Questa edizione, purtroppo, nessun brano mi ha emozionato particolarmente ma, in compenso, ho trovato molte idee interessanti e sperimentazione! Ecco la classifica:
1. Massimi Sistemi, di Dario Cinti
2. Tormento, di Stefano Floccari
3. Crudeltà e giustizia, di Davide Mannucci4. Il Reduce, di Agostino Langellotti
5. Una vita normale, di Emiliano Maramonte
6. La Medicina, di Giulio Marchese
7. Un tipo senza tempo, di Stefano Moretto
8. Insonnia, di Alexandra Fischer
9. La Prima Fiamma, di Maurizio Chierchia
Davide Mannucci, crudeltà e giustiza
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Il mondo è crudele. [partire enunciando il tema non è il massimo, spero sia ben motivata questa frase, e non stia solo qui per collegarsi meglio al tema]
Lo ha detto prima di uscire, il bastardo.
Le catene ai polsi mi lacerano la carne. Il tanfo che mi arriva alle narici e la colata umida e vischiosa lungo le cosce confermano quello che mi ha detto prima di allontanarsi.
Ti sei cagato nei pantaloni, omuncolo.
Perché sono qui?
La luce è debole ma la sagoma di un divano e un tavolino basso mi fanno pensare a una sala.[Avrei detto "Salotto", è più specifico. "Sala" può richiamare ambienti diversi]
Sono in un appartamento e, se il mal di testa non mi ha fottuto il cervello, quelli che sento da un po’ sono treni.
Ma perché mi ha chiuso qua dentro, appeso come un quarto di bue?
La gola brucia, devo bere.
La penombra che avvolge la sala comincia a tremare e una foschia cala sul divano e sul tavolino. Ho la nausea. Sto per svenire?
Da quanto tempo sono qui?
Cazzo, ho bisogno di acqua. [Prima di questo avrei insistito sui sintomi della sua disidratazione, o comunque una realizzazione su questo suo stato (Es: Cazzo, non riesco neanche a ragionare, ho bisogno d'acqua). Altrimenti così il pensiero è un po' isolato dalla frase prima]
Un rumore improvviso alle mie spalle e una luce che invade la stanza. [Non sono un fan di questo tipo di frasi. Rendono la lettura più pesante e sono meno immediate, dato che le persone vanno a cercare automaticamente un verbo. Anche quell'"improvviso" è superfluo. Quindi meglio: "Un rumore si levò alle mie spalle, la luce inondò la stanza." ]
Eccolo, ha aperto la porta.
Cornici con fotografie sopra a un tavolo e un pianoforte a coda. Poi di nuovo la penombra e il rumore della porta che si chiude. [Se l'osservazione appena sopra rispecchia più il mio gusto personale. Qui invece è oggettivamente eccessivo. Una frase senza verbo di tanto in tanto va anche bene, ma tre così vicine saltano all'occhio. ]
«Ciao, omuncolo. Dormito bene?».[Mi sa che non te l'ho mai fatto notare, ma la punteggiatura sia dentro che fuori dalle caporali non è consigliata (Alcune CE lo fanno, lo so). Quando c'è il "?" o il "!", il "." fuori non ci va. E' una piccolezza, ma non mi perderei mai un'occasione per romperti i cabbasisi :V]
Si avvicina ma non riesco a girarmi.
«Chi cazzo sei?». La voce mi esce appena.
«Davvero non riesci a ripescarmi in quel cervello di merda che ti ritrovi? Eppure eri così affezionato a me».
Ancora i passi che si avvicinano. Ho sete e tutto sta di nuovo piombando nel buio.
Perché dovrei conoscerlo? Che cosa vuole da me?
Un profumo di pane copre per un attimo il puzzo di merda.
Il panificio accanto alla stazione.
Cerco di fare mente locale per capire chi possa conoscere da quelle parti. Sto delirando.
E se anche conosco qualcuno?
«Allora? Sei pronto per lo spettacolo? Io e te adesso giochiamo un po’».
Ho voglia di vomitare. Questo pazzo mi ucciderà.
Comincia a mugolare un motivetto che mi è familiare, ma non ricordo quale canzone sia.
Mi gira intorno e un odore forte di dopobarba mi accelera la nausea.
«Davvero non sai che cosa succede?».
Mi cascano le lacrime e una fitta al petto mi toglie il fiato.
«Ti prego, dammi da bere. Non lo so chi sei. Ti prego». [A questo punto mi inizia a sapere tutto di già visto, situazione davvero tipica in questo genere di storie. ]
La sua risata mi penetra le orecchie e la testa inizia a pulsare. Voglio svenire [Qui sarebbe stato più d'effetto un "devo svenire", a mio avviso. Avrebbe mostrato, per un momento, un lato molto razionale del protagonista.] o il cervello mi scoppierà.
«Certo, adesso vuole pure l’acqua lui. Smettila di frignare e guardami».
È davanti a me, ma vedo solo un’ombra.
«Il mondo è crudele, ricordi?».
La sua sagoma comincia a muoversi e la nausea è insopportabile. Mi gira la testa.
Un’immagine si fa spazio nella mia mente. [Eh no! Descrivimi cosa vede, cosa gli fa richiamare il pensiero di lapo. La linea della mascella? una fronte particolarmente spaziosa? Qualcosa ci deve essere per forza.] Gli anni novanta, quando insegnavo al Da Vinci.
No, non può essere.
«Tu, tu...sei...».
La gola è in fiamme e i singhiozzi mi impediscono di fare quel nome.
«Ti ricordi il tuo alunno preferito?».
Si avvicina e si inginocchia davanti a me. Non riesco a vederlo in viso.
Ma che cazzo sta facendo?
Le sue mani indugiano sul mio ventre poi mi sbottonano i pantaloni. [Che vuol dire che indugiano? Lo sta accarezzando? O sta solo cercando il bottone? Specificalo perché, in base a quello, la scena ha una temperatura ben diversa. Il lettore non sa ancora le intenzioni dell'uomo e potrebbe farsi un'idea sbagliata.]
«Ti prego, no».
«Tu mi preghi? Davvero funziona? Ti pregavo anche io, no?».
Li sfila e resto appeso alla trave, seminudo e con le gambe merdose.
Si alza e avvicina la sua bocca alla mia.
«Mi fai schifo, sai? Ma adesso voglio mostrarti a un’amica».
Ride di nuovo e si allontana.
Lapo? No, non può essere lui.
Lo vedo [Attento a questo verbo percettivo. Sei immerso nel punto di vista e in prima persona.] avvicinarsi al divano, oltrepassarlo e aprire un’altra porta.
«Entra pure cara, lo zio ti aspetta».
Oddio, Serena! Sono finito.
Lo stomaco viene invaso da un’onda che dal ventre risale su fino a riempirmi la bocca. Mi butto in avanti e la apro. Non so per quanto vomito. Mi sembra tutto rallentato, tutto eterno.
Una risata arriva dal divano. Si è seduto il pezzo di merda.
Cerco di produrre saliva per ripulirmi la bocca ma riesco solo a farmi venire una nausea più forte.
Serena mi guarda, silenziosa. La luce che proviene dal corridoio le illumina i capelli biondi e mostra un viso sempre grazioso. La mia Serena.
«Serena, che succede? Come stai? Ti ha fatto del male?». La testa continua a pulsare. «Figlio di puttana, se le hai fatto qualcosa giuro che...».
Lui si alza di scatto e si avvicina a passo svelto. Poi si blocca e mi fissa con quegli occhi che ora riconosco. La luce mi rivela quel taglio triste che tanto amavo trent’anni fa. Lapo, il mio Lapo.
«Cosa giuri, idiota? Cosa fai eh?». La voce è terribile, anche se forse sta tremando. «E poi le hai già fatto tutto tu, bastardo. Ha solo quattordici anni».
Serena si muove verso di lui, gli è quasi attaccata e...che succede? Si prendono per mano.
Il capogiro si fa più forte e lo stomaco è in subbuglio come se avessi ingoiato cavallette vive.
La mente produce immagini e suoni e mi ritrovo nella sala dei professori, anni fa; la luce è soffusa e la mia mano è tra le gambe di Lapo. Lui continua a dirmi di no ma la sua erezione dice il contrario e continuo la mia carezza.
Ho la nausea e mi sto di nuovo cagando addosso, mentre le immagini cambiano e Serena è sotto di me, nella sua cameretta. Mi prega di smettere ma la sensazione che quel corpicino mi dà è più forte di tutto il resto.
Un rumore mi riporta qua. Si avvicinano.
Lui si china di nuovo su di me.
«Adesso ti facciamo ciò che doveva farti mio padre molto tempo fa».
Qualcosa mi penetra la coscia. Un dolore forte, lungo.
«Il mondo è crudele ma a volte è giusto». [Questa ripresa della prima frase va bene, ma secondo me è comunque troppo sgamato così.]
Commento:
Né caldo né freddo. Non ci ho trovato grandi guizzi di originalità, né nelle descrizioni, né nei pensieri, né nell'idea in sé. La storia è ok, ma si capisce presto che il protagonista ha fatto qualcosa al rapitore e non c'è un vero colpo di scena che trasforma l'atto di un sadico in una "giusta" vendetta. Quindi, per gran parte della vicenda, l'incognita è solo capire cosa gli ha fatto il protagonista. Purtroppo la rivelazione è abbastanza debole, quello della molestia sessuale è un tropo classico e non c'è una vera introspezione del protagonista su di essa (oltre al mero ricordo). Per come l'avevi impostata, ci sarebbe stata bene una colpa che il protagonista non sapeva di avere, magari una conseguenza indiretta delle sue azioni. Ma qui finiremmo a parlare di argomenti troppo specifici, e ho ancora 8 brani da analizzare XD
Buono il macabro, ma ho trovato lo stile un po' meno affilato delle scorse volte. Potevi essere più specifico in molte delle descrizioni, ma nulla di troppo grave.
Stefano Moretto, Un tipo Senza tempo
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Stringo gli spallacci dello zaino che mi stanno tranciando le spalle. Sapevo che non dovevo caricarlo così tanto, accidenti a me, sono a poco più di metà strada per il rifugio alpino e ho già il fiatone. Almeno gli alberi mi fanno ombra e la brezza è piacevole.
Al prossimo tornante c'è una panchina, magari mi fermo cinque minuti per riprendere fiato. Eccola, appena dietro quegli alberi. Libera, per fortuna non siamo ancora in alta stagione o non troverei neanche un angolo per terra dove sedermi.
«Ehi.» Una voce alla mia sinistra mi fa sobbalzare. «Mi dai una mano?»
Un ragazzo sulla ventina se ne sta appoggiato a un albero, così immobile che non l'avevo neanche visto. Ha delle occhiaie profonde e il viso scavato, i capelli sudati sono appicciciati alla fronte. Spero non sia un tossico.
Mi avvicino di mezzo passo. «Tutto bene, amico?»
Lui fa un sorriso a mezza bocca. «Non proprio. Mi aiuti a raggiungere la panchina? Riesco appena a stare in piedi.» [Qui ci sarebbe stata bene una descrizione della sua voce o del suo modo di parlare, dato che poco dopo scopriamo che è affannato e ha problemi ai polmoni. Sembra strano altrimenti che il PDV non noti nulla di particolare al riguardo.]
E ti pareva. Vabbè, ci stiamo anche in due. Non ha uno zaino e indossa abiti leggeri, non sembra un escursionista, anzi, sembra appena scappato di casa. Ai piedi ha delle logore scarpe da ginnastica sporche di fango. Decisamente non dovrebbe essere a quest'altezza conciato così. Però non sembra pericoloso.
Mi avvicino. «Vieni, ti aiuto.» Lo sorreggo. «Mio dio, ma sei pelle e ossa.»
Ridacchia. «Grazie.»
Raggiungiamo la panchina, lui si siede e tira il fiato. Ha il respiro affannosso.
Non mi va di lasciarlo qui così. «Devo chiamare qualcuno?»
«Oh, se hai il numero di Gesù,» tossisce, «è l'unico che può aiutarmi ora.» [Carino]
Mi tolgo lo zaino dalle spalle e mi siedo accanto a lui.
«Dai, non può andare così male.»
Sorride. «I miei polmoni sono andati, amico.» Tossisce ancora, più forte. «E vuoi ridere? Non mi sono mai fatto neanche una cicca in tutta la mia vita.»
Oh, io e la mia linguaccia. «Mi dispiace.»
Lui scrolla le spalle. «Scusami tu. Non volevo coinvolgere nessuno, ma stavo per morire a terra come un coglione.»
«Capisco.» Guardo davanti a noi, la foresta prosegue tra le valli, interrotta solo dalla città in lontananza. A destra, sulla vetta della montagna, splende il gigantesco ghiacciaio. «È un bel posto per morire, immagino.» [mmm poco credibile una frase del genere]
Lui ride ancora più forte finché la tosse non gli stronca la risata.
Inarco un sopracciglio. «Cosa c'è da ridere?»
Tossisce ancora e si ricompone. «Questa per te è una bella vista? Da quanto vieni qui?»
«Cinque anni? No,mi sono trasferito quattro anni fa.»
«Allora ti dico cosa vedo io. La vedi quella valle laggiù?» Indica un punto sotto al ghiacciaio. «Quand'ero piccolo il ghiacciaio arrivava fin lì, ora iniziano a crescerci le piante. E dall'altro lato» Il suo dito si sposta verso la città. «La foresta perde terreno per far spazio a fabbriche, case e parcheggi.» Tossisce ancora. «Quando mio padre mi portava qui, la vista era tutta un'altra cosa.»
Il ragazzo non avrà più di venticinque anni a occhio, questo posto è cambiato così tanto in così poco tempo? Però dev'esserci un motivo se ha scelto di venire qui.
«Allora sei qui per la nostalgia?»
Scuote la testa. «No, volevo solo vedere un'ultima volta quanto fa schifo il mondo.»
«Perché? Cioè, non capisco, di solito si cerca la pace negli ultimi momenti, no?»
Si ficca una mano in tasca in cerca di qualcosa. «I miei sono morti e non ho amici. Dove dovrei trovarla, in un polveroso letto d'ospedale?» Tossisce e tira fuori dalla tasca un pezzo di carta appallottolato. «Ne faccio a meno. Almeno qui posso ricordarmi che lo schifo è un po' ovunque e non sono l'unico a essere stato sfigato nella vita.»
Se davvero esistono le cinque fasi, credo che sia in pieno in quella depressiva. Non so se dire qualcosa per aiutarlo, rimanere in silenzio o andarmene. Non so neanche quanto tempo gli resta. Dio, non so neanche come si chiama.
Guardo il pezzo di carta che stringe in mano. «Cos'è quello?»
Abbassa lo sguardo e se lo rigira tra le mani. «Questo... volevo scrivere qualcosa che rimanesse, dopo la mia morte. È stupido, perché non so neanche chi potrebbe leggerlo. Se vuoi lo do a te, però non lo leggere finché non sono morto.»
Me lo porge e io lo accetto. «Certo, non ha senso leggere un... testamento, finché la persona è viva.» [Perché pensa che sia un testamento? Anche qui lo sento poco credibile.]
«Non è neanche un testamento, è solo che mi vergogno.» Sorride. «Ti ringrazio. Pensavo che l'avrebbero buttato via appena trovato il mio corpo, invece so di averti traumatizzato abbastanza almeno da leggerlo.»
Lui ride e mi lascio scappare una risatina anch'io. «Sì, qualsiasi cosa tu ci abbia scritto lo appenderò in salotto quando torno a casa.» [Anche qui, non sa proprio di vero]
Ride, ma un colpo di tosse gli stronca la risata. Si ricompone. «Grazie.»
Mi asciugo una lacrima e mi appoggio al muro del rifugio. Prendo il pezzo di carta dalla tasca e lo apro. Poche righe in una grafia traballante, ma leggibile.
"Dicono che nasciamo tutti con lo stesso tempo. È una stronzata. Dai sempre il massimo, perché la vita fa schifo e dopo si muore.
Con affetto,
un tipo senza tempo."
Sorrido. Sì, questo lo appendo il salotto.
Commento:
Non direi che questo racconto abbia risonato un granché con me. L'inizio non era affatto male, ma poi ho trovato molte parti poco credibili, con risposte e pensieri del protagonista che davvero non stavano né in cielo né in terra.
C'erano anche degli spunti interessanti, ma l'arteficiosità del tutto ha solo reso le "massime" seminate qua e là come espedienti cheap per veicolare un messaggio poeticoso.
Peccato perché lo stile è molto buono e, di solito, i tuoi racconti mi piacciono.
Dario Cinti, Massimi sistemi
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Virginia entrò in aula.
La luce mattutina di Firenze entrava [ripetizione con "entrò"] dalle finestre e rimbalzava [Non mi fa impazzire il verbo.] sui banchi delle compagne di classe.
Soltanto la metà di loro alzò lo sguardo dai loro [Superfluo questo loro, toglilo e eviti anche la ripetizione] cellulari. Due la salutarono con la mano.
Lo stomaco le si distese un pochino.
Oggi sembrano tranquille. [Pensiero carino che rende subito interessante il racconto. Ora sono curioso di sapere a cosa si possa riferire]
Raggiunto il suo posto, posò la cartella e si sedette. Infilò le dita smaltate di fresco sotto il banco.
La prima ora non era ancora suonata, faceva in tempo a…
«Attente a ‘i capo, ragazze!» La voce di Olimpia squillò nell’aula «Il mondo ha accelerato di botto!»
Il resto della classe scivolò dalle sedie dov’erano sedute e mimarono cadute rovinose sul pavimento a chiazze bianche e nere.
«Ohi ohi!» fece Tullia, torcendosi un polso e ridendo come una pazza.
La punta delle guance di Virginia si fecero calde come braci.
Sfilò la mano dalla cartella e la sbatté sul banco.
«Non siete per niente divertenti!» strillò.
«Buone ragazze, chetatevi un poco!» la prof. Cappelli entrò in aula col portatile sottobraccio.
Virginia esibì la mano destra col dito medio sparato all'insù.
Olimpia si picchiettò l’indice sulla tempia e la guardò in cagnesco. [Qui si avverte la pesantezza di tre frasi molto simili l'una attaccata all'altra]
«Quando avete finito di fare le bambine dell’asilo, comincerò la lezione…» sbuffò la professoressa.
*
Virginia raggiunse Livia fuori dai cancelli, proprio sotto la targa smangiucchiata dal tempo “Scuola privata femminile San Matteo in Arcetri”.
Con la cuffia calzata sulla chioma nera e la sciarpa sotto il naso a malapena era quasi irriconoscibile. [Qui penso ci sia un refuso.]Virginia non la biasimò. Anzi, si pentì di non essere uscita dal convitto con la sciarpa pure lei. Sarebbe stata utile.
«’ao.» miagolò sua sorella, il naso puntato sullo smartphone.
«Uomini di galilea, perché restate a guardare il cielo?» esclamò una voce baritona dalle casse del cellulare.
«Smettila di guardare quel video.» Virginia riconobbe frate Tommaso Caccini, sul pulpito di una Santa Maria Novella piena di persone, agitare le braccia contro la folla.
Il titolo, in un angolino dello schermo, diceva “Domenicano sbugiarda la teoria eliocentrica”
Le due percorsero un bel tratto di via dei Villani, il cielo invernale sgombro da nuvole inondava i ciottoli e i muri delle case ai bordi della strada.
Livia cacciò lo smartphone nella tasca del giubbotto.
«Cosimo non mi porta più alla festa a Villa Medicea, stasera.» sospirò Livia.
«Eh? Dopo che ti ha praticamente implorato di andarci con lui per un mese?»
«Ha fatto il vago, ma ho capito che non vuole farsi vedere con me per non essere preso in giro. Non vuole uscire con una che ha il babbo con le cheche…»
Il tono della sorella le fece venire un groppo in gola.
Lei non aveva un ragazzo, ma un’intera classe che la sfotteva da quando suo padre aveva pubblicato online il suo lavoro.
Virginia riesumò dagli scaffali della memoria la prima infornata di commenti che lesse subito dopo:
“Molla ì fiasco e torna a studiare, Galilei…”
“Il quarto d’ora del bischero.”
“Apri le finestre, così lo vedi pure tu il sole che si muove…”
La mamma faceva orecchie da mercante, ma aveva capito che loro padre stava passando un momentaccio tra le mura dell’Università.
Via di Bellosguardo si spalancò e le mura del dormitorio le accolsero.
Soltanto un paio di inservienti stavano pulendo le scale in marmo bianco: erano salve fino alla lcamera.
«Virgi…» Livia si era fermata tre passi indietro, la sciarpa viola penzolante «secondo te babbo ha ragione?»
Lei esitò un attimo. Inspirò.
«So solo che quando era il sole a girare attorno al mondo» sferrò un calcio al terreno, la punta della scarpa scavò una piccola ferita nella ghiaia «la scuola non era un incubo.» [Mi piace]
*
Bussarono alla porta.
Virginia scattò e si mise seduta sul letto.
Livia, dall’altra parte della stanza, chiuse il libro su cui stava studiando.
Che fanno, ora vengono a pigliarci pe ì culo anche a domicilio?
Quando vide sua sorella afferrare il libro e prepararsi a lanciarlo, abbassò la maniglia. [Formulazione della frase poco ottimale, ritarda davvero di tanto la comprensione e, soprattutto, ci butta fuori dal PDV]
Olimpia che prendeva un volume di matematica in fronte poteva migliorarle la giornata. [Questa mi ha fatto ridere xD]
Alfonso il custode entrò con in braccio uno scatolone.
«Signorine Galilei, è arrivato questo da Villa dell’Ombrellino. Vostro padre ve lo manda, credo.»
Si fece un segno della croce appena finito di scandire la frase, [Rovesciala: "Appena ebbe finito di dire la frase, si fece il segno della croce." anche se io eliminerei proprio la prima parte. Quindi: "Si fece il segno della croce e se ne andò senza chiudere la porta." E' più semplice e immediata.]girò i tacchi e se ne andò senza chiudere la porta.
Livia posò il libro e si avvicinò.
Virginia aprì lo scatolone e ne estrasse il contenuto.
Un tubo lungo e avvitato in un fulcro, il tutto sostenuto da tre sottili gambe.
Livia prese a muoverlo per la sua corsa, [Non capisco questa frase] girandolo e inclinandolo.
I loro cellulari squillarono.
Virginia lo tirò fuori dalla tasca della gonna e lesse il messaggio.
“Figlie, l'opinione mia è che nissuna cosa sia contro natura, salvo l'impossibile, il quale, poi, non è mai. Non si può insegnare niente; si può solo far sì che uno le cose le trovi in se stesso. Usatelo con cura.”
Virgi [Non userei diminutivi per indicare la protagonista in terza persona] alzò la testa.
Sua sorella aveva appena finito di leggere lo stesso messaggio sul suo smartphone e la guardava. Sorrisero.
Livia corse alla finestra e la spalancò.
Il miglior cielo stellato di sempre.
«Oh beh, tanto alla festa non ci vado più.» esclamò livia. [Mi ha lasciato leggermente interdetto questo finale, perché dalla descrizione del telescopio sembrava che le due non sapessero affatto cosa fosse ma, da quest'ultimo passaggio, mi vien da pensare il contrario]
Commento:
Allora, il racconto mi è piaciuto, ma il finale non mi ha convinto un granché. Per tutto il corso della storia pensavo volessi arrivare a una conclusione ben precisa che motivasse l'inserimento di Galileo in un contesto attuale rivisitato. Invece si rivela essere tutto un grande "what if" senza una vera base logica che faccia filare il setting. Poco male, il testo è godibile e originale e, come al solito, ho apprezzato il tuo stile di scrittura.
Alla prossima!
Emiliano Maramonte, una vita normale
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Ciao Emiliano!
Allora, non mi metto ad analizzare il brano riga per riga perché, per il filtro che hai impostato, non avrebbe molto senso.
L'idea è interessante, soprattutto per il fatto che hai deciso di non rendere tutto estremamente credibile all'inizio per poi palesare, solo alla fine, il colpo di scena alla "è tutto frutto della sua immaginazione". Il soliloquio che si svolge per tutta la parte iniziale del testo fa subito intuire che qualcosa non va, e ciò giova moltissimo all'atmosfera generale.
Purtroppo, da questa scelta, derivano anche diversi problemi di coerenza del PDV. Il protagonista vede e sente i suoi famigliari e risponde di conseguenza, al lettore, però, mostri solo la parte visiva e non quella uditiva. A mio parere sarebbe stato meglio eliminare anche tutti quei piccoli gesti che fa la moglie in risposta a lui. Inoltre la focalizzazione del PDV oscilla troppo tra il dentro e il fuori per i miei gusti.
Comunque bravo per aver provato a rappresentare un protagonista così estremo, non direi che il risultato mi abbia convinto al 100%, ma rimane un buon esperimento!
Tormento, Stefano Floccari
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Tormento
di Stefano Floccari
La donna siede di fronte a me, gli occhi spenti eppure lo sguardo fiero. Incrocia le gambe, come a proteggersi. Le braccia sono appoggiate agli schienali, le mani afferrano il panno [Che panno? Lo contestualizzerei un minimo, altrimenti non so cosa immaginarmi] e lo stringono.
Provo a smuoverla dai suoi pensieri. “Tutto bene?”
Rossella [E perché all'inizio l'ha chiamata "la donna"?] scuote appena la testa e la solleva verso di me. “Sì. No. Insomma…”
“Ti faccio avere dell’acqua. Roberta?” Faccio un cenno alla mia assistente, che capisce subito. Ragazza sveglia. Lo penso mentre ammiro il suo culo che si sposta verso la sala ristoro.
“Ti piace lo spettacolo, eh?” Rossella mi coglie di sorpresa.
“Cos… ah, ma no!” Penso a una cazzata, in fretta. “Controllavo se è tutto a posto per la diretta”. Non se lo berrà mai.
“Immagino”, fa lei, sospettosa. Poi però sembra oscurarsi. “Sai, con quello che mi sta succedendo, ormai vedo lo schifo ovunque. Però tu mi sembri uno a posto.”
“Anche se vecchio?” Provo a stemperare la tensione mentre Roberta si avvicina con un bicchiere d’acqua.
Rossella ridacchia. “Anche se vecchio”.
“Decrepito proprio”, aggiunge Roberta con un sorriso.
Sette minuti dopo siamo in onda. Rossella sta raccontando a migliaia di persone dell’uomo che la perseguita da settimane. “La mia vita è diventata un inferno. So che sembra una frase fatta, ma è la verità”.
Voglio approfondire. “Ci hai raccontato che riceve telefonate e messaggi a qualsiasi ora, segno che lui conosce le tue abitudini, Rossella. Ma ti sei fatta un’idea di chi possa essere?”
Lei mi guarda sperduta, ignorando la lucina rossa della telecamera che sta riprendendo. “No, non lo so”.
“Nessuna idea, davvero?” Mi gratto la testa.
Lei ci pensa un secondo. Non l’ho mai vista così smarrita: quando l’ho incontrata, qualche mese fa nella palestra che frequentiamo entrambi, mi aveva dato subito l’idea di essere una donna forte, oltre che dotata di una bellezza straordinaria. La metamorfosi che ha avuto nelle ultime settimane è sbalorditiva.
“Nessuna idea”. Abbassa lo sguardo. “Voglio dire, conosco centinaia di persone, ho amato, ho ferito, ho tradito. Ma non penso di avere questioni irrisolte”.
Roberta mi fa un cenno da dietro alla telecamera: è ora della pubblicità. La prima di ottomila pubblicità del cazzo, ché mi chiedo ancora perché la gente guardi questa merda generalista.
Mi alzo dalla poltrona, così da far circolare un po’ di aria tra le chiappe. Mi avvicino a Rossella. “Stai andando bene”.
“Non penso, non sto dando risposte”.
La guardo intenerito. “Quelle le dovrà dare la Polizia, lo prenderanno quel bastardo prima o poi”.
Lei mi fissa con quegli occhi incredibili da cerbiatta impaurita. “Speriamo”.
Le sfioro i capelli, poi oso un po’ e infilo l’indice in un’onda dei ricci. “Non ti preoccupare. Prima o poi farà un errore, vedrai”.
“Dieci secondi!” La voce di Roberta, di solito così bella da sentire, stavolta mi urta da morire. Allontano la mano dalla chioma profumata di Rossella e, nel voltarmi per tornare al mio posto, le sfioro una gamba. Il mio corpo sta somatizzando in un unico punto tutti questi contatti, ma stando seduto non dovrei dare troppo spettacolo.
“Non me la sento più”. La voce preoccupata di Rossella mi distrae dai miei dolci pensieri.
“Co… come sarebbe?”
“Non lo so, una sensazione.” Negli occhi le leggo dispiacere, ma anche la spasmodica ricerca di un sollievo.
“Non possiamo, siamo in diretta!”
Roberta ha assistito alla scena e interviene. “Rossella, ti prego. Dieci minuti ed è finito tutto”. L’assistente [Qui non avevo capito si trattasse sempre di Roberta, era meglio lasciarlo sottinteso il soggetto, altrimenti vien da pensare che si tratti di un personaggio diverso.]si china sopra l’ospite per tranquillizzarla, io non posso fare a meno di sbirciare la sua scollatura. Non me ne vanto in giro, ma se penso a quel paio di volte che quelle tette le ho avute tra le mani mi vengono ancora i brividi.
Giù sotto intanto c’è più vita che mai: spero solo che passi prima della fine della puntata, anche se con due donne così belle davanti a me non è proprio facile lavorare.
Roberta alza lo sguardo e incrocia il mio. Vedo i suoi occhi oscurarsi per un istante. Poi torna in sala regia.
Il secondo blocco è filato liscio, non so cosa Roberta abbia sussurrato a Rossella, ma la donna ora appare molto più a suo agio. Dal canto mio ho pensato bene di dedicare qualche minuto della pubblicità al mio… ehm… benessere fisiologico. Lavo le mani con aria distratta e torno verso la postazione. Rossella ha il telefono in mano, il viso paonazzo.
Mi guarda con il fuoco negli occhi. “Tu! Puttana Eva. Sei tu!”
Io cado dalle nuvole. “Io cosa?”
“Perfino qua hai scritto le tue cazzate, merda che non sei altro!”
La guardo sbigottito. “Ma che cazzo stai dicendo, Rossella?” [Qui non avrei usato "cazzo" dato che poco dopo usi un'espresione simile (Rossella, ma che cazzo dici!) e renderesti meglio l'escalation il suo sbigottimento iniziale.]
Lei non sembra ascoltarmi. Sta leggendo qualcosa. “Attenta a quello che dici, puttana. Sarò vecchio, ma non perdono!” [Qui ci ho messo un bel po' a capire chi parlasse. In prima lettura pensavo il protagonista, ma ora mi sa che è la donna che legge un messaggio sul cellulare.]
Strabuzzo gli occhi, non capisco dove vuole arrivare.
Lei urla “Aiuto, polizia!” e in una frazione di secondo finalmente capisco. Vecchio. Crede che sia io. [Solo perché anche lui è vecchio? un po' esagerato il collegamento]
“Rossella, ma che cazzo dici! Ci conosciamo da mesi”.
Lei è fuori di sé dalla rabbia. “Sei un pezzo di merda!”
Dietro di lei due agenti entrano nello studio, vengono verso di me.
Mi volto verso la sala saia. “Roberta, fa’ qualcosa!”
La ragazza sorride.
Commento:
Un bel colpo di scena, anche io ero convinto fosse il protagonista lo stalker!
Comunque, per quanto sia un racconto che scorre senza problemi fino alla fine, mi sono rimasti diversi dubbi, in particolare sul ruolo di Roberta. E' stata lei a incastrarlo? Era lei la stalker?
Poi c'è la questione dei poliziotti che spuntano dal nulla, ma anche la pubblicità che sembra durare una manciata di secondi (quando era stato anticipato da un pensiero del protagonista che sarebbe durata a lungo).
Per concludere, direi una buona prova. In particolare per il modo in cui hai delineato un personaggio negativo, ma comunque credibile.
IL reduce, Agostino Langellotti
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Ciao Pretorian, che piacere leggerti!
Il reduce
- Capolinea!
La frenata mi strattona. La punta della gruccia scivola. Stringo la presa sulla sbarra, saltellando sull’unica gamba per mantenere l’equilibrio. Qualcuno ride alla mia sinistra. Mi volto: trovo solo espressioni indifferenti. [Qui ci poteva stare bene un fraseggio interiore]Le porte si aprono. Nello scendere, qualcuno mi urta, ma nessuno si ferma a chiedere scusa. [o qui]Incespico vero l’autista. Lui mi guarda. Ha una smorfia sul volto mal rasato.
- Sei sordo? Questo è il capolinea: spicciati a scendere che devo rientrare.
- Potrebbe portarmi in Via Oberdan? È un paio di isolati più avanti: per lei non è niente, ma per me…
L’autista muove lo sguardo dal vuoto sotto il mio ginocchio sinistro alla gruccia e alle medaglie sulla giubba dell’uniforme. L’espressione non cambia.
- Ti ho detto che devi scendere! – agita il pugno massiccio in direzione della porta. – Che ti credi? Ho fatto la guerra anch’io, ma mica rompo i coglioni.
Abbasso lo sguardo ed esco dal filobus.
Sospiro e riprendo a camminare. Un passo alla volta. Uno spostamento di gruccia alla volta. Sudo sotto l’uniforme. Il marciapiede è dissestato ed evitare le buche mi costa fatica.
Mi fermo a prendere fiato e mi guardo attorno: operai vanno e vengono dagli edifici in ricostruzione. Si urlano l’un l’altro con accenti così strani che non sembra nemmeno che parlino italiano. I palazzi in cui lavorano sono ancora sfregiati dai bombardamenti. Dove non sono racchiusi dai cantieri, si vedono i crateri delle bombe, gli squarci i crolli. Sono storpi e barcollanti, come me, ma loro possono essere ancora rimessi in piedi. [Qui arriva il primo pensiero del protagonista. Tutta la parte prima è sicuramente vivida e ben scritta, ma ne avrei approfittato per inserire meglio l'interiorità del personaggio e renderla più personale]
Tossisco e riprendo a camminare.
Via Oberdan 51 è un cumulo di macerie. Tre piani di ricordi ridotti a niente. Briciole di quella che è stata la mia vita prima del fronte.
Altri operai si muovono sulle rovine. Il capocantiere li dirige masticando bestemmie. Accanto a lui, un uomo in giacca e cravatta con una planimetria tra le mani.
Mi trascino fino a lui. Appoggio la mano tremante sulla spalla.
- Mi… mi scusi…. Mi sa dire cos’è successo qui?
L’uomo elegante e il capocantiere si voltano. Quest’ultimo stringe i pugni e gonfia il petto, ma l’altro lo ferma con un gesto.
- Una bomba degli americani… o forse degli inglesi. Il palazzo era vecchio e non ha retto.
- Io e mia madre abitavamo qui… sa dirmi dove posso trovarla? Si chiama Bianca Picone.
L’uomo si morde un labbro. Si guarda attorno. Il suo sguardo si sofferma su qualcuno alle mie spalle.
- Chieda a mia moglie: lei saprà cosa rispondere! – arrossisce e abbassa il tono della voce. – Voglio dire… suo padre era il proprietario dell’immobile: magari lei saprà dirle qualcosa.
Mi volto. Una giovane donna è appena scesa da un’auto. È vestita con un abito rosso, un cappello bianco a larghe falde e scarpe con tacchi a spillo. Un punto colorato in un mondo di macerie.
- Rosa…
- Ernesto?
Mi muovo verso di lei. La gruccia scivola su una buca. Impreco, ma riesco a restare in piedi. Faccio un altro passo Lei si fa indietro. I suoi occhi sono fissi sul moncherino della gamba.
- Cosa… cosa diavolo ci fai qui?
- Sono tornato a casa! Sono tornato da te! – cerco di afferrarla, ma lei fa un passo indietro. – Non sei contenta di vedermi?
[Qui ci voleva una pausa. Avresti potuto descrivere le mozioni che si alternano sul viso della donna prima di dire qualcosa di così difficile]- Due anni fa sarei stata felice. Forse anche un anno fa, ma adesso… - incrocia le braccia. Piega la bocca in una smorfia. – Ora sono sposata e sono felice.
[Una reazione emotiva alle sue parole ci sarebbe stata bene] - Ma io ti amo! Non ricordi cosa ci eravamo promessi prima che partissi per la Russia?
La smorfia della sua bocca si accentua. Il labbro trema, scoprendo i denti.
- Ricordare fa soffrire e io… io sono stanca di soffrire – alza il volto. I suoi occhi incrociano i miei, ma non li riconosco. – Mi dispiace, Ernesto, ma devi andartene. Non c’è più niente qui per te.
- Rosa… Rosa io… - qualcuno mi afferra per le spalle: il massiccio capocantiere mi solleva tenendomi per la giacca dell’uniforme. Mi preme la gruccia contro il corpo, impedendomi di usarla. Accanto a lui, l’uomo elegante muove lo sguardo da me a Rosa,
- Tutto bene, cara? Hai idea di chi sia questo tipo? – volta lo sguardo verso il capomastro. – Toglimelo di torno, Sandro, ma vedi di non esagerare: non voglio rogne con i reduci.
L’uomo annuisce e mi trascina via. Mi volto: Rosa sta abbracciando suo marito senza degnarmi di uno sguardo.
- Non è nessuno, caro: sono qualcuno che avrebbe fatto meglio a restare morto.
di Agostino Langellotti
Commento:
Stile di scrittura ineccepibile. Il linguaggio è asciutto e pulito, e c'è una buona attenzione ai dettagli sensoriali e il contesto storico.
Purtroppo hai scelto di privare il protagonista di qualsiasi interiorità. Così da farlo risultare piatto e semplicemente in balia degli eventi, che passa da una vicenda all'altra come spettatore piuttosto che protagonista della storia.
Non so se era tua intenzione creare un personaggio così asettico, perché - quando rivede Rosa - sembra animarsi, almeno esternamente. Perché allora ciò non si rispecchia nella sua interiorità?
Comunque, anche senza un protagonista trainante, sono riuscito a godere dei punti forti del racconto, l'ambientazione in particolare.
Alla prossima!
Alexandra Fisher, Insonnia
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Ciao Alexandra!
Testo difficile da leggere e da comprendere. A me piace scellervellarmi su storie complesse: cercare semine, indizi e particolari nascosti. Ma scervellarsi solo per il gusto di farlo, meno.
Sono gusti, naturalmente, ma dal tuo testo ho solo potuto estrapolare una forte sensazione di confusione.
Non escludo che questa sensazione sia riconducibile all'esperienza dell'insonnia, e che tu sia riuscita nell'obiettivo che ti eri posta;
ma, come ho detto, opere del genere non incontrano proprio i mie gusti. Mi spiace :(
Comunque hai fatto bene a provare qualcosa di nuovo e son contento di vedere che altri lo hanno apprezzato!
Alla prossima!
Giulio Marchese, la medicina
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Ciao Giulio!
Allora, il brano in generale ricorda più l'incipit di un romanzo per target middle grade che un vero e proprio racconto. Il finale, comunque, lascia abbastanza soddisfatti e crea una prospettiva di conflitto molto forte.
Ci sono diversi problemi a livello di stile, flusso informativo e diverse altre cosette. C'è da lavorare insomma. ma, tutto sommato, la lettura è stata piuttosto piacevole.
Alla prossima!
Maurizio Chierchia, la prima fiamma
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Ciao Maurizio!
Racconto quantomeno atipico. Prima persona plurare e completamente in raccontato.
Non dico che era impossibile fare un buon lavoro, ma sarei stato davvero colpito fosse uscito qualcosa di ottimo con queste premesse xD
Purtroppo, oltre alle descrizioni (che non sono malaccio), pollice in giù per tutto il resto. Il brano mi ha annoiato e non mi ha lasciato davvero nulla.
Peccato perché l'esperimento poteva essere interessante.
Spero di rileggerti presto con qualcosa di diverso!