La Prima Fiamma
Inviato: martedì 22 febbraio 2022, 0:50
Le pellicce fradice ci pesano sulla schiena e sgocciolano sulla Madre Terra.
Riparati all’ingresso di una grotta, ascoltiamo i versi del cielo in disordine e l’acqua che precipita da nuvole spesse come roccia.
Affiliamo le pietre come ci è stato tramandato e prepariamo la legna come ci hanno insegnato.
I nostri antenati ci guidano, illuminando la volta sulle nostre teste e rischiarando l’entrata della caverna.
Ci accompagnano nelle tenebre per uscirne ogni notte più forti. In branco, come le fiere notturne, sfidiamo l’oscurità.
Impariamo ad avanzare senza timore, in gruppo, uniti l’uno all’altro come una creatura sola.
Preparati gli arnesi e raggruppati i bastoni, affrontiamo l’uscita da questa calorosa gola. Mai siamo stati tanto a lungo in un posto come in quest’antro. La posizione irraggiungibile da chi non può arrampicarsi ha reso questo luogo un rifugio sicuro. Ma non abbiamo più il fuoco e dobbiamo recuperarlo altrove.
Un alveare di vespe ronza nelle nostre pance a memoria dei giorni che sono passati.
Le pareti grigie ci salutano con i dipinti delle nostre mani colorate di rosso.
Rosso come la terra da cui venivano i nostri avi, rosso come il sole e rosso come il fuoco donatoci nelle notti come queste.
La pioggia diminuisce agevolando il nostro cammino. In lontananza il buio della notte è spezzato a metà da una montagna di luce arancione, viva e in movimento.
I piedi affondano nel fango bagnato che ammorbidisce le spine e i rovi. Il vento sferza le facce e zittisce ogni suono.
Pur dovendo combattere con le raffiche preferiamo proseguire fuori dalla vegetazione più fitta, dove possiamo farci condurre dalla luce dei nostri cari.
In cerchio, in modo da poterci guardare le spalle a vicenda, costeggiamo la boscaglia stando attenti agli agguati dei predatori.
Non viaggiamo più da soli, abbiamo capito che non conviene. I più forti sopravvivono solo quando hanno qualcuno che li aiuta. Non avremmo speranza contro un orso o un puma, non di certo uno contro uno.
Per quello imitiamo chi questi temibili avversari sa tenerli a bada e ci convive ogni giorno.
Ci siamo stancati di essere prede, vogliamo anche noi diventare predatori.
Sotto il peso dei nostri pensieri la tetra pianura scorre e ci allontana dalla calda dimora.
Un fiume ci compare davanti.
Le sue acque scorrono impervie ma non sembrano difficili da attraversare.
Ci mettiamo in fila e ci immergiamo. Ognuno afferra la spalla di quello davanti e tiene sollevato il legname per non farlo bagnare.
L’acqua ci arriva fino al petto.
Come un serpente guadiamo da una sponda all’altra, se cade uno l’altro lo sorregge.
Attraversiamo il torrente e ci fermiamo per riprendere fiato.
Sui nostri corpi tantissimi esseri dalla forma di lingua sembrano volerci divorare vivi.
Attaccati con la stessa ferocia con cui un lupo si avventa su un caprone, i loro denti aguzzi penetrano nella pelle e lacerano la carne.
Tra grida acute e versi confusi ci strappiamo di dosso quelle bestie immonde, sradicandole come piante dal terreno con tutte le radici.
Siamo ricoperti di sangue, il nostro sangue, l’unica cosa rossa da cui vogliamo tenerci a distanza.
Per fortuna le ferite non sono poi così gravi, la terra umida allieva persino il dolore e ci permette la ripartenza senza troppe esitazioni.
Il legno è ancora abbastanza asciutto.
Sopra di noi le nuvole sono sparite del tutto e la tempesta è svanita con loro.
L’aria è diventata più secca e una nebbia fosca ci entra nel naso.
Ci stiamo avvicinando al nostro obbiettivo.
Da quando nasciamo ci mostrano come riconoscere quando si è vicini al fuoco e come raccoglierlo.
Per prima cosa, tutto intorno a lui brucia.
Quando tocca gli alberi divampa e si espande, fino a quando non trova roccia o acqua.
Oltre a incendiare tutto quello su cui si posa, porta con sé delle nuvole, diverse da quelle che fanno piovere. Queste nubi nere inghiottono tutta l’area circostante alle fiamme e rendono quasi impossibile respirarci all’interno se non per pochi attimi.
Attimi in cui la legna che ci portiamo dietro deve essere accesa e portata al sicuro, dove poterla gestire fino al prossimo incendio.
Lasciamo le pellicce quando il caldo diventa insopportabile.
La cupola blu è sparita dalla nostra vista e il cielo è solo una coltre insondabile.
Sotto, le ombre si agitano sullo sfondo arancio come se fuggissero da quella morte rovente.
Imbracciamo i bastoni e ci lanciamo alla ricerca del più vicino cespuglio bruciato.
Qualcuno di noi cade, i più anziani.
Il fumo deve averli presi prima che riuscissero a sfuggire alle sue grinfie mortali.
Altri escono, tossiscono, rantolano e si stringono il torace.
Nessuna fiamma tra le mani.
Un solo bastone spicca, illuminato di rosso, in mezzo all’incendio.
Mentre le fiamme intorno si dileguano e solo il nero della cenere rimane, quest’unica fiamma ci da speranza.
Ci attacchiamo a lei.
Poi un tuono.
Le nuvole ritornano sulle nostre teste inondandoci, prendendosi gioco di noi.
Nuvole spesse come roccia, che con la loro acqua spengono il nostro fuoco.
Riparati all’ingresso di una grotta, ascoltiamo i versi del cielo in disordine e l’acqua che precipita da nuvole spesse come roccia.
Affiliamo le pietre come ci è stato tramandato e prepariamo la legna come ci hanno insegnato.
I nostri antenati ci guidano, illuminando la volta sulle nostre teste e rischiarando l’entrata della caverna.
Ci accompagnano nelle tenebre per uscirne ogni notte più forti. In branco, come le fiere notturne, sfidiamo l’oscurità.
Impariamo ad avanzare senza timore, in gruppo, uniti l’uno all’altro come una creatura sola.
Preparati gli arnesi e raggruppati i bastoni, affrontiamo l’uscita da questa calorosa gola. Mai siamo stati tanto a lungo in un posto come in quest’antro. La posizione irraggiungibile da chi non può arrampicarsi ha reso questo luogo un rifugio sicuro. Ma non abbiamo più il fuoco e dobbiamo recuperarlo altrove.
Un alveare di vespe ronza nelle nostre pance a memoria dei giorni che sono passati.
Le pareti grigie ci salutano con i dipinti delle nostre mani colorate di rosso.
Rosso come la terra da cui venivano i nostri avi, rosso come il sole e rosso come il fuoco donatoci nelle notti come queste.
La pioggia diminuisce agevolando il nostro cammino. In lontananza il buio della notte è spezzato a metà da una montagna di luce arancione, viva e in movimento.
I piedi affondano nel fango bagnato che ammorbidisce le spine e i rovi. Il vento sferza le facce e zittisce ogni suono.
Pur dovendo combattere con le raffiche preferiamo proseguire fuori dalla vegetazione più fitta, dove possiamo farci condurre dalla luce dei nostri cari.
In cerchio, in modo da poterci guardare le spalle a vicenda, costeggiamo la boscaglia stando attenti agli agguati dei predatori.
Non viaggiamo più da soli, abbiamo capito che non conviene. I più forti sopravvivono solo quando hanno qualcuno che li aiuta. Non avremmo speranza contro un orso o un puma, non di certo uno contro uno.
Per quello imitiamo chi questi temibili avversari sa tenerli a bada e ci convive ogni giorno.
Ci siamo stancati di essere prede, vogliamo anche noi diventare predatori.
Sotto il peso dei nostri pensieri la tetra pianura scorre e ci allontana dalla calda dimora.
Un fiume ci compare davanti.
Le sue acque scorrono impervie ma non sembrano difficili da attraversare.
Ci mettiamo in fila e ci immergiamo. Ognuno afferra la spalla di quello davanti e tiene sollevato il legname per non farlo bagnare.
L’acqua ci arriva fino al petto.
Come un serpente guadiamo da una sponda all’altra, se cade uno l’altro lo sorregge.
Attraversiamo il torrente e ci fermiamo per riprendere fiato.
Sui nostri corpi tantissimi esseri dalla forma di lingua sembrano volerci divorare vivi.
Attaccati con la stessa ferocia con cui un lupo si avventa su un caprone, i loro denti aguzzi penetrano nella pelle e lacerano la carne.
Tra grida acute e versi confusi ci strappiamo di dosso quelle bestie immonde, sradicandole come piante dal terreno con tutte le radici.
Siamo ricoperti di sangue, il nostro sangue, l’unica cosa rossa da cui vogliamo tenerci a distanza.
Per fortuna le ferite non sono poi così gravi, la terra umida allieva persino il dolore e ci permette la ripartenza senza troppe esitazioni.
Il legno è ancora abbastanza asciutto.
Sopra di noi le nuvole sono sparite del tutto e la tempesta è svanita con loro.
L’aria è diventata più secca e una nebbia fosca ci entra nel naso.
Ci stiamo avvicinando al nostro obbiettivo.
Da quando nasciamo ci mostrano come riconoscere quando si è vicini al fuoco e come raccoglierlo.
Per prima cosa, tutto intorno a lui brucia.
Quando tocca gli alberi divampa e si espande, fino a quando non trova roccia o acqua.
Oltre a incendiare tutto quello su cui si posa, porta con sé delle nuvole, diverse da quelle che fanno piovere. Queste nubi nere inghiottono tutta l’area circostante alle fiamme e rendono quasi impossibile respirarci all’interno se non per pochi attimi.
Attimi in cui la legna che ci portiamo dietro deve essere accesa e portata al sicuro, dove poterla gestire fino al prossimo incendio.
Lasciamo le pellicce quando il caldo diventa insopportabile.
La cupola blu è sparita dalla nostra vista e il cielo è solo una coltre insondabile.
Sotto, le ombre si agitano sullo sfondo arancio come se fuggissero da quella morte rovente.
Imbracciamo i bastoni e ci lanciamo alla ricerca del più vicino cespuglio bruciato.
Qualcuno di noi cade, i più anziani.
Il fumo deve averli presi prima che riuscissero a sfuggire alle sue grinfie mortali.
Altri escono, tossiscono, rantolano e si stringono il torace.
Nessuna fiamma tra le mani.
Un solo bastone spicca, illuminato di rosso, in mezzo all’incendio.
Mentre le fiamme intorno si dileguano e solo il nero della cenere rimane, quest’unica fiamma ci da speranza.
Ci attacchiamo a lei.
Poi un tuono.
Le nuvole ritornano sulle nostre teste inondandoci, prendendosi gioco di noi.
Nuvole spesse come roccia, che con la loro acqua spengono il nostro fuoco.