GATTINI
Inviato: domenica 4 giugno 2023, 10:41
GATTINI
“Migliaia di anni fa, i gatti furono divinizzati. Non se ne dimenticano.”
L’abitacolo della Cinquecento Abarth bianca puzza di arbre magique all’Eucalipto, di vodka e di sudore.
L’automobile su cui viaggiano i due amici svolta a sinistra e si immette sulla superstrada. Enormi condomini fatiscenti e case popolari grigio fumo si nascondono come spie nel buio della notte.
“Cambia musica Gio! Questa canzone fa schifo!”, Michele è stizzito.
“Ma nemmeno se mi paghi, non senti che bel ritmo latino? Papapampampapapam!”, Gio tamburella sul cruscotto fuori tempo.
“Io proprio non capisco cosa ci troviate nel reggaeton, fa pena”, Michele smette per un istante di guardare la strada rivolgendo uno sguardo verde e disgustato all’amico.
“Papapampampapapam!”, Gio mugola un motivetto latinoamericaneggiante che stona con la musica che esce dall’autoradio.
“Ma poi ‘sta cazzata che, a un certo punto, il cantante urla il proprio nome nel bel mezzo della canzone? Cosa cazzo mi vuol significare?”
“Ma cosa te ne frega, Michi? Lasciati guidare dal corazón”, Gio si infila la mano destra sotto maglia
e mima il lento e periodico battere del cuore.
Con un movimento repentino, Michele cambia la stazione radio e alza il volume al massimo.
Wenn getanzt wird, will ich führen,/Auch wenn ihr euch alleine dreht,/Lasst euch ein wenig kontrollieren
“Cosa è questa merda? Ah, certo! Mille volte meglio canzoni teutoniche e incazzate di un po’ di buona musica che ti fa venire voglia di muovere il culo!”
“Gio, tu sei fulminato! Non mettere più, mai più, nella stessa frase i Rammstein e quei cretinetti con i capelli unti e le camicie sbottonate: We're all living in Amerika, Amerika ist wunderbar, We're all living in Amerika, Amerika, Amerikaaaaaaa!”, Michele urla in faccia a Giovanni che abbassa il volume.
“Ma tu te la immagini quella bona di Rachele a twerkare su questa canzone?”, un sorriso malizioso lascia spazio alla fessura che Giovanni ha tra i denti.
“Io quella me la immagino fare tante cose!”.
I due amici scoppiano in una risata. Giovanni estrae un pacchetto morbido Camel dalla tasca del giubbino che tiene infagottato sulle ginocchia e se ne accende una. “Vuoi?”, allunga il pacchetto verso Michele.
“Certo! Accendimela tu, però…”
Giovanni accende la paglia usando la brace della sua e la passa all’amico.
L’abitacolo della macchina si riempie di fumo. Ora puzza di arbre magique all’Eucalipto, di vodka, di sudore e di fumo.
“Sembra di stare in un coffee shop! Abbassa anche tu il finestrino, se ci tieni a non morire asfissiato!”, Michele si porta una mano alle labbra e strozza un colpo di tosse.
I due amici aspirano ed espirano fumo con la devozione dello yogin durante il primo saluto al sole della giornata. Fuori dalla macchina un cielo che promette una bella scarica di acqua si fa sempre più pesto e, in lontananza, fulmini dalla forma di vene varicose si accendono a intermittenza nell’aria plumbea.
“Che serata stupenda è stata!”, Giovanni incrocia le mani dietro la nuca e si lascia andare sul sedile “Ma quanto avremo bevuto?”.
“Mah, io troppo come sempre. Infatti mi scappa una pisciata epica. Cazzo, per poco mi facevo Anna, solo a pensarci sento il sangue al cervello… Tu hai visto come mi guardava? Sembrava mi volesse mangiare”, Michele si morde il labbro inferiore.
“Quella è una specie di vampira del sesso secondo me, stacci attento che ti troviamo dissanguato!”
“Senti, senti qui cosa danno… Lo sapevo che questa era la stazione radio giusta!”, un suono gutturale, cavernoso abbandona la bocca di Michele come il lamento di un animale al macello: “I did my time, and I want out, So effusive, fade,It doesn't cut,The soul is not so vibrant,The reckoning, the sickening, Packaging subversion, Pseudo sacrosanct perversion”, canta all’unisono con l’autoradio.
“Mah, a me sembra che ruttino parole! Ti ricordi Marco quando facevamo le gare di rutti con la Coca-Cola?”
“Mamma mia che schifo!”, Michele simula un conato di vomito.
“Attento! Un gatto!”, urla stridulo Giovanni.
Michele, come risvegliatosi da uno stato di trance, vede l’animale attraversare, correndo, la carreggiata e cerca di evitarlo. Il tachimetro segna 120 km/h. Le gomme non tengono la strada. “Dai, dai, dai!”, Michele preme il freno, stringe il volante, digrigna i denti.
“Merda!”, Giovanni ha le mani sul cruscotto e spinge come fosse in posizione di plank.
È troppo tardi. Ormai gli sono addosso.
L’impatto è devastante. L’automobile è un groviglio di lamiere e fiamme. I corpi dei due giovani sono riversi sui sedili senza vita.
Dall’autoradio cantano ancora gli Slipknot : Oh, there are cracks, in the road we lay/ But where the temple fell/ The secrets have gone mad/ This is nothing new/ But when we killed it all/ The hate was all we had/ Who needs another mess?
La zampa di un secondo gattino calpesta la vettura. È un cucciolo tigrato, alto appena otto metri. La Cinquecento Abarth bianca è una piadina sull’asfalto che puzza di arbre magique all’Eucalipto, di vodka, di sudore e di sangue.
Una micina maculata occupa interamente la stazione di servizio e si lecca la zampetta ferita, ancora appoggiata su un camion da rimorchio con le ruote all’aria. Dall’autocarro esce, insistente e acuto, il rumore del clacson schiacciato dalla testa insanguinata del conducente.
Il falò prodotto da un autobus turistico schiantatosi contro il guard rail illumina gli scheletri di due autovetture uscite di strada.
L’aria è pesante, densa di fumo e di benzina. Si sente, in lontananza, lo stridore delle lamiere sull’asfalto, dei tentativi di frenata; si sentono le urla di paura e di dolore dei malcapitati automobilisti.
Un gargantuesco miagolio fa tremare l’asfalto. Nel buio impenetrabile della notte, si accendono, come un domino, le luci dei condomini popolari.
Il cucciolo tigrato di otto metri si struscia sinuoso sull’asfalto e le sue fusa sono un brontolio così sordo e profondo che sembra quasi il ventre della terra gorgogli, pronto a rigurgitare mostri mai visti prima.
Sabrina ha quattro anni e sta tornando dal mare con i genitori. Dorme sdraiata sui sedili posteriori, lo zainetto come cuscino.
Un testacoda vorticoso dell’automobile la sveglia. L’urto fortissimo che ha appena ucciso sul colpo i suoi genitori le fa perdere i sensi. Ma dura poco. La piccola apre gli occhi e non riesce a capire cosa stia guardando. Dal finestrino ormai andato in frantumi, un grosso cerchio di un verde cangiante e vivo la fissa.
Interrompendo l’abbraccio cromatico di giallo e azzurro, una fessura nera oblunga percorre in verticale l’intero diametro del cerchio. Questa figura confusa si sposta di poco e a Sabrina sembra di scorgere una superficie multicolore e, attaccati ad essa, lunghi fili bianchi.
L’animale guarda dentro l’abitacolo dell’auto, ma Sabrina non fa in tempo ad accorgerse.
Una strana sensazione calda e umida la avvolge, si sente trascinata dentro una profonda grotta scura: le acuminate stalattiti che pendono dal soffitto le ricordano, per un ultimo breve istante, i dentini appuntiti di Pallino, il micio dei vicini.
Qualche ora prima, Per Bast, Egitto
Un sole violento innaffia di raggi la pietra rossa dell’antica Per Bast.
“Il Nilo doveva arrivare fino a qui”, Adam parla guardando lo sparuto perimetro d’erba ingiallita intorno alla colonna e si accarezza la barba bruna imperlata di sudore.
Luc non lo ascolta. Con l’indice segue le iscrizioni geroglifiche sul frammento di vaso che hanno appena trovato. Sono al campo da una settimana, ma non gli era ancora capitato tra le mani nulla di tanto interessante.
“Quei furbetti di Ramesses II e Osorkon II ci hanno già reso le cose difficili, per non parlare dei persiani”, Adam rivolge lo sguardo verso Luc. “Oh, mi ascolti?”
“Mmmm”, Luc continua il suo lavoro di decodifica senza alzare la testa.
“Stacchiamo un attimo e ci facciamo un panino?”, Adam si avvicina al collega. “Dai facciamo una pausa e ci rimettiamo dopo a pancia piena, così abbiamo la mente più lucida e forse ce la fai a tirare fuori qualcosa di sensato da quel coccio!”
“Io non mangio finchè non ho finito… Voglio capire di che tipo di iscrizione si tratta, cosa dice…”, la voce di Luc è ferma. “Tu mangia pure nel frattempo!”, Luc apre la valigetta ed estrae un foglio e una biro. Poi inizia ad appuntarsi i possibili proseguimenti dell’iscrizione. Una goccia di sudore macchia il foglio.
“Ma pensi davvero di farcela? Nella migliore delle ipotesi ci metti un mese”.
“Finiscila! Mi stai innervosendo. Vai a mangiare”, nella voce di Luc qualcosa è cambiato. Si è fatta più stridula.
“Dai amico, non prendertela, lo sai anche tu che non sei proprio una volpe, ci hai messo un semestre a preparare un esame che gli altri hanno preparato in un paio di mesi”, Adam prosegue non curante, divertito.
“Ti ho detto di levarti dalle palle! Vai a mangiare il tuo panino a Zagazig e lasciami lavorare!”, Luc fissa i geroglifici sul vaso ma non li vede. Stringe la biro nel pugno della mano destra.
“Come è che era? Luc il Lentone, ti ricordi quando ti chiamavamo così all’università? Mamma mia quanto ti incazzavi!”, la voce di Adam si rompe in una risata ragliata.
Il sole bollente martella le tempie di Luc dove le vene pulsano già ingrossate dalla rabbia trattenuta per anni. Luc si passa una mano sulla fronte aggrottata e chiude gli occhi cercando di trattenere l’istinto che si impossessa sempre più di lui: “Ti ho detto di smetterla!”.
“Mamma mia, sono passati anni, poi non c’è niente di male ad essere un po’ lenti, Lentone!”
Luc molla la biro, afferra il coccio di vaso che sta studiando e si scaglia su Adam, colpendolo ripetutamente in volto. “Non chiamarmi mai più così”. Luc è paonazzo e colpisce Adam con una foga mai sperimentata prima. “Sei un pezzo di merda”, urla, “lo sei sempre stato!”.
Luc si ferma, immobile, terrorizzato. Si alza barcollando dal corpo dell’amico su cui si è accanito. Le mani e i vestiti sono pieni di sangue. Trema. Lascia cadere il coccio sul corpo esangue di Adam e si allontana correndo.
I solchi geroglifici del coccio sono ora pieni del sangue del giovane archeologo.
Il cielo si fa buio all’improvviso. Una luna enorme e lattiginosa si materializza su Per Bast, proprio dove prima c’era il sole impietoso.
Una marea di topi riempiono l’area intorno al corpo di Adam e fuggono in tutte le direzioni, come impazziti.
Un profumo intenso e dolce riempie l’aria.
Un piede di donna si poggia sul ventre di Adam.
La donna si china a raccogliere il coccio, lo avvicina alla bocca e con la lingua lecca il sangue, poi passa la lingua sul pelo nero del suo muso e sui lunghi baffi bianchi.
Il sacrificio ha sortito il suo effetto.
La profezia si è compiuta.
Bastet, la dea gatta, è tornata e ora fissa la luna e sorride.
Un miagolio si leva alla luna.
È ora che i gatti si riprendano il mondo.
3100 a.C., plenilunio, Per Bast, Egitto
Le quattro sacerdotesse vestite di rosso danzano ebbre di vino al suono del sistro strusciandosi l’una sull’altra: un tremore invade il groviglio dei loro corpi.
Le migliaia di gatti intorno a loro fanno le fusa.
Una dolce nenia si leva da Per Bast e si mescola ai profumi floreali che si alzano dalla terra.
Una sacerdotessa prende il vaso su cui è stato inciso il rituale e lo riempie di miele.
“A te, dea Bastet, che sei la più dolce guerriera”, la lingua della donna lecca il miele dal vaso e lo alza verso la luna.
Una seconda sacerdotessa si avvicina gattonando alla prima che le passa il vaso. Lei ci versa del vino.
“A te, dea Bastet, che sei la più inebriante tra le femmine”, la lingua della donna lecca il vino dal vaso e lo alza verso la luna.
La terza sacerdotessa si avvicina gattonando a sua volta, prende il vaso e lo riempie di latte.
“A te, dea Bastet, che sei la madre più feconda”, la lingua della sacerdotessa lecca il latte dal vaso e lo alza verso la luna.
La quarta sacerdotessa si avvicina stringendo un cucciolo nerissimo di gatto. La compagna tiene il vaso tra le mani . La quarta sacerdotessa tiene il micio per la collottola con la mano destra, nella sinistra ha una lama. I gatti che riempiono l’area sono ora immobili e guardano la donna. La quarta sacerdotessa incide la zampetta dell’animale mentre lo fissa negli occhi. Un miagolio acuto ferma la musica. Una goccia del sangue del gattino cade nel vaso. Il micio graffia la mano della sacerdotessa. Un secondo miagolio, quello della donna, rompe il silenzio. Una goccia del suo sangue cade nel vaso.
La sacerdotessa posa il micio sul terreno. Prende il vaso dalle mani della compagna e lo alza alla luna.
“A te, oh dea Bastet, il sacrificio che ti porgiamo attende il suo compimento. Che gli uomini non dimentichino il valore sacro del Gatto, dell’Amore, di Te! Che siano puniti se non rispettano la tua sacra legge. Che sia il loro stesso odio, la loro stessa violenza a riempire questo vaso di sangue e allora Tu, oh Eterna, splenderai nella tua forza guerriera e i gatti di tutto il mondo torneranno nella loro magnificenza e potenza”.
Un miagolio animale e umano si leva dall’assemblea.
Nella luna, il volto felino di Bastet illumina la gigantesca sfinge dal corpo di gatto che sovrasta il tempio della dea e la radura dove è avvenuto il rituale e ne allunga l’ombra che inghiotte l’intera assemblea.
La quarta sacerdotessa guarda la statua, sorride, bacia il muso del gattino: “Un giorno tornerete grandi. Enormi. Devi solo avere pazienza…”
“Migliaia di anni fa, i gatti furono divinizzati. Non se ne dimenticano.”
L’abitacolo della Cinquecento Abarth bianca puzza di arbre magique all’Eucalipto, di vodka e di sudore.
L’automobile su cui viaggiano i due amici svolta a sinistra e si immette sulla superstrada. Enormi condomini fatiscenti e case popolari grigio fumo si nascondono come spie nel buio della notte.
“Cambia musica Gio! Questa canzone fa schifo!”, Michele è stizzito.
“Ma nemmeno se mi paghi, non senti che bel ritmo latino? Papapampampapapam!”, Gio tamburella sul cruscotto fuori tempo.
“Io proprio non capisco cosa ci troviate nel reggaeton, fa pena”, Michele smette per un istante di guardare la strada rivolgendo uno sguardo verde e disgustato all’amico.
“Papapampampapapam!”, Gio mugola un motivetto latinoamericaneggiante che stona con la musica che esce dall’autoradio.
“Ma poi ‘sta cazzata che, a un certo punto, il cantante urla il proprio nome nel bel mezzo della canzone? Cosa cazzo mi vuol significare?”
“Ma cosa te ne frega, Michi? Lasciati guidare dal corazón”, Gio si infila la mano destra sotto maglia
e mima il lento e periodico battere del cuore.
Con un movimento repentino, Michele cambia la stazione radio e alza il volume al massimo.
Wenn getanzt wird, will ich führen,/Auch wenn ihr euch alleine dreht,/Lasst euch ein wenig kontrollieren
“Cosa è questa merda? Ah, certo! Mille volte meglio canzoni teutoniche e incazzate di un po’ di buona musica che ti fa venire voglia di muovere il culo!”
“Gio, tu sei fulminato! Non mettere più, mai più, nella stessa frase i Rammstein e quei cretinetti con i capelli unti e le camicie sbottonate: We're all living in Amerika, Amerika ist wunderbar, We're all living in Amerika, Amerika, Amerikaaaaaaa!”, Michele urla in faccia a Giovanni che abbassa il volume.
“Ma tu te la immagini quella bona di Rachele a twerkare su questa canzone?”, un sorriso malizioso lascia spazio alla fessura che Giovanni ha tra i denti.
“Io quella me la immagino fare tante cose!”.
I due amici scoppiano in una risata. Giovanni estrae un pacchetto morbido Camel dalla tasca del giubbino che tiene infagottato sulle ginocchia e se ne accende una. “Vuoi?”, allunga il pacchetto verso Michele.
“Certo! Accendimela tu, però…”
Giovanni accende la paglia usando la brace della sua e la passa all’amico.
L’abitacolo della macchina si riempie di fumo. Ora puzza di arbre magique all’Eucalipto, di vodka, di sudore e di fumo.
“Sembra di stare in un coffee shop! Abbassa anche tu il finestrino, se ci tieni a non morire asfissiato!”, Michele si porta una mano alle labbra e strozza un colpo di tosse.
I due amici aspirano ed espirano fumo con la devozione dello yogin durante il primo saluto al sole della giornata. Fuori dalla macchina un cielo che promette una bella scarica di acqua si fa sempre più pesto e, in lontananza, fulmini dalla forma di vene varicose si accendono a intermittenza nell’aria plumbea.
“Che serata stupenda è stata!”, Giovanni incrocia le mani dietro la nuca e si lascia andare sul sedile “Ma quanto avremo bevuto?”.
“Mah, io troppo come sempre. Infatti mi scappa una pisciata epica. Cazzo, per poco mi facevo Anna, solo a pensarci sento il sangue al cervello… Tu hai visto come mi guardava? Sembrava mi volesse mangiare”, Michele si morde il labbro inferiore.
“Quella è una specie di vampira del sesso secondo me, stacci attento che ti troviamo dissanguato!”
“Senti, senti qui cosa danno… Lo sapevo che questa era la stazione radio giusta!”, un suono gutturale, cavernoso abbandona la bocca di Michele come il lamento di un animale al macello: “I did my time, and I want out, So effusive, fade,It doesn't cut,The soul is not so vibrant,The reckoning, the sickening, Packaging subversion, Pseudo sacrosanct perversion”, canta all’unisono con l’autoradio.
“Mah, a me sembra che ruttino parole! Ti ricordi Marco quando facevamo le gare di rutti con la Coca-Cola?”
“Mamma mia che schifo!”, Michele simula un conato di vomito.
“Attento! Un gatto!”, urla stridulo Giovanni.
Michele, come risvegliatosi da uno stato di trance, vede l’animale attraversare, correndo, la carreggiata e cerca di evitarlo. Il tachimetro segna 120 km/h. Le gomme non tengono la strada. “Dai, dai, dai!”, Michele preme il freno, stringe il volante, digrigna i denti.
“Merda!”, Giovanni ha le mani sul cruscotto e spinge come fosse in posizione di plank.
È troppo tardi. Ormai gli sono addosso.
L’impatto è devastante. L’automobile è un groviglio di lamiere e fiamme. I corpi dei due giovani sono riversi sui sedili senza vita.
Dall’autoradio cantano ancora gli Slipknot : Oh, there are cracks, in the road we lay/ But where the temple fell/ The secrets have gone mad/ This is nothing new/ But when we killed it all/ The hate was all we had/ Who needs another mess?
La zampa di un secondo gattino calpesta la vettura. È un cucciolo tigrato, alto appena otto metri. La Cinquecento Abarth bianca è una piadina sull’asfalto che puzza di arbre magique all’Eucalipto, di vodka, di sudore e di sangue.
Una micina maculata occupa interamente la stazione di servizio e si lecca la zampetta ferita, ancora appoggiata su un camion da rimorchio con le ruote all’aria. Dall’autocarro esce, insistente e acuto, il rumore del clacson schiacciato dalla testa insanguinata del conducente.
Il falò prodotto da un autobus turistico schiantatosi contro il guard rail illumina gli scheletri di due autovetture uscite di strada.
L’aria è pesante, densa di fumo e di benzina. Si sente, in lontananza, lo stridore delle lamiere sull’asfalto, dei tentativi di frenata; si sentono le urla di paura e di dolore dei malcapitati automobilisti.
Un gargantuesco miagolio fa tremare l’asfalto. Nel buio impenetrabile della notte, si accendono, come un domino, le luci dei condomini popolari.
Il cucciolo tigrato di otto metri si struscia sinuoso sull’asfalto e le sue fusa sono un brontolio così sordo e profondo che sembra quasi il ventre della terra gorgogli, pronto a rigurgitare mostri mai visti prima.
Sabrina ha quattro anni e sta tornando dal mare con i genitori. Dorme sdraiata sui sedili posteriori, lo zainetto come cuscino.
Un testacoda vorticoso dell’automobile la sveglia. L’urto fortissimo che ha appena ucciso sul colpo i suoi genitori le fa perdere i sensi. Ma dura poco. La piccola apre gli occhi e non riesce a capire cosa stia guardando. Dal finestrino ormai andato in frantumi, un grosso cerchio di un verde cangiante e vivo la fissa.
Interrompendo l’abbraccio cromatico di giallo e azzurro, una fessura nera oblunga percorre in verticale l’intero diametro del cerchio. Questa figura confusa si sposta di poco e a Sabrina sembra di scorgere una superficie multicolore e, attaccati ad essa, lunghi fili bianchi.
L’animale guarda dentro l’abitacolo dell’auto, ma Sabrina non fa in tempo ad accorgerse.
Una strana sensazione calda e umida la avvolge, si sente trascinata dentro una profonda grotta scura: le acuminate stalattiti che pendono dal soffitto le ricordano, per un ultimo breve istante, i dentini appuntiti di Pallino, il micio dei vicini.
Qualche ora prima, Per Bast, Egitto
Un sole violento innaffia di raggi la pietra rossa dell’antica Per Bast.
“Il Nilo doveva arrivare fino a qui”, Adam parla guardando lo sparuto perimetro d’erba ingiallita intorno alla colonna e si accarezza la barba bruna imperlata di sudore.
Luc non lo ascolta. Con l’indice segue le iscrizioni geroglifiche sul frammento di vaso che hanno appena trovato. Sono al campo da una settimana, ma non gli era ancora capitato tra le mani nulla di tanto interessante.
“Quei furbetti di Ramesses II e Osorkon II ci hanno già reso le cose difficili, per non parlare dei persiani”, Adam rivolge lo sguardo verso Luc. “Oh, mi ascolti?”
“Mmmm”, Luc continua il suo lavoro di decodifica senza alzare la testa.
“Stacchiamo un attimo e ci facciamo un panino?”, Adam si avvicina al collega. “Dai facciamo una pausa e ci rimettiamo dopo a pancia piena, così abbiamo la mente più lucida e forse ce la fai a tirare fuori qualcosa di sensato da quel coccio!”
“Io non mangio finchè non ho finito… Voglio capire di che tipo di iscrizione si tratta, cosa dice…”, la voce di Luc è ferma. “Tu mangia pure nel frattempo!”, Luc apre la valigetta ed estrae un foglio e una biro. Poi inizia ad appuntarsi i possibili proseguimenti dell’iscrizione. Una goccia di sudore macchia il foglio.
“Ma pensi davvero di farcela? Nella migliore delle ipotesi ci metti un mese”.
“Finiscila! Mi stai innervosendo. Vai a mangiare”, nella voce di Luc qualcosa è cambiato. Si è fatta più stridula.
“Dai amico, non prendertela, lo sai anche tu che non sei proprio una volpe, ci hai messo un semestre a preparare un esame che gli altri hanno preparato in un paio di mesi”, Adam prosegue non curante, divertito.
“Ti ho detto di levarti dalle palle! Vai a mangiare il tuo panino a Zagazig e lasciami lavorare!”, Luc fissa i geroglifici sul vaso ma non li vede. Stringe la biro nel pugno della mano destra.
“Come è che era? Luc il Lentone, ti ricordi quando ti chiamavamo così all’università? Mamma mia quanto ti incazzavi!”, la voce di Adam si rompe in una risata ragliata.
Il sole bollente martella le tempie di Luc dove le vene pulsano già ingrossate dalla rabbia trattenuta per anni. Luc si passa una mano sulla fronte aggrottata e chiude gli occhi cercando di trattenere l’istinto che si impossessa sempre più di lui: “Ti ho detto di smetterla!”.
“Mamma mia, sono passati anni, poi non c’è niente di male ad essere un po’ lenti, Lentone!”
Luc molla la biro, afferra il coccio di vaso che sta studiando e si scaglia su Adam, colpendolo ripetutamente in volto. “Non chiamarmi mai più così”. Luc è paonazzo e colpisce Adam con una foga mai sperimentata prima. “Sei un pezzo di merda”, urla, “lo sei sempre stato!”.
Luc si ferma, immobile, terrorizzato. Si alza barcollando dal corpo dell’amico su cui si è accanito. Le mani e i vestiti sono pieni di sangue. Trema. Lascia cadere il coccio sul corpo esangue di Adam e si allontana correndo.
I solchi geroglifici del coccio sono ora pieni del sangue del giovane archeologo.
Il cielo si fa buio all’improvviso. Una luna enorme e lattiginosa si materializza su Per Bast, proprio dove prima c’era il sole impietoso.
Una marea di topi riempiono l’area intorno al corpo di Adam e fuggono in tutte le direzioni, come impazziti.
Un profumo intenso e dolce riempie l’aria.
Un piede di donna si poggia sul ventre di Adam.
La donna si china a raccogliere il coccio, lo avvicina alla bocca e con la lingua lecca il sangue, poi passa la lingua sul pelo nero del suo muso e sui lunghi baffi bianchi.
Il sacrificio ha sortito il suo effetto.
La profezia si è compiuta.
Bastet, la dea gatta, è tornata e ora fissa la luna e sorride.
Un miagolio si leva alla luna.
È ora che i gatti si riprendano il mondo.
3100 a.C., plenilunio, Per Bast, Egitto
Le quattro sacerdotesse vestite di rosso danzano ebbre di vino al suono del sistro strusciandosi l’una sull’altra: un tremore invade il groviglio dei loro corpi.
Le migliaia di gatti intorno a loro fanno le fusa.
Una dolce nenia si leva da Per Bast e si mescola ai profumi floreali che si alzano dalla terra.
Una sacerdotessa prende il vaso su cui è stato inciso il rituale e lo riempie di miele.
“A te, dea Bastet, che sei la più dolce guerriera”, la lingua della donna lecca il miele dal vaso e lo alza verso la luna.
Una seconda sacerdotessa si avvicina gattonando alla prima che le passa il vaso. Lei ci versa del vino.
“A te, dea Bastet, che sei la più inebriante tra le femmine”, la lingua della donna lecca il vino dal vaso e lo alza verso la luna.
La terza sacerdotessa si avvicina gattonando a sua volta, prende il vaso e lo riempie di latte.
“A te, dea Bastet, che sei la madre più feconda”, la lingua della sacerdotessa lecca il latte dal vaso e lo alza verso la luna.
La quarta sacerdotessa si avvicina stringendo un cucciolo nerissimo di gatto. La compagna tiene il vaso tra le mani . La quarta sacerdotessa tiene il micio per la collottola con la mano destra, nella sinistra ha una lama. I gatti che riempiono l’area sono ora immobili e guardano la donna. La quarta sacerdotessa incide la zampetta dell’animale mentre lo fissa negli occhi. Un miagolio acuto ferma la musica. Una goccia del sangue del gattino cade nel vaso. Il micio graffia la mano della sacerdotessa. Un secondo miagolio, quello della donna, rompe il silenzio. Una goccia del suo sangue cade nel vaso.
La sacerdotessa posa il micio sul terreno. Prende il vaso dalle mani della compagna e lo alza alla luna.
“A te, oh dea Bastet, il sacrificio che ti porgiamo attende il suo compimento. Che gli uomini non dimentichino il valore sacro del Gatto, dell’Amore, di Te! Che siano puniti se non rispettano la tua sacra legge. Che sia il loro stesso odio, la loro stessa violenza a riempire questo vaso di sangue e allora Tu, oh Eterna, splenderai nella tua forza guerriera e i gatti di tutto il mondo torneranno nella loro magnificenza e potenza”.
Un miagolio animale e umano si leva dall’assemblea.
Nella luna, il volto felino di Bastet illumina la gigantesca sfinge dal corpo di gatto che sovrasta il tempio della dea e la radura dove è avvenuto il rituale e ne allunga l’ombra che inghiotte l’intera assemblea.
La quarta sacerdotessa guarda la statua, sorride, bacia il muso del gattino: “Un giorno tornerete grandi. Enormi. Devi solo avere pazienza…”