Cliché
Inviato: lunedì 19 settembre 2022, 23:33
Cliché
di Stefano Floccari
Con un orrendo gesto plateale indico Umberto, fermo sull’assito, lo sguardo perso.
“Tu! Sei stato tu!” Nella pessima acustica della sala la mia voce è un tuono attutito. “Come hai potuto?”
Umberto fissa il buio, sembra distratto.
Provo a incalzarlo. “Adalgiso! Come hai potuto?”
Lui gira la testa verso di me, mi guarda, sembra riprendersi. “Proprio tu mi vieni a fare la predica, Guidalberto?” Ha saltato una linea, il cane. Pazienza.
“Non me lo sarei mai aspettato da te”. Piego gli angoli della bocca verso il basso a mostrare il mio disgusto. Per quel vigliacco di Adalgiso. Per quel drogato di Umberto. Per questa merda che dobbiamo recitare.
Lui mi guarda confuso. Tace. Bofonchio un “Dai, cazzo!”
Sospira, ha gli occhi tristi. Allunga un braccio, sfiora il mio: quasi un gesto di affetto. “Perdonami.” Poi raggiunge le quinte con tre passi lunghi quanto questi secondi di imbarazzo.
Diego capisce che qualcosa non va. “Sipario!” Agita la cartelletta col copione. “Svelti, cazzo!”
Qualcuno applaude. Boh, magari vista da fuori ‘sta cosa patetica sta pure in piedi.
Mi siedo al fianco di Umberto. “Che succede? Che è ‘sta storia?”
“È In prima fila”. Sta rispondendo a me, ma parla con nessuno. “L’ho visto.”
“Chi hai visto?” Gli appoggio la mano sul ginocchio.
Gira la testa verso di me. “Quello stronzo!” Gli occhi sono spalancati dal terrore.
“Lo stronzo?” Strizzo gli occhi, dubbioso. “Quello a cui devi mille euro?”
“Non sono mille.”
“Quelli che sono, su”. Provo a sdrammatizzare. “Magari gli piace come reciti”.
“Piantala!” Mi guarda inorridito, poi torna a fissare un punto davanti a lui. “Cazzo. Cazzo. Cazzo!” La voce sempre più acuta, un misolidio di disperazione.
Il siparietto osceno viene interrotto da una santa mano che bussa. “Ohi, cagacazzi, trenta secondi. Sbrigatevi!”
Umberto appoggia la sua mano sulla mia. “Sono fottuto.” Abbassa la testa. “Fottuto”.
“Non farla tragica, su: finiamo ‘sta porcata e poi risolviamo la cosa. Ti aiuto io”. Ci credo poco, ma mi costa niente dirlo.
“Tu non capisci. Quello mi ammazza”.
“No: è Diego che ci ammazza. Tutti e due, se non ci sbrighiamo!”
Il sipario ha compiuto la sua ultima, agonizzante risalita e Adalgiso e Guidalberto stanno recitando le loro linee mediocri senza troppa convinzione. Il pubblico sembra comunque apprezzare. Va be’, è scritta coi piedi, ma tutto sommato la vicenda è appassionante, la classica storia dei due amici che per colpa di una ragazza mandano tutto a puttane e insomma: siamo all’ultimo atto, quello in cui gli spettatori, che sanno che Guidalberto nasconde una pistola nella credenza, si aspettano che noi teatranti diamo il necessario credito a Čechov; e infatti non li deludo: finisco di sciorinare una serie di epiteti poco eleganti e ancor meno ispirati e poi, fingendo – male – una furia irresistibile, apro l’anta. Afferro la pistola, la punto verso Adalgiso e non faccio nemmeno in tempo a rendermi conto che quella che ho in mano non è l’arma di scena che un boato tremendo squarcia la pessima acustica della sala.
di Stefano Floccari
Con un orrendo gesto plateale indico Umberto, fermo sull’assito, lo sguardo perso.
“Tu! Sei stato tu!” Nella pessima acustica della sala la mia voce è un tuono attutito. “Come hai potuto?”
Umberto fissa il buio, sembra distratto.
Provo a incalzarlo. “Adalgiso! Come hai potuto?”
Lui gira la testa verso di me, mi guarda, sembra riprendersi. “Proprio tu mi vieni a fare la predica, Guidalberto?” Ha saltato una linea, il cane. Pazienza.
“Non me lo sarei mai aspettato da te”. Piego gli angoli della bocca verso il basso a mostrare il mio disgusto. Per quel vigliacco di Adalgiso. Per quel drogato di Umberto. Per questa merda che dobbiamo recitare.
Lui mi guarda confuso. Tace. Bofonchio un “Dai, cazzo!”
Sospira, ha gli occhi tristi. Allunga un braccio, sfiora il mio: quasi un gesto di affetto. “Perdonami.” Poi raggiunge le quinte con tre passi lunghi quanto questi secondi di imbarazzo.
Diego capisce che qualcosa non va. “Sipario!” Agita la cartelletta col copione. “Svelti, cazzo!”
Qualcuno applaude. Boh, magari vista da fuori ‘sta cosa patetica sta pure in piedi.
Mi siedo al fianco di Umberto. “Che succede? Che è ‘sta storia?”
“È In prima fila”. Sta rispondendo a me, ma parla con nessuno. “L’ho visto.”
“Chi hai visto?” Gli appoggio la mano sul ginocchio.
Gira la testa verso di me. “Quello stronzo!” Gli occhi sono spalancati dal terrore.
“Lo stronzo?” Strizzo gli occhi, dubbioso. “Quello a cui devi mille euro?”
“Non sono mille.”
“Quelli che sono, su”. Provo a sdrammatizzare. “Magari gli piace come reciti”.
“Piantala!” Mi guarda inorridito, poi torna a fissare un punto davanti a lui. “Cazzo. Cazzo. Cazzo!” La voce sempre più acuta, un misolidio di disperazione.
Il siparietto osceno viene interrotto da una santa mano che bussa. “Ohi, cagacazzi, trenta secondi. Sbrigatevi!”
Umberto appoggia la sua mano sulla mia. “Sono fottuto.” Abbassa la testa. “Fottuto”.
“Non farla tragica, su: finiamo ‘sta porcata e poi risolviamo la cosa. Ti aiuto io”. Ci credo poco, ma mi costa niente dirlo.
“Tu non capisci. Quello mi ammazza”.
“No: è Diego che ci ammazza. Tutti e due, se non ci sbrighiamo!”
Il sipario ha compiuto la sua ultima, agonizzante risalita e Adalgiso e Guidalberto stanno recitando le loro linee mediocri senza troppa convinzione. Il pubblico sembra comunque apprezzare. Va be’, è scritta coi piedi, ma tutto sommato la vicenda è appassionante, la classica storia dei due amici che per colpa di una ragazza mandano tutto a puttane e insomma: siamo all’ultimo atto, quello in cui gli spettatori, che sanno che Guidalberto nasconde una pistola nella credenza, si aspettano che noi teatranti diamo il necessario credito a Čechov; e infatti non li deludo: finisco di sciorinare una serie di epiteti poco eleganti e ancor meno ispirati e poi, fingendo – male – una furia irresistibile, apro l’anta. Afferro la pistola, la punto verso Adalgiso e non faccio nemmeno in tempo a rendermi conto che quella che ho in mano non è l’arma di scena che un boato tremendo squarcia la pessima acustica della sala.