Passo il sacchetto a Lorenzo, poggio la mano sulla sua spalla per aiutarlo ad accelerare senza metterci a correre, ma è inutile.
Stavolta sono in tre, quello si piazza davanti, gli altri due alle sue spalle. Mio fratello mugola, si appoggia alla mia schiena.
«Ehi, anche loro ne vogliono uno».
Il calore allo stomaco sale alla gola, le lacrime mi inumidiscono gli occhi. Ho paura. No, è rabbia.
Scatto verso di lui, la mano destra protesa dietro a tenere distante Lorenzo. La sinistra invece trova il suo ventre, ma non è un pugno, è una pinza. Sento la sua maglia e la sua ciccia fra le mie dita e stringo. [Lo avrei detto prima se era grasso, io, ad esempio, mi ero figurato un ragazzo smilzo]
«No, hai avuto abbastanza.»
Restiamo fermi qualche secondo, non reagisce. Non mi colpisce.
Mollo la presa, lentamente. Indietreggio.
Il braccio al collo di Lorenzo, voltiamo le spalle ai tre.
Senza correre. [Qui mi mangio le mani. Fino ad ora la narrazione era perfetta, tutto logico e ben gestito, ma, proprio nel momento saliente, ti sei perso una cosa importante e il finale arriva altamente depotenziato. Manca la reazione dei tre ragazzi! Perché non reagiscono? Sono interdetti? Spaventati? Non avevano cattive intenzioni? Sono tre contro uno e pure più grandi, ci deve essere un motivo valido per cui non persistono, e tu lo devi mostrare! Gli è sembrato un pazzo? Mostra allora le facce sconcertate o il balbettio del grassottello. Reputano che non vale la pena di fare a botte? Allora mostra qualche risolino nervoso e magari una battuta sul protagonista. Altrimenti così è proprio piatto.]
Commento:
Il racconto mi è piaciuto molto. Avvincente e con un protagonista davvero simpatico. Lo stile anche è buono e ho trovato i dialoghi belli concisi e affilati. C'è tutto, tranne un finale degno della parte precedente. Peccato, ma comunque un'ottima prova, mi ha preso parecchio mentre lo leggevo!
Conigli, di Gianni Tabaldi
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Ciao Gianni e benvenuto su Minuti Contati! Ho letto alcuni dei tuoi commenti e mi hai incuriosito e sorpreso per come sei sceso nel dettaglio con le tue impressioni. Hai colto sicuramente lo spirito del contest, e sarai un'ottima aggiunta al già grande pool di bravi commentatori che abbiamo. Spero che i miei appunti sul testo ti tornino utili!
La giornalista entrò nell’appartamento. [Allora, se il protagonista è la giornalista, non credo che si riferirebbe a se stessa come "la giornalista", bensì con il suo nome.] Il salotto era sporco e disordinato. [Questa frase non serve. Dal momento che subito dopo mostri cosa c'è di disordinato nel salotto, non c'è bisogno di questo tell. Se proprio volevi accentuare questo aspetto, potevi far fare un pensiero alla protagonista del tipo: "mamma mia che schifo."] Quattro conigli, di dimensioni e razze differenti saltellavano per la stanza. Il pavimento era ricoperto di feci e fieno.
Osservò [verbo percettivo. Quasi sempre non servono se in relazione al protagonista. Limitati a mostrare le cose che il tuo punto di vista vede. Se ti ci soffermi, vien da sé che il PdV le sta osservando. Quindi qui doveva essere, semplicemente: "le bestiole avevano un aria simpatica e..."] le bestiole: avevano un’aria simpatica, e non sembravano per nulla spaventate dalla presenza della sconosciuta. Due di essi giocavano a rincorrersi, l’esemplare più grosso stava mangiando da una ciotola, l’ultimo era così coraggioso da essersi avvicinato ai piedi della donna, che si era istintivamente chinata per accarezzarlo. Era un animaletto dal corpo tozzo, il pelo bianco, e le orecchie che cadevano ai lati.
«Mi scusi, non mi posso muovere, può raggiungermi lei?» una voce femminile da un’altra stanza chiamò la giornalista.[Lo avrei messo come inciso in mezzo al dialogo per capire fin da subito chi stesse parlando, quindi: <<Mi scusi>> da un’altra stanza una voce femminile chiamò la giornalista. <<non mi posso muovere, non è che può raggiungermi lei?>>] Si rialzò dando un’ultima carezza al coniglietto, e proseguì lungo il corridoio.
Una donna era seduta per terra, in un bagno stretto, sporco e disordinato come il salotto. Stava cercando di dare da mangiare a un altro coniglio, ma questo, a differenza degli altri, sembrava scontroso e spaventato. Tutte le volte che la padrona gli porgeva del cibo, l’animale prima si ritirava istintivamente, poi cercava persino di mordere le dita che lo volevano solo nutrire. Era così violento che la giornalista sussultò nel vederlo attaccare.
«Mi perdoni, non mi posso alzare, sto cercando di dar da mangiare a questo trovatello. Ne ha passate tante ed è traumatizzato.» La donna rimanendo sempre seduta a terra, [superfluo specificarlo dato il dialogo precedente e il gesto che fa] porse la mano alla giornalista.
«Non c’è problema» rispose imbarazzata l’altra, chinandosi per stringerle la mano.
«Se però è qui per chiedermi qualcosa sulla tragedia dei signori D. temo di non avere molto da dire.»
«Non voglio mettervi in difficoltà, visto che sarete sconvolti dall’idea di un omicidio così efferato nel vostro condominio, ma al giornale vorremmo potere fornire una versione il più possibile vicina alla verità.» [Poco credibile questa frase, l'avrei scritta con qualche sottinteso in più]
La donna a terra fece un cenno di assenso, e la giornalista attivò il registratore sul cellulare.
A dispetto della recente dichiarazione, in cui diceva di non avere molto da dire, la vicina di casa dei signori D. parlò ininterrottamente per un’ora, rivelandosi una vera pettegola. Raccontò nel dettaglio tutto quello che era riuscita a origliare dalla vita della coppia. Di come la signora fosse conosciuta da tutti per essere estremamente riservata, gentile, dall’aria docile e tranquilla, ma la cosa rendeva ancora più scioccante che avesse potuto uccidere il marito a quella maniera.
La vicina di casa confermò che dall’appartamento dei signori D. spesso si sentivano urla e rimproveri. Il marito pareva essere violento, e molte volte oltre alle grida, si sentivano anche rumori che potevano indicare soprusi fisici.
«Di sicuro lui era un bruto e un violento, e la signora D. ne ha passate tante. Ma arrivare a ucciderlo a quel modo… non so cosa abbia potuto spingerla a un tale gesto…»
La giornalista spense il microfono. Nonostante la dovizia di particolari e l’impegno che la vicina ci aveva messo, non aveva aggiunto niente che non si sapesse già a proposito della vicenda.
Il coniglio aveva continuato a girare attorno nervosamente [Lo toglierei questo avverbio in -mente, appesantisce solo la prosa qui e non aggiunge molto] alle due donne, per tutto il tempo. Era penoso vederlo perennemente impaurito e aggressivo.
«Cosa gli è successo?» chiese la giornalista.
«I precedenti proprietari lo maltrattavano. Lo lasciavano sempre in gabbia, lo picchiavano, e quando ha cominciato a mordere l’hanno abbandonato. I conigli sono gli animali più docili del mondo, ma questo è stato così mal tenuto che non so se si riprenderà mai più.»
Le due donne si salutarono, e la giornalista uscì dalla casa, mentre la proprietaria dei conigli rimaneva seduta per terra cercando di recuperare quell’animale guastato dalla violenza dei padroni precedenti.
La giornalista ripassò nel salotto e vide i primi quattro conigli, [ma non era già uscita dalla casa?]così diversi e pacifici rispetto a quello aggressivo che stava rinchiuso nel bagno.
Pensò che [Anche qui, puoi eliminarlo completamente questo "pensò che". se sei calato nel tuo punto di vista non c'è bisogno di: vide, osservò, sentì, pensò ecc...] erano animali davvero strani e fragili, per arrivare a fare condizionare la loro indole così tanto dall’ambiente.
Commento:
Per essere la prima prova, non è male. Sullo stile si può sicuramente migliorare (e ho tralasciato anche diverse cose sul testo) ma, di partenza, ci sono delle buone basi. Hai mostrato dei dettagli interessanti e, seppur tu abbia utilizzato spesso il tell, non l'ho trovato troppo ingombrante, neanche nel riassuntone in mezzo. La storia in sé, però, mi ha lasciato molto poco. Hai cercato di creare un parallelismo tra la vicenda dell'omicidio e il coniglio traumatizzato che, però, si conclude con una semplice riflessione neanche troppo originale, almeno per me. Speravo in un guizzo finale in più che motivasse la vicenda, ma non c'è stato.
Comunque, come ho detto, per essere la prima prova è assolutamente discreta e, considerando il tuo approccio, son sicuro che migliorerai a vista d'occhio.
Alla prossima!