Sesto anello rosso [di SRCM]
Inviato: lunedì 20 novembre 2023, 23:32
Lo stadio era una fortezza che andava a fuoco.
Luca si strofinò gli occhiali con la sciarpa rossa e strizzò gli occhi. No, niente fiamme. Solo fumogeni che salivano dal cuore dello stadio verso il cielo nero sopra la sua testa.
Più si avvicinava ai cancelli chiusi più quelli sembravano tremare.
La sua testa ruotava come inebriata dallo stridere delle braci, dal profumo di carne arrosto, dalle luci e dalle maglie appese negli stand ai lati della strada.
La folla lo spingeva in avanti e lui sentiva contorcersi le viscere. Aveva comprato i biglietti in preda a un’euforia improvvisa, pigiando tasti a caso. Aveva stampato i fogli, li aveva piegati e li aveva conficcati di taglio come banconote da 50 dentro al portafogli, dopodiché si era precipitato al metrò argento ed era corso allo stadio: da solo.
Perché Luca era sempre solo.
Il lavoro era una noia, i gatti sempre più grassi, la sua vita sempre più normale. Anche l’edicolante all’angolo non alzava neppure più il sopracciglio quando Luca gli chiedeva, puntuale come ogni martedì, l’ultimo pacchetto di Panini.
Luca era un intellettuale. Lavorava in un giornale di cronaca locale ed era aggiornato su tutti i nuovi fenomeni di costume. Non ultima: la moda tutta cittadina di non usare più i cellulari.
Insomma: Luca era tutt’altro che lo stereotipo del tifoso trasudante birra che gli aveva trasmesso suo padre. Eppure, per qualche strana ragione, si trovava lì: di fronte allo stadio, con gli occhi lucidi di gioia, circondato da maglie rosse.
Aveva comprato una sciarpa e se l’era avvolta intorno ai baffi grigi. Aveva preso una maglia e l’aveva infilata a fatica sopra la giacca. Aveva portato una bandiera e la teneva ancora chiusa nello zaino, pronto a sventolarla al minimo soffio di vento.
Che gli era preso?
Non se lo sapeva spiegare, era un qualcosa di pruriginoso e immotivato a muoverlo. Una voglia di squadra, di gruppo, di comunità. La stessa cosa che cercava, invano, sul lavoro. Una passione smodata e innaturale che aveva sempre cercato di tenere nascosta: al suo capo, ai suoi colleghi, ai suoi gatti. Solo l’edicolante. Solo lui sapeva.
La ressa l’aveva ormai spinto fino al limitare dei tornelli.
Mentre superava la sbarra di metallo, estraeva dal portafogli il biglietto e lo faceva scorrere nel lettore, si sentì di colpo invadere da una sensazione di gioia mista a terrore.
La nebbia rossa fuoriusciva dai tunnel e gli si infilava nelle narici. Aveva superato le soglie dell’inferno. Aveva varcato la porta che separava lui da loro.
Di colpo le sue mani corsero alle tasche.
Il biglietto. Dov’era? Gli era caduto?
Dannazione e ora? Non aveva telefoni, non aveva nulla.
Niente, doveva salire. Seguire il flusso.
Un’energia come spiritica fluiva fra le sue braccia, mentre le scale lo accompagnavano verso l’ultimo anello: il sesto.
Avrebbe trovato un posto e avrebbe seguito il match da lì. Diavoli contro Angeli. Rossi contro Blu. Quella partita era troppo importante per arrendersi. Non poteva tornare al punto di partenza: dai suoi gatti, dal suo lavoro. Solo.
Le ombre alle sue spalle lo spingevano verso l’alto e lui saliva. Non aveva assolutamente idea di dove stesse andando. Una spirale infinita.
A un certo punto si trovò al bancone di un bar.
Una signora con due gomiti da pugilato gli stava servendo della birra che lui neppure ricordava di aver ordinato. Aveva in mano due bicchieri. Perché?
Si accorse che un ragazzetto basso con un bomber scuro e i baffetti da Chaplin gli stava sorridendo con due occhi rossi come bandiere infuocate.
La birra era la sua. Perché Luca la teneva in mano allora?
La allungò tremante al giovane Chaplin.
Quello la afferrò scrutandolo con uno sguardo perplesso.
Ora che lo guardava meglio… Più che Chaplin sembrava un secondino.
Di colpo la folla intorno a loro iniziò a diradarsi.
Meno corpi. Meno persone. Meno maglie ro…
Blu. Le maglie non erano rosse. Erano blu.
Si guardò intorno.
Dove diavolo era finito?
Era… Nella curva sbagliata?
Il secondino angelico gli sfilò gentilmente la birra dalla mano e con una mezza carezza gli tolse la sciarpa dal collo.
“Coso, tu non hai capito.” Sorrise. “Questa la buttiamo via, d’accordo?”
Luca era paralizzato. Non sapeva cosa fare.
Il secondino gli stava stringendo il collo con quello che Luca, per un secondo, percepì come un abbraccio.
Gli stava togliendo la maglia di dosso, ora, ma a Luca non importava.
Lui non voleva davvero tifare. Lui voleva una squadra. Una comunità.
La sciarpa cadeva dal terzo anello e lui la guardava danzare.
La sua maglia volava in cielo e lui sorrideva.
La sua bandiera era tesa come l’ala di un deltaplano mentre si lanciava verso il precipizio, ma Luca non soffriva.
La sciarpa non gli serviva più. La maglia non gli serviva più. La bandiera non gli serviva più.
Aveva trovato di meglio. Aveva trovato un amico.
Il secondino angelico si allontanò per un secondo verso il bagno.
La mano di Luca corse alla tasca:
“Ehi tu, il portafogli!”
Ma l’angelo era già sparito.
Luca si strofinò gli occhiali con la sciarpa rossa e strizzò gli occhi. No, niente fiamme. Solo fumogeni che salivano dal cuore dello stadio verso il cielo nero sopra la sua testa.
Più si avvicinava ai cancelli chiusi più quelli sembravano tremare.
La sua testa ruotava come inebriata dallo stridere delle braci, dal profumo di carne arrosto, dalle luci e dalle maglie appese negli stand ai lati della strada.
La folla lo spingeva in avanti e lui sentiva contorcersi le viscere. Aveva comprato i biglietti in preda a un’euforia improvvisa, pigiando tasti a caso. Aveva stampato i fogli, li aveva piegati e li aveva conficcati di taglio come banconote da 50 dentro al portafogli, dopodiché si era precipitato al metrò argento ed era corso allo stadio: da solo.
Perché Luca era sempre solo.
Il lavoro era una noia, i gatti sempre più grassi, la sua vita sempre più normale. Anche l’edicolante all’angolo non alzava neppure più il sopracciglio quando Luca gli chiedeva, puntuale come ogni martedì, l’ultimo pacchetto di Panini.
Luca era un intellettuale. Lavorava in un giornale di cronaca locale ed era aggiornato su tutti i nuovi fenomeni di costume. Non ultima: la moda tutta cittadina di non usare più i cellulari.
Insomma: Luca era tutt’altro che lo stereotipo del tifoso trasudante birra che gli aveva trasmesso suo padre. Eppure, per qualche strana ragione, si trovava lì: di fronte allo stadio, con gli occhi lucidi di gioia, circondato da maglie rosse.
Aveva comprato una sciarpa e se l’era avvolta intorno ai baffi grigi. Aveva preso una maglia e l’aveva infilata a fatica sopra la giacca. Aveva portato una bandiera e la teneva ancora chiusa nello zaino, pronto a sventolarla al minimo soffio di vento.
Che gli era preso?
Non se lo sapeva spiegare, era un qualcosa di pruriginoso e immotivato a muoverlo. Una voglia di squadra, di gruppo, di comunità. La stessa cosa che cercava, invano, sul lavoro. Una passione smodata e innaturale che aveva sempre cercato di tenere nascosta: al suo capo, ai suoi colleghi, ai suoi gatti. Solo l’edicolante. Solo lui sapeva.
La ressa l’aveva ormai spinto fino al limitare dei tornelli.
Mentre superava la sbarra di metallo, estraeva dal portafogli il biglietto e lo faceva scorrere nel lettore, si sentì di colpo invadere da una sensazione di gioia mista a terrore.
La nebbia rossa fuoriusciva dai tunnel e gli si infilava nelle narici. Aveva superato le soglie dell’inferno. Aveva varcato la porta che separava lui da loro.
Di colpo le sue mani corsero alle tasche.
Il biglietto. Dov’era? Gli era caduto?
Dannazione e ora? Non aveva telefoni, non aveva nulla.
Niente, doveva salire. Seguire il flusso.
Un’energia come spiritica fluiva fra le sue braccia, mentre le scale lo accompagnavano verso l’ultimo anello: il sesto.
Avrebbe trovato un posto e avrebbe seguito il match da lì. Diavoli contro Angeli. Rossi contro Blu. Quella partita era troppo importante per arrendersi. Non poteva tornare al punto di partenza: dai suoi gatti, dal suo lavoro. Solo.
Le ombre alle sue spalle lo spingevano verso l’alto e lui saliva. Non aveva assolutamente idea di dove stesse andando. Una spirale infinita.
A un certo punto si trovò al bancone di un bar.
Una signora con due gomiti da pugilato gli stava servendo della birra che lui neppure ricordava di aver ordinato. Aveva in mano due bicchieri. Perché?
Si accorse che un ragazzetto basso con un bomber scuro e i baffetti da Chaplin gli stava sorridendo con due occhi rossi come bandiere infuocate.
La birra era la sua. Perché Luca la teneva in mano allora?
La allungò tremante al giovane Chaplin.
Quello la afferrò scrutandolo con uno sguardo perplesso.
Ora che lo guardava meglio… Più che Chaplin sembrava un secondino.
Di colpo la folla intorno a loro iniziò a diradarsi.
Meno corpi. Meno persone. Meno maglie ro…
Blu. Le maglie non erano rosse. Erano blu.
Si guardò intorno.
Dove diavolo era finito?
Era… Nella curva sbagliata?
Il secondino angelico gli sfilò gentilmente la birra dalla mano e con una mezza carezza gli tolse la sciarpa dal collo.
“Coso, tu non hai capito.” Sorrise. “Questa la buttiamo via, d’accordo?”
Luca era paralizzato. Non sapeva cosa fare.
Il secondino gli stava stringendo il collo con quello che Luca, per un secondo, percepì come un abbraccio.
Gli stava togliendo la maglia di dosso, ora, ma a Luca non importava.
Lui non voleva davvero tifare. Lui voleva una squadra. Una comunità.
La sciarpa cadeva dal terzo anello e lui la guardava danzare.
La sua maglia volava in cielo e lui sorrideva.
La sua bandiera era tesa come l’ala di un deltaplano mentre si lanciava verso il precipizio, ma Luca non soffriva.
La sciarpa non gli serviva più. La maglia non gli serviva più. La bandiera non gli serviva più.
Aveva trovato di meglio. Aveva trovato un amico.
Il secondino angelico si allontanò per un secondo verso il bagno.
La mano di Luca corse alla tasca:
“Ehi tu, il portafogli!”
Ma l’angelo era già sparito.