La fabbrica di sguardi — Giovanni Attanasio
Inviato: martedì 13 dicembre 2022, 13:09
La fabbrica di sguardi
di Giovanni Attanasio
Le spio tutte, da una fessurina della porta. È da qualche settimana che le donne lavorano alla fabbrica. Questo ho potuto appurare. È da oggi, invece, che avrò il compito di istruirle. Perché mi sia stato dato questo compito è una domanda che non devo pormi: il Dirigente ha deciso, il Partito ha avallato. Così è per me. Se così è per me, dovrò abituarmi e non protestare.
«Gloria!» Saluto.
«Eterna!» Rispondono.
Entro nella nuova officina, il largo spazio adesso è adibito a produzione e stoccaggio di telai per infissi. Le donne, mi è stato detto all’assemblea mattutina di noi capi di settore, saranno coloro che utilizzeranno le macchine; noi uomini— loro uomini, perché io adesso sono stanziato altrove— ci occupiamo di lavori di precisione. Le donne— così è stato detto dal Partito e così ripeto io— sono perfette, questo per via della loro indole, a svolgere operazioni ripetitive con torni e trapani e sono pertanto da ritenersi scelta ottimale in termini di costi e produttività. Il Partito, Gloria!, ha bisogno di risparmiare e stanziare i soldi alla ricostruzione. Gloria! Siamo stati calunniati e offesi, ma ci riprenderemo.
Le donne di fronte a me, vestite come madri e sorelle, di stoffe lanuginose e scure, sfilacciate, di giacche e di gonnelle alla caviglia, assemblano e rivettano. Le donne, tutte, come vuole il Partito, eseguono le istruzioni per cui sono state arruolate. Le donne— queste, almeno, perché non tutte possono godere della gioia di lavorare in fabbrica per il Partito— parlano pochissimo tra loro, e mi è stato riferito, sono stato invero istruito, a tenerle d’occhio. Ma io gradisco che parlino almeno un po’ per intervallare il monotono e cigolante— ma piacevole, nelle giuste circostanze— rumoreggiare delle macchine, della pressione idraulica, delle scintille sul pavimento, degli sbuffi di vapore che di poco— giusto di un filo, Gloria!— sollevano le gonne: indossano calzettoni slabbrati, osceni, da vecchia; la moda delle altre nazioni non ci appartiene. Giusto così, giustissimo. Gloria. Le donne del partito hanno decoro. Madre, a casa, tu hai decoro più di tutte. Lo hai trasmesso a noi figli e figlie.
C’è uno stridere curioso che pare di lamiera smerigliata e un po’ di topolini in soffitta. Nell’alzare il capo, allontanandolo dal giornale della Gloriosa, noto subito che quel suono è una risata. Devo dunque riporre il giornale, piegare la carta come mi è stato insegnato, impettirmi e rimproverarle.
Raggiungo la postazione della donna ridente— la terza fila di macchinari, un bancone dove va applicato, via pressa, il marchio del Partito sui telai— e mi premuro di redarguirla con uno sguardo. Ma sono incapace, indegno del mio ruolo. Ruolo che, il Partito e il Dirigente non me ne vogliano, mi rendo conto di non poter ricoprire. La donna, infatti, che ha il crine giallo scuro come l’olio di ricambio del tornio a torre, perdura nel suo sogghignare.
«Mi dica, signore. Sto in qualche modo sbagliando l’operazione?» La donna mi interpella. Ha voce. Gloria! che voce. «Signore? Vuole forse mettermi in imbarazzo scrutandomi in silenzio?»
«No.»
«No, no. Certo.» Aggiusta il pezzo, tira la leva, imprime il marchio. Ha le unghie tutte intatte, nessun callo. Novizia. Indegna. «Cosa, dunque, signore?»
«Non rida più.»
È il momento del pranzo, momento in cui posso rivedere i vecchi compagni, quelli con cui ho diviso camere e sudore, giochi e scherzi. Giochi a cui invero per timidezza non ho spesso partecipato. Sia mai, pensavo, che il Partito lo scoprisse. Donne e uomini devono avere decoro.
«Gloria!» Mi interpellano.
«Eterna.» Rispondo, affiancandomi. Prendo posto al banco. Mangiamo.
«Carissimo, sembri avvilito.»
Un altro si siede di fianco. «Ti fanno sedere qui, con noi?»
E ridono. Di me. La risata pubblica dev’essere stata introdotta di recente, perché nel regolamento del Partito e della fabbrica che ho letto io, di certo, non ne viene fatta menzione!
«Ah, oh!» Una voce di donna ammutolisce il nostro tavolo. «Signore, allora è qui che siete!» La donna ridente mi perseguita.
Mi alzo dal tavolo. «Sciocca, non vedi dove siamo?»
«È una mensa. Certo, non mi aspettavo fossero così gran—»
«Uomini e donne non si parlano, se non negli spazi prefissati. È chiaro?»
«Perché mai?»
Tutti mi fissano, gli altri colleghi e gli uomini che, ne sono certo, stanno decidendo se consegnarmi direttamente alle autorità per aver aperto bocca, anziché ignorare la palese provocazione a me rivolta.
«Signore?»
«Arrivederci.»
Dalle dodici e trenta alle tredici potrò socializzare in libertà. Lei però è lì. La vedo, isolata dalle altre. La posso vedere attraverso un’apertura tra le spalle dei miei colleghi, che mi circondano. E la vedo, di nuovo, a camminare nella mia direzione.
«Signore!»
«Non hai un minimo di riserbo, tu?»
«Altroché, sapesse mio padre quanto ha insistito che venissi cresciuta tutta timidina e riservata…»
«Ebbene?»
«Ebbene?» Piega di lato il capo, quei suoi occhi giganteschi sono più brillanti delle punte nuovissime installate al trapano verticale. Altrettanto penetranti, invero. «Signore, lei ha questa bizzarra abitudine, hm? Di interrompersi. E guardare.»
«Falso.» Gloria! mi giudicano tutti. Eppure, se ben ricordo, tra le dodici e trenta e le tredici è possibile socializzare con chi si vuole. Non che uomini e donne interagiscano spesso— indecoroso, se non durante la serata del cinematografo— e difatti questa ridente fanciulla ignora bellamente ciò che la circonda; che colga i segnali, Gloria!, che si renda conto della sua stranezza nel rivolgermi la parola.
Suona la campana. Le tredici.
«Signore, dove—»
«Al lavoro. Immediatamente.»
La ridente creatura— che a un primo calcolo ha l’età della mia sorella derelitta, ma non più di un terzo del decoro— va col nome di Ute. Nome non di qui, poco ma sicuro, ma molto vicino. Qualcuna, forse la dottoressa illustre che si occupò del caso dell’amata sorella, si chiamava Ute.
Innegabile, e invero fastidioso, che questa donna, Ute, sempre ridente, mi turbi. L’occhio, che vorrei tenere occupato tra le righe del giornale che elogia il glorioso Partito, è attratto dalla forma a mezzaluna di quel sorriso, una forma così perfetta che né io né altri colleghi della fabbrica saremmo capaci di replicare coi macchinari. E mi perdoni il Partito se lo penso, ma devo convenire con chi dice che la Natura ha tra le mani il più preciso e fine dei calibri e un senso dell’estetica che sfugge agli architetti. Gloria! Gloria, sempre. Noi uomini, certamente, verissimo, siamo artefici e costruttori. Gloria! Che quel sorriso perisca, per quanto mi riguarda.
Ho munito il mio giornale— invero munisco ogni giornale da una certa mattina a questa parte— di un forellino, di millimetraggio irrisorio, con finalità di controllo e sorveglianza delle donne operaie. Posso, in questo modo, spiarle tenendo il giornale ben alto e fingendo disinteresse. E loro, pure le più remissive, allora si distendono e ridono, talvolta si dimenticano del loro compito— glorioso compito invero!— pur di chiacchierare di chissà che mondanità. No. Folle. Nessuna mondanità. Società di uomini e donne rigorosi. Ecco cosa siamo. I pazzi— ahimè, sorella amata, mi vieni tu alla mente— sono cosa disdegnata.
Dunque la sorveglio. Le sorveglio. Sorveglio loro tutte. Ma lei è giorno dopo giorno sempre più radiosa, il suo volto attraverso il foro m’abbaglia più dei fari che, nelle notti di tempesta, guidano i nostri passi ai dormitori.
La signorina Ute oggi è in pena. È distratta. Il buchino nel mio giornale— di millimetraggio adesso rilevante— restituisce solo in parte quel suo dolore. Mi turba. Gloria! ma cosa vado a pensare?
«Signore!» È un grido, di donna.
Lascio il giornale e cammino tra loro. «Cosa?»
«Signore, qui, la povera Ute!»
La signorina Ute, beatissima nel sonno, è distesa per terra. Gocce di sudore sul suo volto, su cui i fumi di sfogo delle valvole e le lampade a incandescenza si riflettono.
«Spostatevi tutte e fatele aria!»
«Ma signor—»
«Aria, dico io!»
E tutte si spostano. Io, solo io, mi chino su di lei per tergerle il sudore dalla fronte. La creatura respira. La sollevo, pongo l’attenzione necessaria a non toccarla in aree che sarebbero pertinenza— devo supporre— d’un eventuale marito. Così issata, lei riapre appena gli occhi.
«Ah, è lei, signore...»
«Che ti è accaduto?»
«Un mancamento, signore. Capita. Mensilmente. Puntuale.»
«Con cadenza tanto esatta? Gloria! Di che malanno si tratta?»
Lei, però, la signorina Ute vestita degli occhi di tutti noi che l’adorniamo di curiosità, si limita a un sorriso dei suoi, giusto un filo più malinconico. «Signore, facevo di lei una persona istruita, sempre lì col giornale in mano e qualche libro sottobraccio. Eppure ignora, giusto? Ignora la condizione di noi donne.»
«Gloria! Come avrei potu— non sono certo affari miei!»
«Portatemi in infermeria, signore.»
«Non posso mettervi piede, dovrò delegare.»
«Vuole lasciarmi appassire? Ne soffro molto, signore, di questo male.»
Il Partito, Gloria!, grida di metter la vita di compagni e compagne davanti alla propria. Lei ne appassisce, ne muore, questo ha detto. Questo ho sentito.
Mi giustificherò, altroché, per aver varcato la soglia dell’area femminile— magazzino presto adibito a dormitorio; lavoro impeccabile, se posso dire— e aver condotto la mia sottoposta, tale signorina Ute, in infermeria. Mi giustificherò con queste parole, poiché nessuna direttiva è stata violata, nessun torto è stato fatto, nessun crimine è stato commesso. Sono, lo ripeterò se serve, un sano cittadino e fedele del Partito; di mente sana, di corpo sano, di sani ideali.
Devo ripeterlo, devo davvero, dovrò invero ripeterlo cento volte, perché non devo convincere loro, ma me stesso. Non spiego, non so spiegarmi, quale sia stata per me altrimenti la ragione di quel mio gesto. L’averla presa, soccorsa, aver avuto il piacere— che parola pesante!— di saggiarne il corpo leggero, magro, odoroso non come quello della madre o della sorella impazzita, né del bebè che ella allatta al seno insipido e stanco, ma fresco in altro modo. Di gaiezza e giovinezza.
No. Non devo giustificarmi di questo, invero. Devo giustificarmi di essermi chinato, giusto di qualche grado, come quando regolavo il tornio, e d’aver poggiato la fronte contro la serratura della porta dell’infermeria. Il corridoio era vuoto. Allora ho guardato dentro, in quel forellino, irrilevante nel millimetraggio, ma assolutamente rilevante per il carbone asciutto nel mio petto, bisognoso d’una scintilla. Gloria! non saprei descrivere quel fuoco, quel calore forse pure superiore alla fornace. Lei, la signorina Ute, lì sul lettino e con le gambe— del tutto scoperte, quale visione!— che fremevano del tocco dell’infermiera, che asciugava e tamponava più nel profondo. Quelle sue dita dei piedi, minuscole e contratte, parevano sapere d’essere osservate e allora ogni volta che battevo le palpebre loro restavano immobili, e quando le riaprivo tornavano a muoversi così che potessi apprezzarne le minuzie, i piccoli spasmi che tendevano la carne e stiravano la pelle. Lei, la signorina Ute, che al ginocchio aveva qualche cicatrice, scivolava languida sul letto, giusto un filo, così che il mio sguardo pazzo e frenetico potesse cogliere il minuscolo accenno di peluria, di qualcosa che invero mai avevo potuto vedere né in mia madre né in mia sorella, poiché il padre mi avrebbe fustigato se mi avesse colto a spiare. Eppure avevo visto, ormai avevo visto! Gloria! Non più gloria, per me. Non più.
La signorina Ute esce dalla porta dell’infermeria. Ci sono saluti e ringraziamenti.
«Rientriamo in fabbrica.» La mia voce tentenna, espressione della mia colpevolezza. «Signorina Ute?»
«Ha guardato?»
«Cosa avrei guardato?»
Lei, di cui sino a quel momento ho sottovalutato il genio perfido, poggia un dito contro la serratura. «Guarda sempre, signore. Non è così?»
«Falso.»
Falso. Falso. Falso. Gloria!, dico che è falso! Pietà.
Alle diciotto e quaranta, a metà della pausa per socializzare dopo la doccia e prima di cena, la signorina Ute mi ingaggia. Ha i capelli umidi, la pelle liscia. Il maglioncino che di solito indossa le sta stretto, sottolinea dettagli che l’occhio di un operaio del mio calibro deve saper cogliere.
«Signore, posso dirle una cosa?»
Io nego col capo. Ma ciò non la scoraggia.
«Signore, una cosa sola.»
«Che sia breve.»
«La sera non presenzierò alle trasmissioni del Partito. Resterò in camera mia. Sola.»
«Questo non è permesso.»
«Non le pare, nemmeno un po’, che ci siano troppe poche cose permesse? Io voglio parlarle, signore, voglio che lei mi guardi. Questa fabbrica, che doveva essere una punizione, è adesso una benedizione.»
Le sue dita si muovono, lo stesso movimento di chi deve regolare la pressa idraulica. Lei, la sua pressa, l’ha regolata invero il giorno che ha messo piede in questa fabbrica. Sotto quella pressa, è innegabile ormai, ci sono io.
Di tanto in tanto, non spesso e con scuse sempre nuove, mi permetto di assentarmi dalla proiezione del messaggio serale del Partito. Mi muovo spedito, sono un minuscolo pezzo di metallo su un lungo nastro trasportatore e corro e rotolo verso quella fessura, quel foro nella serratura. Scorro e corro e rotolo e cado in quella che invero è una fornace da cui sorgerò, nella mia liquida incandescenza, per essere dalla signora Ute martellato e piallato e modellato secondo la sua volontà.
La guardo, la osservo. La serratura di camera sua dà, senza niente a ostacolarla, direttamente sul letto su cui dorme. Lei, lì distesa e in vestaglia, sembra percepire la mia presenza fuori dalla porta. Ci percepiamo, oh, eccome se questo accade. Gloria! Gloria. Gloria sussurro tra i denti e lei recita, con una mano tra le cosce, la parola Eterna. Non me ne voglia, il Partito, se abbiamo ridotto il saluto encomiabile e rigoso a tacito scambio per il nostro sollazzo privato.
Io qui, che ancora balbetto Gloria, spinto contro la porta e avvilito dalla smania, ansimo e prego di potermi presto liberare nei miei stessi pantaloni, di espellere dal corpo la foga rovente che vorrei invero versarle addosso, versarle dentro. Vorrei. Quanto vorrei.
Lei lì, che ancora balbetta Eterna. Eterna. Eterna perché eterno è il mio supplizio nel guardarla esplorarsi, toccarsi, saggiarsi, viversi, intrecciarsi e distendersi. Non so, non posso invero immaginare, se il piacere che le sento sillabare nel vuoto di quella stanza sia forte quanto quello di noi uomini, essendo io stupido e ignorante. Ma nella mia totale incapacità di comprenderla, bevo attraverso quel forellino, bevo quei suoi succhi e quel suo nettare, la sua bramosia— che invero pare così simile alla mia— che si esaurisce in pochi suoni gutturali e sbuffi felici.
Ci guardiamo. Io e lei. La fabbrica, tutta riunita in sala ad ascoltare gli sproloqui del Partito. Noi qui, uniti, separati da una porta, ad ascoltare non so bene cosa. Deve ancora definirsi. Lo definiremo. Siamo operai, io e lei, forgiatori di professione.
Ho commesso un grave errore. Ho, nella mia stupidità assoluta, pensato d’essere superiore al Partito, alla fabbrica, alla volontà di mio padre e della mia famiglia a cui, mi perdonino, ho tolto adesso ogni forma di introito. Lei, la mia Ute, altrettanto incauta, è stata a sua volta punita e umiliata; le altre la calunniano, dicono cose di lei che il Partito dovrebbe aborrire, ma che invece incentiva perché fanno più male delle frustate. All’interno della fabbrica corrono voci su di noi. Questo per via del mio errore. Del mio voler girare la maniglia. Del mio voler sciogliermi e fondermi su di lei, colare come si fa colare il metallo in uno stampo: sarei rinato, sarei stato forgiato. Gloria! Ah, sarebbe stata invero gloria immensa.
Siamo stati colti, scovati assieme. Io su di lei con ancora addosso la maglia del lavoro e lei, che nella fretta s’era solo riuscita ad alzare la gonna sino alla vita. Lì, assieme, due gelidi blocchi di metallo che cercavano di saldarsi sfregandosi l’un l’altro con una forza e velocità invero strabilianti! Colti. In flagranza di reato. Reato che è quello di aver messo in ridicolo il Partito e i suoi dettami, la fabbrica intera e il Dirigente.
Ho potuto tenere il lavoro. Potrò, in questo modo, fare sì che nessuno a casa noti la differenza. I miei soldi, sporchi del sudore e del grasso nero, giungeranno a destinazione. Lei, la mia Ute, so che è stata picchiata da alcune colleghe. So che adesso mangia sola, dopo che noi tutti abbiamo consumato, così che non cada in tentazione. Pazzi! Pazzi tutti voi, mica noi! Tentazione? Pazzi. Non c’è gloria, in questo. Non c’è. Perché io, punito certamente, vengo quasi osannato dai miei colleghi che cantano il mio nome, elogiano la mia passione nei confronti di una donnaccia— e vorrei picchiarli, quando la chiamano a quel modo. Dov’è la gloria, in questo?
Gloria, dico io al mattino.
Eterna, rispondono loro.
Falsità. Eterna.
Assemblerò, d’ora in poi e temo per tutta la vita, serrature. Assemblo le stesse serrature attraverso cui l’ho guardata, ammirata e amata.
La vedo, affiora appena da dietro l’angolo, nel minuscolo spazio tra un macchinario e la parete. La raggiungo. La prendo per mano.
«Che fai qui? Ti malmenano, come minimo!»
«Tu mi ami?»
«Io ti amo, è chiaro! Ma la mia famiglia, Ute, loro—»
«Tu mi ami.»
«Io ti amo.»
«Bene.»
Le vorrei asciugare le lacrime, macchiarle il volto del grasso che uso per lucidare i meccanismi viscidi di queste serrature, di questi aggeggi che sembrano solo ideati per separare amanti che vorrebbero abbracciarsi!
«Dunque, Ute?»
«Sabato, alla serata della proiezione del film. Ci sarai?»
«Certo.»
«Dobbiamo agire. Salvarci. Non c’è tempo, ormai.» E se ne va.
Alla serata della proiezione sono presenti tutti. Tutti coloro che vivono e lavorano nella fabbrica. Io e Ute siamo molto distanti. Lei si alza. Mi osserva. Nessuno le dice nulla, né la ferma. Esce dalla sala.
Esco. Lei è lì, sotto la neve che cade come fuliggine dalle altissime ciminiere della fabbrica. Lei è lì.
«Me ne vado.»
«Ute, dove vai?»
«Non vado bene alla mia famiglia. Non vado bene alla fabbrica. Forse non vado bene nemmeno a te.»
«Se andrai il Parti—»
«Sei davvero così inetto?»
Lo sono, invero. Devo esserlo.
«Amore mio, il Partito è la causa della rovina della tua famiglia e della mia! Questo stato è morto. Sai come vivono altrove? Lo sai? Lo vuoi scoprire? Porta con te la tua famiglia, se vorranno.»
«Ho una sorella inferma.»
«No, l’hanno resa inferma come rischiano di rendere me pazza! E te, certo. Ma noi donne, ah, sapessi che miseria.»
«Io voglio guardarti davvero, Ute. Non solo spiarti.»
«Allora andiamocene. Nessuno ci fermerà. Se restiamo, moriremo come tutti loro. Andiamo. Dimostra d’amarmi.»
«Ci verranno a cercare.»
La mia Ute inizia a camminare. Nella neve e verso i cancelli. Questo spazio è troppo vasto, l’esterno è troppo grande. Non so che fare. Come si vive, qui fuori? L’aria non sa di niente. Ute.
Unisco le dita, come per formare un anello. Una lente d’ingrandimento, piccola, dal millimetraggio ormai noto, confortante. Inquadro Ute, lontana. La ammiro, al centro del piccolo foro tra le mie dita. Metto le mani in tasca. Faccio il primo passo.
di Giovanni Attanasio
Le spio tutte, da una fessurina della porta. È da qualche settimana che le donne lavorano alla fabbrica. Questo ho potuto appurare. È da oggi, invece, che avrò il compito di istruirle. Perché mi sia stato dato questo compito è una domanda che non devo pormi: il Dirigente ha deciso, il Partito ha avallato. Così è per me. Se così è per me, dovrò abituarmi e non protestare.
«Gloria!» Saluto.
«Eterna!» Rispondono.
Entro nella nuova officina, il largo spazio adesso è adibito a produzione e stoccaggio di telai per infissi. Le donne, mi è stato detto all’assemblea mattutina di noi capi di settore, saranno coloro che utilizzeranno le macchine; noi uomini— loro uomini, perché io adesso sono stanziato altrove— ci occupiamo di lavori di precisione. Le donne— così è stato detto dal Partito e così ripeto io— sono perfette, questo per via della loro indole, a svolgere operazioni ripetitive con torni e trapani e sono pertanto da ritenersi scelta ottimale in termini di costi e produttività. Il Partito, Gloria!, ha bisogno di risparmiare e stanziare i soldi alla ricostruzione. Gloria! Siamo stati calunniati e offesi, ma ci riprenderemo.
Le donne di fronte a me, vestite come madri e sorelle, di stoffe lanuginose e scure, sfilacciate, di giacche e di gonnelle alla caviglia, assemblano e rivettano. Le donne, tutte, come vuole il Partito, eseguono le istruzioni per cui sono state arruolate. Le donne— queste, almeno, perché non tutte possono godere della gioia di lavorare in fabbrica per il Partito— parlano pochissimo tra loro, e mi è stato riferito, sono stato invero istruito, a tenerle d’occhio. Ma io gradisco che parlino almeno un po’ per intervallare il monotono e cigolante— ma piacevole, nelle giuste circostanze— rumoreggiare delle macchine, della pressione idraulica, delle scintille sul pavimento, degli sbuffi di vapore che di poco— giusto di un filo, Gloria!— sollevano le gonne: indossano calzettoni slabbrati, osceni, da vecchia; la moda delle altre nazioni non ci appartiene. Giusto così, giustissimo. Gloria. Le donne del partito hanno decoro. Madre, a casa, tu hai decoro più di tutte. Lo hai trasmesso a noi figli e figlie.
C’è uno stridere curioso che pare di lamiera smerigliata e un po’ di topolini in soffitta. Nell’alzare il capo, allontanandolo dal giornale della Gloriosa, noto subito che quel suono è una risata. Devo dunque riporre il giornale, piegare la carta come mi è stato insegnato, impettirmi e rimproverarle.
Raggiungo la postazione della donna ridente— la terza fila di macchinari, un bancone dove va applicato, via pressa, il marchio del Partito sui telai— e mi premuro di redarguirla con uno sguardo. Ma sono incapace, indegno del mio ruolo. Ruolo che, il Partito e il Dirigente non me ne vogliano, mi rendo conto di non poter ricoprire. La donna, infatti, che ha il crine giallo scuro come l’olio di ricambio del tornio a torre, perdura nel suo sogghignare.
«Mi dica, signore. Sto in qualche modo sbagliando l’operazione?» La donna mi interpella. Ha voce. Gloria! che voce. «Signore? Vuole forse mettermi in imbarazzo scrutandomi in silenzio?»
«No.»
«No, no. Certo.» Aggiusta il pezzo, tira la leva, imprime il marchio. Ha le unghie tutte intatte, nessun callo. Novizia. Indegna. «Cosa, dunque, signore?»
«Non rida più.»
È il momento del pranzo, momento in cui posso rivedere i vecchi compagni, quelli con cui ho diviso camere e sudore, giochi e scherzi. Giochi a cui invero per timidezza non ho spesso partecipato. Sia mai, pensavo, che il Partito lo scoprisse. Donne e uomini devono avere decoro.
«Gloria!» Mi interpellano.
«Eterna.» Rispondo, affiancandomi. Prendo posto al banco. Mangiamo.
«Carissimo, sembri avvilito.»
Un altro si siede di fianco. «Ti fanno sedere qui, con noi?»
E ridono. Di me. La risata pubblica dev’essere stata introdotta di recente, perché nel regolamento del Partito e della fabbrica che ho letto io, di certo, non ne viene fatta menzione!
«Ah, oh!» Una voce di donna ammutolisce il nostro tavolo. «Signore, allora è qui che siete!» La donna ridente mi perseguita.
Mi alzo dal tavolo. «Sciocca, non vedi dove siamo?»
«È una mensa. Certo, non mi aspettavo fossero così gran—»
«Uomini e donne non si parlano, se non negli spazi prefissati. È chiaro?»
«Perché mai?»
Tutti mi fissano, gli altri colleghi e gli uomini che, ne sono certo, stanno decidendo se consegnarmi direttamente alle autorità per aver aperto bocca, anziché ignorare la palese provocazione a me rivolta.
«Signore?»
«Arrivederci.»
Dalle dodici e trenta alle tredici potrò socializzare in libertà. Lei però è lì. La vedo, isolata dalle altre. La posso vedere attraverso un’apertura tra le spalle dei miei colleghi, che mi circondano. E la vedo, di nuovo, a camminare nella mia direzione.
«Signore!»
«Non hai un minimo di riserbo, tu?»
«Altroché, sapesse mio padre quanto ha insistito che venissi cresciuta tutta timidina e riservata…»
«Ebbene?»
«Ebbene?» Piega di lato il capo, quei suoi occhi giganteschi sono più brillanti delle punte nuovissime installate al trapano verticale. Altrettanto penetranti, invero. «Signore, lei ha questa bizzarra abitudine, hm? Di interrompersi. E guardare.»
«Falso.» Gloria! mi giudicano tutti. Eppure, se ben ricordo, tra le dodici e trenta e le tredici è possibile socializzare con chi si vuole. Non che uomini e donne interagiscano spesso— indecoroso, se non durante la serata del cinematografo— e difatti questa ridente fanciulla ignora bellamente ciò che la circonda; che colga i segnali, Gloria!, che si renda conto della sua stranezza nel rivolgermi la parola.
Suona la campana. Le tredici.
«Signore, dove—»
«Al lavoro. Immediatamente.»
La ridente creatura— che a un primo calcolo ha l’età della mia sorella derelitta, ma non più di un terzo del decoro— va col nome di Ute. Nome non di qui, poco ma sicuro, ma molto vicino. Qualcuna, forse la dottoressa illustre che si occupò del caso dell’amata sorella, si chiamava Ute.
Innegabile, e invero fastidioso, che questa donna, Ute, sempre ridente, mi turbi. L’occhio, che vorrei tenere occupato tra le righe del giornale che elogia il glorioso Partito, è attratto dalla forma a mezzaluna di quel sorriso, una forma così perfetta che né io né altri colleghi della fabbrica saremmo capaci di replicare coi macchinari. E mi perdoni il Partito se lo penso, ma devo convenire con chi dice che la Natura ha tra le mani il più preciso e fine dei calibri e un senso dell’estetica che sfugge agli architetti. Gloria! Gloria, sempre. Noi uomini, certamente, verissimo, siamo artefici e costruttori. Gloria! Che quel sorriso perisca, per quanto mi riguarda.
Ho munito il mio giornale— invero munisco ogni giornale da una certa mattina a questa parte— di un forellino, di millimetraggio irrisorio, con finalità di controllo e sorveglianza delle donne operaie. Posso, in questo modo, spiarle tenendo il giornale ben alto e fingendo disinteresse. E loro, pure le più remissive, allora si distendono e ridono, talvolta si dimenticano del loro compito— glorioso compito invero!— pur di chiacchierare di chissà che mondanità. No. Folle. Nessuna mondanità. Società di uomini e donne rigorosi. Ecco cosa siamo. I pazzi— ahimè, sorella amata, mi vieni tu alla mente— sono cosa disdegnata.
Dunque la sorveglio. Le sorveglio. Sorveglio loro tutte. Ma lei è giorno dopo giorno sempre più radiosa, il suo volto attraverso il foro m’abbaglia più dei fari che, nelle notti di tempesta, guidano i nostri passi ai dormitori.
La signorina Ute oggi è in pena. È distratta. Il buchino nel mio giornale— di millimetraggio adesso rilevante— restituisce solo in parte quel suo dolore. Mi turba. Gloria! ma cosa vado a pensare?
«Signore!» È un grido, di donna.
Lascio il giornale e cammino tra loro. «Cosa?»
«Signore, qui, la povera Ute!»
La signorina Ute, beatissima nel sonno, è distesa per terra. Gocce di sudore sul suo volto, su cui i fumi di sfogo delle valvole e le lampade a incandescenza si riflettono.
«Spostatevi tutte e fatele aria!»
«Ma signor—»
«Aria, dico io!»
E tutte si spostano. Io, solo io, mi chino su di lei per tergerle il sudore dalla fronte. La creatura respira. La sollevo, pongo l’attenzione necessaria a non toccarla in aree che sarebbero pertinenza— devo supporre— d’un eventuale marito. Così issata, lei riapre appena gli occhi.
«Ah, è lei, signore...»
«Che ti è accaduto?»
«Un mancamento, signore. Capita. Mensilmente. Puntuale.»
«Con cadenza tanto esatta? Gloria! Di che malanno si tratta?»
Lei, però, la signorina Ute vestita degli occhi di tutti noi che l’adorniamo di curiosità, si limita a un sorriso dei suoi, giusto un filo più malinconico. «Signore, facevo di lei una persona istruita, sempre lì col giornale in mano e qualche libro sottobraccio. Eppure ignora, giusto? Ignora la condizione di noi donne.»
«Gloria! Come avrei potu— non sono certo affari miei!»
«Portatemi in infermeria, signore.»
«Non posso mettervi piede, dovrò delegare.»
«Vuole lasciarmi appassire? Ne soffro molto, signore, di questo male.»
Il Partito, Gloria!, grida di metter la vita di compagni e compagne davanti alla propria. Lei ne appassisce, ne muore, questo ha detto. Questo ho sentito.
Mi giustificherò, altroché, per aver varcato la soglia dell’area femminile— magazzino presto adibito a dormitorio; lavoro impeccabile, se posso dire— e aver condotto la mia sottoposta, tale signorina Ute, in infermeria. Mi giustificherò con queste parole, poiché nessuna direttiva è stata violata, nessun torto è stato fatto, nessun crimine è stato commesso. Sono, lo ripeterò se serve, un sano cittadino e fedele del Partito; di mente sana, di corpo sano, di sani ideali.
Devo ripeterlo, devo davvero, dovrò invero ripeterlo cento volte, perché non devo convincere loro, ma me stesso. Non spiego, non so spiegarmi, quale sia stata per me altrimenti la ragione di quel mio gesto. L’averla presa, soccorsa, aver avuto il piacere— che parola pesante!— di saggiarne il corpo leggero, magro, odoroso non come quello della madre o della sorella impazzita, né del bebè che ella allatta al seno insipido e stanco, ma fresco in altro modo. Di gaiezza e giovinezza.
No. Non devo giustificarmi di questo, invero. Devo giustificarmi di essermi chinato, giusto di qualche grado, come quando regolavo il tornio, e d’aver poggiato la fronte contro la serratura della porta dell’infermeria. Il corridoio era vuoto. Allora ho guardato dentro, in quel forellino, irrilevante nel millimetraggio, ma assolutamente rilevante per il carbone asciutto nel mio petto, bisognoso d’una scintilla. Gloria! non saprei descrivere quel fuoco, quel calore forse pure superiore alla fornace. Lei, la signorina Ute, lì sul lettino e con le gambe— del tutto scoperte, quale visione!— che fremevano del tocco dell’infermiera, che asciugava e tamponava più nel profondo. Quelle sue dita dei piedi, minuscole e contratte, parevano sapere d’essere osservate e allora ogni volta che battevo le palpebre loro restavano immobili, e quando le riaprivo tornavano a muoversi così che potessi apprezzarne le minuzie, i piccoli spasmi che tendevano la carne e stiravano la pelle. Lei, la signorina Ute, che al ginocchio aveva qualche cicatrice, scivolava languida sul letto, giusto un filo, così che il mio sguardo pazzo e frenetico potesse cogliere il minuscolo accenno di peluria, di qualcosa che invero mai avevo potuto vedere né in mia madre né in mia sorella, poiché il padre mi avrebbe fustigato se mi avesse colto a spiare. Eppure avevo visto, ormai avevo visto! Gloria! Non più gloria, per me. Non più.
La signorina Ute esce dalla porta dell’infermeria. Ci sono saluti e ringraziamenti.
«Rientriamo in fabbrica.» La mia voce tentenna, espressione della mia colpevolezza. «Signorina Ute?»
«Ha guardato?»
«Cosa avrei guardato?»
Lei, di cui sino a quel momento ho sottovalutato il genio perfido, poggia un dito contro la serratura. «Guarda sempre, signore. Non è così?»
«Falso.»
Falso. Falso. Falso. Gloria!, dico che è falso! Pietà.
Alle diciotto e quaranta, a metà della pausa per socializzare dopo la doccia e prima di cena, la signorina Ute mi ingaggia. Ha i capelli umidi, la pelle liscia. Il maglioncino che di solito indossa le sta stretto, sottolinea dettagli che l’occhio di un operaio del mio calibro deve saper cogliere.
«Signore, posso dirle una cosa?»
Io nego col capo. Ma ciò non la scoraggia.
«Signore, una cosa sola.»
«Che sia breve.»
«La sera non presenzierò alle trasmissioni del Partito. Resterò in camera mia. Sola.»
«Questo non è permesso.»
«Non le pare, nemmeno un po’, che ci siano troppe poche cose permesse? Io voglio parlarle, signore, voglio che lei mi guardi. Questa fabbrica, che doveva essere una punizione, è adesso una benedizione.»
Le sue dita si muovono, lo stesso movimento di chi deve regolare la pressa idraulica. Lei, la sua pressa, l’ha regolata invero il giorno che ha messo piede in questa fabbrica. Sotto quella pressa, è innegabile ormai, ci sono io.
Di tanto in tanto, non spesso e con scuse sempre nuove, mi permetto di assentarmi dalla proiezione del messaggio serale del Partito. Mi muovo spedito, sono un minuscolo pezzo di metallo su un lungo nastro trasportatore e corro e rotolo verso quella fessura, quel foro nella serratura. Scorro e corro e rotolo e cado in quella che invero è una fornace da cui sorgerò, nella mia liquida incandescenza, per essere dalla signora Ute martellato e piallato e modellato secondo la sua volontà.
La guardo, la osservo. La serratura di camera sua dà, senza niente a ostacolarla, direttamente sul letto su cui dorme. Lei, lì distesa e in vestaglia, sembra percepire la mia presenza fuori dalla porta. Ci percepiamo, oh, eccome se questo accade. Gloria! Gloria. Gloria sussurro tra i denti e lei recita, con una mano tra le cosce, la parola Eterna. Non me ne voglia, il Partito, se abbiamo ridotto il saluto encomiabile e rigoso a tacito scambio per il nostro sollazzo privato.
Io qui, che ancora balbetto Gloria, spinto contro la porta e avvilito dalla smania, ansimo e prego di potermi presto liberare nei miei stessi pantaloni, di espellere dal corpo la foga rovente che vorrei invero versarle addosso, versarle dentro. Vorrei. Quanto vorrei.
Lei lì, che ancora balbetta Eterna. Eterna. Eterna perché eterno è il mio supplizio nel guardarla esplorarsi, toccarsi, saggiarsi, viversi, intrecciarsi e distendersi. Non so, non posso invero immaginare, se il piacere che le sento sillabare nel vuoto di quella stanza sia forte quanto quello di noi uomini, essendo io stupido e ignorante. Ma nella mia totale incapacità di comprenderla, bevo attraverso quel forellino, bevo quei suoi succhi e quel suo nettare, la sua bramosia— che invero pare così simile alla mia— che si esaurisce in pochi suoni gutturali e sbuffi felici.
Ci guardiamo. Io e lei. La fabbrica, tutta riunita in sala ad ascoltare gli sproloqui del Partito. Noi qui, uniti, separati da una porta, ad ascoltare non so bene cosa. Deve ancora definirsi. Lo definiremo. Siamo operai, io e lei, forgiatori di professione.
Ho commesso un grave errore. Ho, nella mia stupidità assoluta, pensato d’essere superiore al Partito, alla fabbrica, alla volontà di mio padre e della mia famiglia a cui, mi perdonino, ho tolto adesso ogni forma di introito. Lei, la mia Ute, altrettanto incauta, è stata a sua volta punita e umiliata; le altre la calunniano, dicono cose di lei che il Partito dovrebbe aborrire, ma che invece incentiva perché fanno più male delle frustate. All’interno della fabbrica corrono voci su di noi. Questo per via del mio errore. Del mio voler girare la maniglia. Del mio voler sciogliermi e fondermi su di lei, colare come si fa colare il metallo in uno stampo: sarei rinato, sarei stato forgiato. Gloria! Ah, sarebbe stata invero gloria immensa.
Siamo stati colti, scovati assieme. Io su di lei con ancora addosso la maglia del lavoro e lei, che nella fretta s’era solo riuscita ad alzare la gonna sino alla vita. Lì, assieme, due gelidi blocchi di metallo che cercavano di saldarsi sfregandosi l’un l’altro con una forza e velocità invero strabilianti! Colti. In flagranza di reato. Reato che è quello di aver messo in ridicolo il Partito e i suoi dettami, la fabbrica intera e il Dirigente.
Ho potuto tenere il lavoro. Potrò, in questo modo, fare sì che nessuno a casa noti la differenza. I miei soldi, sporchi del sudore e del grasso nero, giungeranno a destinazione. Lei, la mia Ute, so che è stata picchiata da alcune colleghe. So che adesso mangia sola, dopo che noi tutti abbiamo consumato, così che non cada in tentazione. Pazzi! Pazzi tutti voi, mica noi! Tentazione? Pazzi. Non c’è gloria, in questo. Non c’è. Perché io, punito certamente, vengo quasi osannato dai miei colleghi che cantano il mio nome, elogiano la mia passione nei confronti di una donnaccia— e vorrei picchiarli, quando la chiamano a quel modo. Dov’è la gloria, in questo?
Gloria, dico io al mattino.
Eterna, rispondono loro.
Falsità. Eterna.
Assemblerò, d’ora in poi e temo per tutta la vita, serrature. Assemblo le stesse serrature attraverso cui l’ho guardata, ammirata e amata.
La vedo, affiora appena da dietro l’angolo, nel minuscolo spazio tra un macchinario e la parete. La raggiungo. La prendo per mano.
«Che fai qui? Ti malmenano, come minimo!»
«Tu mi ami?»
«Io ti amo, è chiaro! Ma la mia famiglia, Ute, loro—»
«Tu mi ami.»
«Io ti amo.»
«Bene.»
Le vorrei asciugare le lacrime, macchiarle il volto del grasso che uso per lucidare i meccanismi viscidi di queste serrature, di questi aggeggi che sembrano solo ideati per separare amanti che vorrebbero abbracciarsi!
«Dunque, Ute?»
«Sabato, alla serata della proiezione del film. Ci sarai?»
«Certo.»
«Dobbiamo agire. Salvarci. Non c’è tempo, ormai.» E se ne va.
Alla serata della proiezione sono presenti tutti. Tutti coloro che vivono e lavorano nella fabbrica. Io e Ute siamo molto distanti. Lei si alza. Mi osserva. Nessuno le dice nulla, né la ferma. Esce dalla sala.
Esco. Lei è lì, sotto la neve che cade come fuliggine dalle altissime ciminiere della fabbrica. Lei è lì.
«Me ne vado.»
«Ute, dove vai?»
«Non vado bene alla mia famiglia. Non vado bene alla fabbrica. Forse non vado bene nemmeno a te.»
«Se andrai il Parti—»
«Sei davvero così inetto?»
Lo sono, invero. Devo esserlo.
«Amore mio, il Partito è la causa della rovina della tua famiglia e della mia! Questo stato è morto. Sai come vivono altrove? Lo sai? Lo vuoi scoprire? Porta con te la tua famiglia, se vorranno.»
«Ho una sorella inferma.»
«No, l’hanno resa inferma come rischiano di rendere me pazza! E te, certo. Ma noi donne, ah, sapessi che miseria.»
«Io voglio guardarti davvero, Ute. Non solo spiarti.»
«Allora andiamocene. Nessuno ci fermerà. Se restiamo, moriremo come tutti loro. Andiamo. Dimostra d’amarmi.»
«Ci verranno a cercare.»
La mia Ute inizia a camminare. Nella neve e verso i cancelli. Questo spazio è troppo vasto, l’esterno è troppo grande. Non so che fare. Come si vive, qui fuori? L’aria non sa di niente. Ute.
Unisco le dita, come per formare un anello. Una lente d’ingrandimento, piccola, dal millimetraggio ormai noto, confortante. Inquadro Ute, lontana. La ammiro, al centro del piccolo foro tra le mie dita. Metto le mani in tasca. Faccio il primo passo.