A casa prima di cena, di Fabio Scalini
Inviato: lunedì 21 ottobre 2024, 22:49
Non ne può più di sentirselo dire. Ma come, non ce l’hai? No, vorrebbe rispondere. Non ce l’ho, e allora? Ma per non fare brutta figura, prova sempre a improvvisare. Solo che è difficile, perché da quando ce l’hanno proprio tutti, ha come l’impressione di non essere più capace di guardare.
Ad esempio, quelli che sono al tavolo di fianco: parlano fra loro, ma i loro occhi puntano nel vuoto, su cose e dettagli imprecisati. Non se ne rendono conto. Sarà sicuramente l’abitudine al punto di vista panoramico, quello più di moda. Solo che è il più difficile da imitare senza averlo mai sperimentato. Loro parlano, ridono, fissano una macchia sul muro bianco o l’angolo di una piastrella sbeccata, e intanto discutono di lavoro, amici, tradimenti, segretucci. Il solito, insomma. Un po’ gli manca.
La cameriera passa e sparecchia. Come fa a prendere il piatto con tutta questa precisione, mentre ha il viso rivolto da tutt’altra parte? Gli viene la naturale tentazione di imitarla, ma non c’è niente da osservare, nulla che dal suo misero e banale punto di vista organico possa dare un senso al suo sguardo.
Lei afferra il piatto, la tazzina, passa un colpo di strofinaccio e aspetta di sapere se ha altro da ordinare. Ora sta osservando una delle bottiglie dietro al bancone. Mezza vuota, senza etichetta. Bizzarro, gli viene quasi voglia di chiederle un bicchiere di quella roba. Lei insiste, perché comunque non può stare seduto tutta la mattina senza ordinare altro. E allora si prende l’ennesimo decaffeinato.
Il foglio nella tasca interna del cappotto pesa, scotta. Lo tira fuori. Non lo apre, lo rigira e basta. No, è solo un foglio. Ma quando lo rimette via, il peso torna e non se ne va.
Chissà cosa si prova a guardare da fuori. A cambiare prospettiva quando ti pare. Una panoramica, uno zoom da fuori, un grandangolo a carrello che passa fra i bicchieri sul tavolo. Un montaggio mentale per rendere speciale ogni momento. È sicuro che la cameriera stia scrutando la sala dall’angolo in alto, muovendosi come all’interno di un diorama. Vive il turno come un gioco dentro uno scenario, con l’obiettivo di arrivare a fine giornata.
Si ritrova la tazzina di decaffeinato fumante fra le mani. La ragazza l’ha lasciata guardando giù, il mento spinto contro la gola. Perché non hanno ancora trovato un modo per rendere più naturale la posizione della testa, quando si attiva il secondo punto di vista? Probabilmente è una questione tecnica.
No. Sta ragionando male. A nessuno importa cosa guardano gli altri con i loro veri occhi, perché nessuno li usa più. Soltanto lui e i quattro svitati che hanno tardato ad adeguarsi se ne possono rendere conto. È solo una questione di essere dentro o fuori.
Gli pizzica il petto sotto la camicia. Ritira fuori il foglio e fa per stritolarlo, sminuzzarlo, lacerarlo. Può ancora buttarlo via, fra i fazzoletti con le chiazze di crema e le mezze bustine di zucchero. Forse dovrebbe.
Lo apre. Due ore all’appuntamento. Punturina, non sentirà niente. A casa prima di cena.
E da domani, potrà guardare il mondo da tutti i punti di vista che vuole, sopra, sotto, fuori, dentro, panoramico, zoomato. A tre finestre la volta, modalità ispezione. Se dev’essere sincero, lo attira la funzione che si adegua a punto di vista degli altri. Niente più scelte. Se va di moda la visuale da fuori, che sia. Era già difficile guardarsi dritti negli occhi, prima di tutto questo. Se deve anche scegliere fra mille possibilità, tanto vale non guardare più e basta.
Ripiega il foglio, fa per appallottolarlo. Pesa, pesa davvero tanto. Un gesto, e potrebbe finire nel cestino. Nessuno che bada a lui, nessuno che lo giudica, ma non può averne la certezza. Ed è stanco di dire ti amo, mentre lei sorride al tostapane.
Si alza, ficca il foglio sul fondo della tasca del cappotto, paga con un gesto al nulla ed esce. Con qualsiasi punto di vista a disposizione, ora, sceglierebbe comunque di fissarsi la punta dei piedi.
Ad esempio, quelli che sono al tavolo di fianco: parlano fra loro, ma i loro occhi puntano nel vuoto, su cose e dettagli imprecisati. Non se ne rendono conto. Sarà sicuramente l’abitudine al punto di vista panoramico, quello più di moda. Solo che è il più difficile da imitare senza averlo mai sperimentato. Loro parlano, ridono, fissano una macchia sul muro bianco o l’angolo di una piastrella sbeccata, e intanto discutono di lavoro, amici, tradimenti, segretucci. Il solito, insomma. Un po’ gli manca.
La cameriera passa e sparecchia. Come fa a prendere il piatto con tutta questa precisione, mentre ha il viso rivolto da tutt’altra parte? Gli viene la naturale tentazione di imitarla, ma non c’è niente da osservare, nulla che dal suo misero e banale punto di vista organico possa dare un senso al suo sguardo.
Lei afferra il piatto, la tazzina, passa un colpo di strofinaccio e aspetta di sapere se ha altro da ordinare. Ora sta osservando una delle bottiglie dietro al bancone. Mezza vuota, senza etichetta. Bizzarro, gli viene quasi voglia di chiederle un bicchiere di quella roba. Lei insiste, perché comunque non può stare seduto tutta la mattina senza ordinare altro. E allora si prende l’ennesimo decaffeinato.
Il foglio nella tasca interna del cappotto pesa, scotta. Lo tira fuori. Non lo apre, lo rigira e basta. No, è solo un foglio. Ma quando lo rimette via, il peso torna e non se ne va.
Chissà cosa si prova a guardare da fuori. A cambiare prospettiva quando ti pare. Una panoramica, uno zoom da fuori, un grandangolo a carrello che passa fra i bicchieri sul tavolo. Un montaggio mentale per rendere speciale ogni momento. È sicuro che la cameriera stia scrutando la sala dall’angolo in alto, muovendosi come all’interno di un diorama. Vive il turno come un gioco dentro uno scenario, con l’obiettivo di arrivare a fine giornata.
Si ritrova la tazzina di decaffeinato fumante fra le mani. La ragazza l’ha lasciata guardando giù, il mento spinto contro la gola. Perché non hanno ancora trovato un modo per rendere più naturale la posizione della testa, quando si attiva il secondo punto di vista? Probabilmente è una questione tecnica.
No. Sta ragionando male. A nessuno importa cosa guardano gli altri con i loro veri occhi, perché nessuno li usa più. Soltanto lui e i quattro svitati che hanno tardato ad adeguarsi se ne possono rendere conto. È solo una questione di essere dentro o fuori.
Gli pizzica il petto sotto la camicia. Ritira fuori il foglio e fa per stritolarlo, sminuzzarlo, lacerarlo. Può ancora buttarlo via, fra i fazzoletti con le chiazze di crema e le mezze bustine di zucchero. Forse dovrebbe.
Lo apre. Due ore all’appuntamento. Punturina, non sentirà niente. A casa prima di cena.
E da domani, potrà guardare il mondo da tutti i punti di vista che vuole, sopra, sotto, fuori, dentro, panoramico, zoomato. A tre finestre la volta, modalità ispezione. Se dev’essere sincero, lo attira la funzione che si adegua a punto di vista degli altri. Niente più scelte. Se va di moda la visuale da fuori, che sia. Era già difficile guardarsi dritti negli occhi, prima di tutto questo. Se deve anche scegliere fra mille possibilità, tanto vale non guardare più e basta.
Ripiega il foglio, fa per appallottolarlo. Pesa, pesa davvero tanto. Un gesto, e potrebbe finire nel cestino. Nessuno che bada a lui, nessuno che lo giudica, ma non può averne la certezza. Ed è stanco di dire ti amo, mentre lei sorride al tostapane.
Si alza, ficca il foglio sul fondo della tasca del cappotto, paga con un gesto al nulla ed esce. Con qualsiasi punto di vista a disposizione, ora, sceglierebbe comunque di fissarsi la punta dei piedi.