Sara Passannanti - L'odore
Inviato: martedì 22 novembre 2022, 0:20
L'odore
Il primo fu il lievito madre che sua zia aveva conservato al buio della credenza. Anita aveva aperto lo stipo per prendere una tazza e aveva sentito un odore che non aveva riconosciuto. C'era qualcosa di dolce, che sembrava l'odore dei telai che lo zio teneva in magazzino e da cui ogni tanto staccava un pezzetto di cera per darglielo da masticare. E però aveva sentito anche una nota pungente, che le pizzicava il naso e che all'inizio la spaventò, tanto che Anita richiuse in fretta lo sportello della credenza. Aveva l'impressione di aver toccato qualcosa di sporco e si sentiva quell'odore appiccicato come una colpa. Provò a distrarsi uscendo un po' in giardino, ma più cercava di guardare altro, più il suo pensiero tornava a quell'odore, che adesso nella sua memoria sembrava più simile all'odore della pioggia che sbatteva sulla ringhiera del balcone. Tornò dentro e riaprì l'armadietto per cercare di nuovo con il naso quella sensazione. Avvicinò la sedia alla credenza e salì con i piedi sulla seduta di paglia intrecciata, scostò il barattolo del miele per respirare direttamente con il naso sopra la garza che chiudeva il vaso del lievito. Era così concentrata che quando sentì i passi della zia scendere le scale per venire in cucina ebbe un sobbalzo e per poco non stava per cadere dalla sedia. Chiuse in fretta l'armadietto e saltò giù, con le tempie che pulsavano.
La seconda volta fu di nuovo a casa della zia. Giuliano stava contando con la fronte nascosta dietro il pilastro della sala da pranzo e lei si era andata a nascondere nell'armadio invernale della zia. La pelliccia era coperta da una busta di cellophane, ma Anita poteva spostarla senza fare rumore e infilarci la mano dentro. Le piaceva, quando la zia arrivava d'inverno, toccarle quella pelliccia con la mano e lisciare il pelo ora in un verso ora nell'altro, e guardare come cambiava colore. Ma adesso, senza il profumo della zia e senza la consistenza del suo corpo dentro, nel buio dell'armadio ad Anita sembrò di toccare una bestia enorme e molle. Anita si mosse dentro l'armadio, la gruccia alla quale era appesa la pelliccia si sganciò e il capo le scivolò addosso, soffocandola con il suo odore acre, che anche stavolta emergeva a pungerle il naso nonostante i sacchetti di lavanda e canfora nelle tasche della giacca. Anita si sentì come se a caderle addosso fosse la morte, e provò di nuovo un sottile piacere, e fu questo a spaventarla e a farla uscire fuori dall'armadio urlando. Giuliano la vide dalla soglia, ma non entrò.
La casa non era sempre stata della zia. Gli zii e Giuliano erano andati a viverci dopo la morte della nonna. Della nonna Anita ricordava poco, un mazzolino di garofani sul comodino e una gonna lunga, di lana cotta, che pungeva. Ma quando la nonna era morta ed erano andati a trovarla, stesa sul letto, sul comodino vicino alle candele nessuno aveva pensato di cambiare l'acqua ai garofani e, per non guardare il corpo sdraiato e severo, Anita si era concentrata sulla patina che si stava formando nel vaso e su un moscerino che galleggiava su di essa. L'odore dell'acqua sapeva di stagno, ma ogni tanto, quando la fiamma delle candele tremolava perché entrava qualcuno a portare le sue condoglianze, allora dal vaso si levava ancora un po' del profumo dei garofani, che ormai era sempre più lieve. Anita si era sforzata di aggrapparsi a quel soffiare leggero e caldo, che provava a separare dal resto, come se lo distillasse nel caldo umido della stanza. Si era addormentata e, nel sonno, non era più riuscita a tenere separati gli odori. Questi si erano mescolati e, per gli anni successivi, erano rimasti impressi nella memoria di Anita come se venissero su dalla gonna di lana cotta.
Le susine troppo mature cadute per terra sotto l’albero, la carcassa di un cardellino, il pus sul ginocchio dopo una caduta in bicicletta. L’estate diventò la stagione preferita di Anita, che cresceva e imparava a catalogare gli odori, inalandoli avidamente. Si lasciava guidare da un olfatto sempre più fine verso angoli nascosti e umidi, e poi si abbandonava a un piacere furtivo per il quale lei stessa, dopo, si disprezzava. D’inverno erano il mercato dopo la chiusura, il museo di storia naturale, la biancheria umida, le patate dimenticate nella cesta. Se stava facendo qualcosa di male, a chi nuoceva? Eppure, Anita sapeva di non poter dire a nessuno cosa sentiva nella pancia quando il sabato mattina passava dal fioraio per comprare i garofani. Lui le sorrideva e lei andava via, pregustando il momento in cui avrebbe buttato via l’acqua del vaso, il sabato successivo.
Quando la morte venne a prendersela, Anita la riconobbe subito e si sentì confortata dal suo profumo, che a lungo aveva cercato di rubare e isolare dagli odori del mondo. Vi si immerse, e in quell’odore trovò finalmente il suo posto.
Il primo fu il lievito madre che sua zia aveva conservato al buio della credenza. Anita aveva aperto lo stipo per prendere una tazza e aveva sentito un odore che non aveva riconosciuto. C'era qualcosa di dolce, che sembrava l'odore dei telai che lo zio teneva in magazzino e da cui ogni tanto staccava un pezzetto di cera per darglielo da masticare. E però aveva sentito anche una nota pungente, che le pizzicava il naso e che all'inizio la spaventò, tanto che Anita richiuse in fretta lo sportello della credenza. Aveva l'impressione di aver toccato qualcosa di sporco e si sentiva quell'odore appiccicato come una colpa. Provò a distrarsi uscendo un po' in giardino, ma più cercava di guardare altro, più il suo pensiero tornava a quell'odore, che adesso nella sua memoria sembrava più simile all'odore della pioggia che sbatteva sulla ringhiera del balcone. Tornò dentro e riaprì l'armadietto per cercare di nuovo con il naso quella sensazione. Avvicinò la sedia alla credenza e salì con i piedi sulla seduta di paglia intrecciata, scostò il barattolo del miele per respirare direttamente con il naso sopra la garza che chiudeva il vaso del lievito. Era così concentrata che quando sentì i passi della zia scendere le scale per venire in cucina ebbe un sobbalzo e per poco non stava per cadere dalla sedia. Chiuse in fretta l'armadietto e saltò giù, con le tempie che pulsavano.
La seconda volta fu di nuovo a casa della zia. Giuliano stava contando con la fronte nascosta dietro il pilastro della sala da pranzo e lei si era andata a nascondere nell'armadio invernale della zia. La pelliccia era coperta da una busta di cellophane, ma Anita poteva spostarla senza fare rumore e infilarci la mano dentro. Le piaceva, quando la zia arrivava d'inverno, toccarle quella pelliccia con la mano e lisciare il pelo ora in un verso ora nell'altro, e guardare come cambiava colore. Ma adesso, senza il profumo della zia e senza la consistenza del suo corpo dentro, nel buio dell'armadio ad Anita sembrò di toccare una bestia enorme e molle. Anita si mosse dentro l'armadio, la gruccia alla quale era appesa la pelliccia si sganciò e il capo le scivolò addosso, soffocandola con il suo odore acre, che anche stavolta emergeva a pungerle il naso nonostante i sacchetti di lavanda e canfora nelle tasche della giacca. Anita si sentì come se a caderle addosso fosse la morte, e provò di nuovo un sottile piacere, e fu questo a spaventarla e a farla uscire fuori dall'armadio urlando. Giuliano la vide dalla soglia, ma non entrò.
La casa non era sempre stata della zia. Gli zii e Giuliano erano andati a viverci dopo la morte della nonna. Della nonna Anita ricordava poco, un mazzolino di garofani sul comodino e una gonna lunga, di lana cotta, che pungeva. Ma quando la nonna era morta ed erano andati a trovarla, stesa sul letto, sul comodino vicino alle candele nessuno aveva pensato di cambiare l'acqua ai garofani e, per non guardare il corpo sdraiato e severo, Anita si era concentrata sulla patina che si stava formando nel vaso e su un moscerino che galleggiava su di essa. L'odore dell'acqua sapeva di stagno, ma ogni tanto, quando la fiamma delle candele tremolava perché entrava qualcuno a portare le sue condoglianze, allora dal vaso si levava ancora un po' del profumo dei garofani, che ormai era sempre più lieve. Anita si era sforzata di aggrapparsi a quel soffiare leggero e caldo, che provava a separare dal resto, come se lo distillasse nel caldo umido della stanza. Si era addormentata e, nel sonno, non era più riuscita a tenere separati gli odori. Questi si erano mescolati e, per gli anni successivi, erano rimasti impressi nella memoria di Anita come se venissero su dalla gonna di lana cotta.
Le susine troppo mature cadute per terra sotto l’albero, la carcassa di un cardellino, il pus sul ginocchio dopo una caduta in bicicletta. L’estate diventò la stagione preferita di Anita, che cresceva e imparava a catalogare gli odori, inalandoli avidamente. Si lasciava guidare da un olfatto sempre più fine verso angoli nascosti e umidi, e poi si abbandonava a un piacere furtivo per il quale lei stessa, dopo, si disprezzava. D’inverno erano il mercato dopo la chiusura, il museo di storia naturale, la biancheria umida, le patate dimenticate nella cesta. Se stava facendo qualcosa di male, a chi nuoceva? Eppure, Anita sapeva di non poter dire a nessuno cosa sentiva nella pancia quando il sabato mattina passava dal fioraio per comprare i garofani. Lui le sorrideva e lei andava via, pregustando il momento in cui avrebbe buttato via l’acqua del vaso, il sabato successivo.
Quando la morte venne a prendersela, Anita la riconobbe subito e si sentì confortata dal suo profumo, che a lungo aveva cercato di rubare e isolare dagli odori del mondo. Vi si immerse, e in quell’odore trovò finalmente il suo posto.