IL POTERE LIBERATORIO DEL TAFANO
Inviato: sabato 1 febbraio 2025, 5:46
IL POTERE LIBERATORIO DEL TAFANO
di M. Maponi
Frankie, che poi si chiama solo Francesco, ne è sicuro. Il caldo ci salverà.
Io ho i miei dubbi. Soprattutto visto che mi tocca il turno di guardia di Porta Montana all’una spaccata di un lunedì d’Agosto. Lato positivo: è il punto più fortificato del perimetro.
Lato negativo: la mia razione d’acqua sa di brodo e sto sudando come un animale.
Gli Z il sudore lo sentono. Si affannano sulle mura inclinate di Macerata, scivolano nel loro stesso liquame, mugolano. Mugolano constantemente.
La puzza di carne marcia sulle mura permea tutto. Ricordo quando mia madre si dimenticò una fettina di manzo sul tavolo della cucina e dopo due ore tutta la stanza era piena di quel puzzo molle. Ora quella fettina ce l’ho sempre nel naso.
Lato positivo: questo fatto dell’odore ti fa passare la voglia di mangiare carne. A dirla tutta ti fa passare la fame. Ed è un bel life hack considerando che Just Eat non funziona più tanto bene.
Mi appoggio su un merlo di pietra per guardare di sotto. C’è una signora coi capelli platinati in testa al gruppo. Le sue mani grige trovano un appiglio su un mattone, e per un attimo sembra che riuscirà a tirarsi su, ma poi i muscoli putridi si sfanno e il braccio si lacera sotto il peso della carne marcia. Gli altri Z la tirano giù nel tentativo di aggrapparsi. Per un attimo il braccio rimane attaccato al muro, poi cade anche quello.
Non sono proprio un collaborativi, gli Z.
Faccio una conta delle teste. Trenta, trentacinque… la tanica di benzina rimane lì a guardarmi. Il collettivo universitario è stato chiaro: per meno di cinquanta Z, niente grigliate. Torno al mio piccolo spazio fresco sotto l’ombrello di Peppa Pig che ho saldato a uno dei merli di Porta Montana. Non piove da due settimane. I barili di raccolta se lo sono scordati, com’é fatta l’acqua. Al Roxy Bar si puntano scommesse su quando inizieranno i temporali estivi: io ho puntato una scatola di preservativi su Agosto ventitrè. Mi rendo conto che sono un pessimo giocatore d'azzardo. Invece di usare il cervello mi sono fatto fregare dalla mia speranza di un acquazzone.
Siamo al diciotto Agosto. Il cielo è terso come in uno spot Algida. Mi bollono i piedi nelle scarpe e ho nostalgia di quei tormentoni dell’estate e delle ragazze in infradito a Rimini.
Frankie, che la sa lunga, ha puntato sul dieci Settembre. Dice di fidarsi, che i temporali arrivano dopo. E che è meglio se il riscaldamento climatico li sposta ancora più in là. Dobbiamo dire grazie, dice. Dobbiamo dire grazie a questo caldo boia.
Perchè la carne si sfascia e le mosche sono felici. In effetti molti degli Z là sotto sono pieni di vermi. La signora che ha tentato la scalata doveva essere un bel po’ fraccica, per perdere il braccio così. Quindi, dice Frankie, l'estate è una manna, dobbiamo solo aspettare che l’orda marcisca del tutto.
C'è solo un problema. Delle mosche che mi ronzano attorno, non so quali siano vive e quali siano morte. E le mosche morte le uova non le fanno.
#
Se fossimo ancora in gloria di dio diremmo che è una fortuna trovarci in una città con delle mura. Io e gli altri studenti fuorisede che non siamo tornati a casa, che dovevamo rimanere per la sessione estiva, prima che scoppiasse sto casino.
Se fossimo ancora in gloria di dio, non ci riuniremmo in chiesa solo perché ha le pareti spesse e dentro c’è quell’aria da cripta che fa star freschi.
La cattedrale di San Giovanni Battista è ancora bianca dentro, pulita, la puzza la portiamo dentro noi. Io sono venuto diretto da Porta Montana, con tanto di sudore e lancia improvvisata: un manico di scopa con uno dei coltelli presi dal negozio di armi di Piazza Mazzini. Regole nuove: non si gira disarmati. A presidiare la riunione c’é Alice, con i suoi delicati occhiali rotondi a cui manca una lente. Vicino a lei la tutor dell’accademia di belle arti che traduce in cinese per i sopravvissuti ancora più fuorisede di me. Sparsi per le panche le varie teste dei nostri compagni di sopravvivenza, o almeno quelli che non sono impegnati nella ronda sulle mura. Abbiamo pure due preti. Don Pablo che ancora porta la tonaca e Don Pino, in pantaloncini e birkenstock, ormai indistinguibile da un bidello. E ovviamente c’è Frankie, spatasciato in prima linea con una mazza da baseball tra le gambe, a lanciare occhiatine a due studentesse di Lettere.
Frankie ci sguazza, nell’apocalisse.
Alice fa finta di non vederlo. Legge la lista delle provviste con la stessa sobrietà con cui contiamo i morti. La camicia di lino che indossa è ingiallita sul collo. Fossimo in gloria di dio, saremmo in una città con un fiume. Invece dobbiamo discutere ciclicamente di una possibile spedizione all’acquedotto che non si farà, non si può fare, perchè vorrebbe dire correre per un’ora in salita con l’orda attaccata alle chiappe.
Ho una forte sensazione di déjà vu. Senza il collettivo universitario a organizzare queste riunioni cadenzate saremmo tutti animali, ci scanneremmo a vicenda per dividerci i resti di quei pochi supermercati. E invece abbiamo l’ordine, l’ordine che centellina le preziosissime bottiglie rimaste e gli spaghetti da ammorbidire nella saliva. L’odore in chiesa è quello della calce, dell’incenso e del salato dei corpi vivi. Mi viene quasi da addormentarmi, tanto è rilassante questa routine.
Ma Alice si schiarisce la gola e questo sa di pericolo.
«Ora, passiamo alle novità... c'è una notizia importante.» La parola "importante" passa come una scossa elettrica nella navata quasi deserta. Mi alzo e mi vado a sedere vicino a Frankie, che ha rinunciato a puntare le studentesse e fa cerchi con il dito sul pomello della mazza da baseball. «Il punto di comunicazione al comando dei carabinieri ha ricevuto un messaggio radio, stamattina.»
Frankie mi guarda e fa, a voce bassa ma non così bassa: «C’é ancora l’ordine costituito. Semo salvi.»
Alice fa finta di non sentirlo. «Era una frequenza amatoriale. Da Rimini. Diceva che sta passando un bus di sopravvissuti. Dovrebbero arrivare domani.»
C’é tanto silenzio che posso sentire un moscone impazzito battere contro una vetrata.
«Provviste, ne hanno?» fa Don Pino. «C’è da aprirgli i cancelli?»
«No. La cosa strana è questa. Non vogliono entrare.» Alice si passa la lingua sulle labbra nel tentativo inutile di inumidirle. «Chiedono se qualcuno vuole unirsi a loro.»
Non ho mai superato Analisi, ma le operazioni basilari le so fare ancora. Nel centro di Macerata ci sono cento sopravvissuti, alla conta attuale. Il bus dovrebbe essere guidato da un fantasma per farceli stare dentro tutti. Ma forse questi di Rimini lo sanno già. Alzo la mano.
«Cos’é, una gita fuori porta?» Reazione abbastanza arida, nemmeno una risatina. Pubblico difficile.
«No, è una possibilità per chi vuole andarsene.»
«Andarsene dove?»
Da Alice riesco solo a ottenere un silenzio greve. Si alza Pablo con un fruscio pesante di tonaca. «Questa è una notizia bellissima,» dice, nel suo accento sudamericano. «Vuol dire che ci sono ancora persone vive, che vogliono vivere.»
Penso alla mia postazione su Porta Montana con l’ombrello di Peppa Pig e non so se valga davvero la pena scambiarla per il sedile incancrenito di un bus.
«In ogni caso, il collettivo vuole che ognuno si senta libero di scegliere se andare o restare. Il bus passerà lungo i viali domani pomeriggio, sopra ai giardini Diaz. Se qualcuno vorrà salire...»
Se qualcuno vuole salire, dice il sottotesto, ci toglie dai coglioni un po’ di bocche.
Ma forse questo lo penso solo io. Me lo dicevano sempre, alle superiori, che sono uno stronzo. La verità è che un commento del genere me lo aspetto da Frankie, ma lui è immobile, non gioca nemmeno più con la mazza, non si concede un sorrisetto nemmeno quando l’interprete cinese smette di tradurre e se ne va con le studentesse di Lettere. Trasfigurato come uno di questi cristi appesi alle pareti.
«Oh, non vorrai mica andare.»
«Perché no?» sussurra lui. «Se hanno benza, si può arrivare ad Ancona.»
«E dopo che vai ad Ancona?»
«Si prende una barca.»
Bravo coglione, vorrei dirgli. Così invece di crepare di sete qui, puoi farlo in mezzo al mare e ridere di quanto sia ironico. Ma non gli dò tanto peso, al momento. Frankie è così, questa è come la sua idea sulle mosche, sono cose che dice e non pensa davvero; però lo dice in un modo, si comporta in un modo, che ti fa sembrare tutto possibile.
Alice mi guarda fisso per un po’ e le rispondo con un cenno del capo, lento.
#
Quella sera trasporto un carico di tesi di laurea ai ragazzi che fanno il turno di notte ai cancelli. Anche a voler risparmiare, c’é bisogno di fuoco e di luce, per assicurarsi che gli Z non si infilino tra le sbarre di ghisa della cancellata stile liberty. Ma le copertine in brossura delle tesi bruciano bene. Questa notte tocca alla sezione di economia, anni 1996-1997; il primo titolo a implorarmi con misericordia è “Analisi dell’impennata del dot com in vista del modello inflazionistico”, scritto da un certo E. Bernardini. Bernardini, se solo sapessi che la bolla del dot com è scoppiata del tutto. Dopo ci troviamo, con Alice.
Non so perché ma finiamo sempre per incontrarci sulle mura, ma dalla parte di Via Garibaldi. Anche con la puzza di carne marcia c’é qualcosa di romantico a vedere l’orizzonte dei colli tingersi di rosso e poi di nero. Alice ha una bottiglietta d’acqua da mezzolitro e due fazzoletti. Ne bagna uno con cura, se lo passa attorno al collo, poi mi offre la bottiglia così che possa fare lo stesso.
Ho appena il tempo di grattarmi via il peggio dalla nuca che lei si toglie il peso dal cuore.
«Ci hai pensato?»
Appoggio la lancia improvvisata contro il parapetto, poi mi siedo sul muro. Uno Z in ciabatte, sotto di noi, barcolla tra le macchine rivoltate e mugula come un gatto triste. «Sarebbe meglio portare il bus fino a Piediripa e fare provviste al centro commerciale. Ma mettersi in strada per andare più lontano…»
«Roba da pazzi.» La sua mano trova la mia sul cornicione.
#
Le notizie girano in fretta a Macerata. Sarà che siamo rimasti in cento. Sta di fatto che nel caldo torrido delle tre di pomeriggio ci sono venti persone lungo il tratto di mura che dà sui viali. Il rumore di motore che si sente in lontananza è come una promessa, ma è anche un cazzo di problema.
Lo sentiamo noi come lo sentono gli Z. Mi cade la mano sulla tanica di benzina. Don Pablo mi ferma prima che possa innaffiare un po’ di teste marce per la grigliata. «Aspetta.»
La strada è libera, se non fosse per la valanga di carne morta. Di aprire la barricata di Porta Montana per far passare gente non se ne parla, oggi. C’è ancora un accesso a scalinata che abbiamo bloccato con tre credenze. Il punto è che con tutti gli Z sbavanti là sotto, scendere è come comprare un abbonamento alla morte.
Lo so io come lo sanno tutti, ma comunque gli spettatori rimangono a guardare, ondeggiando come cipressi. Tolgo la mano dalla tanica.
Finalmente si vede il bus. Del colore verde acceso originario sono rimasti solo alcuni sprazzi di vernice; il resto è metallo grigio e rinforzi improvvisati tenuti insieme da saldature d’occasione e giri su giri di corda elastica. Lo vedo entrare in derapata per infilarsi tra un pulmino Iveco e il cadavere di una moto arrugginita, tirare sotto due vecchi già marci, e sfrecciare tra gli schizzi di carne putrida. La folla sugli spalti si agita. Riusciamo a malapena a vedere il guidatore, un uomo brizzolato in cannottiera. Non può fermarsi. Se il bus perdesse inerzia, non riuscirebbe più a ripartire. L’orda di Z, attratta dal rumore, si lancia contro le ruote con convinzione. Male che vada ci avran fatto un gran favore a ripulire questo pezzo di città.
Veloce com’é arrivato, il bus scompare oltre la curva che porta ai cancelli. Anche quelli li troveranno chiusi.
«Faranno il giro.» Don Pablo ha una sicurezza che può solo avergli dato dio. «Chi vuole salire deve farsi trovare giù…»
«C’è il sottopassaggio degli ascensori.» lo dico quasi senza riflettere. «Porta al tunnel che sbuca ai giardini Diaz. Da lì c’é la vecchia stazione degli autobus, magari c’é più spazio per fermarsi.»
Il vano degli ascensori è chiuso solo dalle porte tagliafuoco. Ovviamente gli ascensori non funzionano più, ma ci sono le scale. L’abbiamo lasciato libero come uscita d’emergenza, anche perché il tunnel che passa sotto la città non ha odore e gli Z non riescono a fiutarci a distanza di due porte e quattro rampe di scale. Ma la situazione ai giardini non ho idea di come sia.
Una ragazza dell’accademia mi fissa come se dovessi guidarla io in quella scarpinata. Alzo le mani: io non voglio andarmene da qui. «Ma a quelli del bus chi glielo dice, di andare ai giardini?»
Non abbiamo ancora risolto che torna a sentirsi il rombo del motore. Siamo sul gran premio di Monza, solo che a competere c’é solo un bus rappezzato. Neanche il tempo di formulare il pensiero che vedo Frankie salire sul cornicione del muro. Mi guarda fisso, indica la mazza da baseball che ha lasciato lì a terra, poi annuisce.
«Frankie, che cazzo fai!»
«Li avviso io.»
Scosto Don Pablo e scendo giù dalla torretta di Porta Montana. Il rombo del bus si fa più vicino. Per strada sono costretto a fare slalom tra i fuggitivi, tutti a indecisi tra guardare le mura e raggiungere gli ascensori. Arrivo allo spiazzo del parcheggio, vedo Frankie da dietro, le ginocchia piegate, una specie di santo osservato dai suoi fedeli. Non l’hanno tirato giù. Allungo la mano proprio quando si sente un fischio di gomme.
Frankie salta.
Si sente un tonfo metallico, poi uno stridio. Sbatto contro il muro e mi tiro su per vedere. Frankie è sul soffitto del bus, è rotolato di schiena, e ora si tiene per miracolo all’antenna radio. Le gambe gli slittano via pericolosamente quando il mezzo sterza di nuovo verso i cancelli. Dagli spettatori si leva un coro di preoccupazione mista a sollievo.
«Testa di cazzo. Andate ai giardini, in fretta!» Sento che sto urlando e spingendo persone che neanche vedo in volto. Li conduco all’entrata degli ascensori, poi mi fermo, con il cuore in gola, di fronte alla porta tagliafuoco che si richiude.
Ho lasciato tutto sulla torretta di Porta Montana. La mia lancia, la benzina, Peppa Pig. E Alice. Alice, che coordina i sopravvissuti da Piazza della Libertà.
Torno a Porta Montana. Don Pablo è sparito. Mi sporgo oltre il parapetto, ma il parcheggio dei giardini non lo vedo bene, ci sono troppi alberi in mezzo. Dovrei salire sulla torre dell’orologio ma non farei mai in tempo. Il bus non ritorna. L’orda è ancora in frenesia, e gli Z che possono ancora camminare stanno defluendo. Alcuni invece allenano le mascelle sulla poltiglia informe che il bus si è lasciato dietro. Cinque minuti dopo sento di nuovo il suono di un motore in lontananza, ma non lo vedo passare.
Ormai sotto le mura ci sono solo poche teste marce. Non vale nemmeno la pena grigliarle. Raccolgo la mazza da baseball di metallo, ne sento il peso; cerco di immaginare Frankie che scivola dal tetto e si infila in un finestrino aperto del bus in corsa, come una specie di supereroe. O forse ha solo aspettato che gli aprissero le porte.
Devo crederlo lì, a guidare quelli di Rimini con la sua artistica nochalance. Lui è andato, e noi rimaniamo qui, ad aspettare il potere liberatorio del tafano.
...
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di M. Maponi
Frankie, che poi si chiama solo Francesco, ne è sicuro. Il caldo ci salverà.
Io ho i miei dubbi. Soprattutto visto che mi tocca il turno di guardia di Porta Montana all’una spaccata di un lunedì d’Agosto. Lato positivo: è il punto più fortificato del perimetro.
Lato negativo: la mia razione d’acqua sa di brodo e sto sudando come un animale.
Gli Z il sudore lo sentono. Si affannano sulle mura inclinate di Macerata, scivolano nel loro stesso liquame, mugolano. Mugolano constantemente.
La puzza di carne marcia sulle mura permea tutto. Ricordo quando mia madre si dimenticò una fettina di manzo sul tavolo della cucina e dopo due ore tutta la stanza era piena di quel puzzo molle. Ora quella fettina ce l’ho sempre nel naso.
Lato positivo: questo fatto dell’odore ti fa passare la voglia di mangiare carne. A dirla tutta ti fa passare la fame. Ed è un bel life hack considerando che Just Eat non funziona più tanto bene.
Mi appoggio su un merlo di pietra per guardare di sotto. C’è una signora coi capelli platinati in testa al gruppo. Le sue mani grige trovano un appiglio su un mattone, e per un attimo sembra che riuscirà a tirarsi su, ma poi i muscoli putridi si sfanno e il braccio si lacera sotto il peso della carne marcia. Gli altri Z la tirano giù nel tentativo di aggrapparsi. Per un attimo il braccio rimane attaccato al muro, poi cade anche quello.
Non sono proprio un collaborativi, gli Z.
Faccio una conta delle teste. Trenta, trentacinque… la tanica di benzina rimane lì a guardarmi. Il collettivo universitario è stato chiaro: per meno di cinquanta Z, niente grigliate. Torno al mio piccolo spazio fresco sotto l’ombrello di Peppa Pig che ho saldato a uno dei merli di Porta Montana. Non piove da due settimane. I barili di raccolta se lo sono scordati, com’é fatta l’acqua. Al Roxy Bar si puntano scommesse su quando inizieranno i temporali estivi: io ho puntato una scatola di preservativi su Agosto ventitrè. Mi rendo conto che sono un pessimo giocatore d'azzardo. Invece di usare il cervello mi sono fatto fregare dalla mia speranza di un acquazzone.
Siamo al diciotto Agosto. Il cielo è terso come in uno spot Algida. Mi bollono i piedi nelle scarpe e ho nostalgia di quei tormentoni dell’estate e delle ragazze in infradito a Rimini.
Frankie, che la sa lunga, ha puntato sul dieci Settembre. Dice di fidarsi, che i temporali arrivano dopo. E che è meglio se il riscaldamento climatico li sposta ancora più in là. Dobbiamo dire grazie, dice. Dobbiamo dire grazie a questo caldo boia.
Perchè la carne si sfascia e le mosche sono felici. In effetti molti degli Z là sotto sono pieni di vermi. La signora che ha tentato la scalata doveva essere un bel po’ fraccica, per perdere il braccio così. Quindi, dice Frankie, l'estate è una manna, dobbiamo solo aspettare che l’orda marcisca del tutto.
C'è solo un problema. Delle mosche che mi ronzano attorno, non so quali siano vive e quali siano morte. E le mosche morte le uova non le fanno.
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Se fossimo ancora in gloria di dio diremmo che è una fortuna trovarci in una città con delle mura. Io e gli altri studenti fuorisede che non siamo tornati a casa, che dovevamo rimanere per la sessione estiva, prima che scoppiasse sto casino.
Se fossimo ancora in gloria di dio, non ci riuniremmo in chiesa solo perché ha le pareti spesse e dentro c’è quell’aria da cripta che fa star freschi.
La cattedrale di San Giovanni Battista è ancora bianca dentro, pulita, la puzza la portiamo dentro noi. Io sono venuto diretto da Porta Montana, con tanto di sudore e lancia improvvisata: un manico di scopa con uno dei coltelli presi dal negozio di armi di Piazza Mazzini. Regole nuove: non si gira disarmati. A presidiare la riunione c’é Alice, con i suoi delicati occhiali rotondi a cui manca una lente. Vicino a lei la tutor dell’accademia di belle arti che traduce in cinese per i sopravvissuti ancora più fuorisede di me. Sparsi per le panche le varie teste dei nostri compagni di sopravvivenza, o almeno quelli che non sono impegnati nella ronda sulle mura. Abbiamo pure due preti. Don Pablo che ancora porta la tonaca e Don Pino, in pantaloncini e birkenstock, ormai indistinguibile da un bidello. E ovviamente c’è Frankie, spatasciato in prima linea con una mazza da baseball tra le gambe, a lanciare occhiatine a due studentesse di Lettere.
Frankie ci sguazza, nell’apocalisse.
Alice fa finta di non vederlo. Legge la lista delle provviste con la stessa sobrietà con cui contiamo i morti. La camicia di lino che indossa è ingiallita sul collo. Fossimo in gloria di dio, saremmo in una città con un fiume. Invece dobbiamo discutere ciclicamente di una possibile spedizione all’acquedotto che non si farà, non si può fare, perchè vorrebbe dire correre per un’ora in salita con l’orda attaccata alle chiappe.
Ho una forte sensazione di déjà vu. Senza il collettivo universitario a organizzare queste riunioni cadenzate saremmo tutti animali, ci scanneremmo a vicenda per dividerci i resti di quei pochi supermercati. E invece abbiamo l’ordine, l’ordine che centellina le preziosissime bottiglie rimaste e gli spaghetti da ammorbidire nella saliva. L’odore in chiesa è quello della calce, dell’incenso e del salato dei corpi vivi. Mi viene quasi da addormentarmi, tanto è rilassante questa routine.
Ma Alice si schiarisce la gola e questo sa di pericolo.
«Ora, passiamo alle novità... c'è una notizia importante.» La parola "importante" passa come una scossa elettrica nella navata quasi deserta. Mi alzo e mi vado a sedere vicino a Frankie, che ha rinunciato a puntare le studentesse e fa cerchi con il dito sul pomello della mazza da baseball. «Il punto di comunicazione al comando dei carabinieri ha ricevuto un messaggio radio, stamattina.»
Frankie mi guarda e fa, a voce bassa ma non così bassa: «C’é ancora l’ordine costituito. Semo salvi.»
Alice fa finta di non sentirlo. «Era una frequenza amatoriale. Da Rimini. Diceva che sta passando un bus di sopravvissuti. Dovrebbero arrivare domani.»
C’é tanto silenzio che posso sentire un moscone impazzito battere contro una vetrata.
«Provviste, ne hanno?» fa Don Pino. «C’è da aprirgli i cancelli?»
«No. La cosa strana è questa. Non vogliono entrare.» Alice si passa la lingua sulle labbra nel tentativo inutile di inumidirle. «Chiedono se qualcuno vuole unirsi a loro.»
Non ho mai superato Analisi, ma le operazioni basilari le so fare ancora. Nel centro di Macerata ci sono cento sopravvissuti, alla conta attuale. Il bus dovrebbe essere guidato da un fantasma per farceli stare dentro tutti. Ma forse questi di Rimini lo sanno già. Alzo la mano.
«Cos’é, una gita fuori porta?» Reazione abbastanza arida, nemmeno una risatina. Pubblico difficile.
«No, è una possibilità per chi vuole andarsene.»
«Andarsene dove?»
Da Alice riesco solo a ottenere un silenzio greve. Si alza Pablo con un fruscio pesante di tonaca. «Questa è una notizia bellissima,» dice, nel suo accento sudamericano. «Vuol dire che ci sono ancora persone vive, che vogliono vivere.»
Penso alla mia postazione su Porta Montana con l’ombrello di Peppa Pig e non so se valga davvero la pena scambiarla per il sedile incancrenito di un bus.
«In ogni caso, il collettivo vuole che ognuno si senta libero di scegliere se andare o restare. Il bus passerà lungo i viali domani pomeriggio, sopra ai giardini Diaz. Se qualcuno vorrà salire...»
Se qualcuno vuole salire, dice il sottotesto, ci toglie dai coglioni un po’ di bocche.
Ma forse questo lo penso solo io. Me lo dicevano sempre, alle superiori, che sono uno stronzo. La verità è che un commento del genere me lo aspetto da Frankie, ma lui è immobile, non gioca nemmeno più con la mazza, non si concede un sorrisetto nemmeno quando l’interprete cinese smette di tradurre e se ne va con le studentesse di Lettere. Trasfigurato come uno di questi cristi appesi alle pareti.
«Oh, non vorrai mica andare.»
«Perché no?» sussurra lui. «Se hanno benza, si può arrivare ad Ancona.»
«E dopo che vai ad Ancona?»
«Si prende una barca.»
Bravo coglione, vorrei dirgli. Così invece di crepare di sete qui, puoi farlo in mezzo al mare e ridere di quanto sia ironico. Ma non gli dò tanto peso, al momento. Frankie è così, questa è come la sua idea sulle mosche, sono cose che dice e non pensa davvero; però lo dice in un modo, si comporta in un modo, che ti fa sembrare tutto possibile.
Alice mi guarda fisso per un po’ e le rispondo con un cenno del capo, lento.
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Quella sera trasporto un carico di tesi di laurea ai ragazzi che fanno il turno di notte ai cancelli. Anche a voler risparmiare, c’é bisogno di fuoco e di luce, per assicurarsi che gli Z non si infilino tra le sbarre di ghisa della cancellata stile liberty. Ma le copertine in brossura delle tesi bruciano bene. Questa notte tocca alla sezione di economia, anni 1996-1997; il primo titolo a implorarmi con misericordia è “Analisi dell’impennata del dot com in vista del modello inflazionistico”, scritto da un certo E. Bernardini. Bernardini, se solo sapessi che la bolla del dot com è scoppiata del tutto. Dopo ci troviamo, con Alice.
Non so perché ma finiamo sempre per incontrarci sulle mura, ma dalla parte di Via Garibaldi. Anche con la puzza di carne marcia c’é qualcosa di romantico a vedere l’orizzonte dei colli tingersi di rosso e poi di nero. Alice ha una bottiglietta d’acqua da mezzolitro e due fazzoletti. Ne bagna uno con cura, se lo passa attorno al collo, poi mi offre la bottiglia così che possa fare lo stesso.
Ho appena il tempo di grattarmi via il peggio dalla nuca che lei si toglie il peso dal cuore.
«Ci hai pensato?»
Appoggio la lancia improvvisata contro il parapetto, poi mi siedo sul muro. Uno Z in ciabatte, sotto di noi, barcolla tra le macchine rivoltate e mugula come un gatto triste. «Sarebbe meglio portare il bus fino a Piediripa e fare provviste al centro commerciale. Ma mettersi in strada per andare più lontano…»
«Roba da pazzi.» La sua mano trova la mia sul cornicione.
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Le notizie girano in fretta a Macerata. Sarà che siamo rimasti in cento. Sta di fatto che nel caldo torrido delle tre di pomeriggio ci sono venti persone lungo il tratto di mura che dà sui viali. Il rumore di motore che si sente in lontananza è come una promessa, ma è anche un cazzo di problema.
Lo sentiamo noi come lo sentono gli Z. Mi cade la mano sulla tanica di benzina. Don Pablo mi ferma prima che possa innaffiare un po’ di teste marce per la grigliata. «Aspetta.»
La strada è libera, se non fosse per la valanga di carne morta. Di aprire la barricata di Porta Montana per far passare gente non se ne parla, oggi. C’è ancora un accesso a scalinata che abbiamo bloccato con tre credenze. Il punto è che con tutti gli Z sbavanti là sotto, scendere è come comprare un abbonamento alla morte.
Lo so io come lo sanno tutti, ma comunque gli spettatori rimangono a guardare, ondeggiando come cipressi. Tolgo la mano dalla tanica.
Finalmente si vede il bus. Del colore verde acceso originario sono rimasti solo alcuni sprazzi di vernice; il resto è metallo grigio e rinforzi improvvisati tenuti insieme da saldature d’occasione e giri su giri di corda elastica. Lo vedo entrare in derapata per infilarsi tra un pulmino Iveco e il cadavere di una moto arrugginita, tirare sotto due vecchi già marci, e sfrecciare tra gli schizzi di carne putrida. La folla sugli spalti si agita. Riusciamo a malapena a vedere il guidatore, un uomo brizzolato in cannottiera. Non può fermarsi. Se il bus perdesse inerzia, non riuscirebbe più a ripartire. L’orda di Z, attratta dal rumore, si lancia contro le ruote con convinzione. Male che vada ci avran fatto un gran favore a ripulire questo pezzo di città.
Veloce com’é arrivato, il bus scompare oltre la curva che porta ai cancelli. Anche quelli li troveranno chiusi.
«Faranno il giro.» Don Pablo ha una sicurezza che può solo avergli dato dio. «Chi vuole salire deve farsi trovare giù…»
«C’è il sottopassaggio degli ascensori.» lo dico quasi senza riflettere. «Porta al tunnel che sbuca ai giardini Diaz. Da lì c’é la vecchia stazione degli autobus, magari c’é più spazio per fermarsi.»
Il vano degli ascensori è chiuso solo dalle porte tagliafuoco. Ovviamente gli ascensori non funzionano più, ma ci sono le scale. L’abbiamo lasciato libero come uscita d’emergenza, anche perché il tunnel che passa sotto la città non ha odore e gli Z non riescono a fiutarci a distanza di due porte e quattro rampe di scale. Ma la situazione ai giardini non ho idea di come sia.
Una ragazza dell’accademia mi fissa come se dovessi guidarla io in quella scarpinata. Alzo le mani: io non voglio andarmene da qui. «Ma a quelli del bus chi glielo dice, di andare ai giardini?»
Non abbiamo ancora risolto che torna a sentirsi il rombo del motore. Siamo sul gran premio di Monza, solo che a competere c’é solo un bus rappezzato. Neanche il tempo di formulare il pensiero che vedo Frankie salire sul cornicione del muro. Mi guarda fisso, indica la mazza da baseball che ha lasciato lì a terra, poi annuisce.
«Frankie, che cazzo fai!»
«Li avviso io.»
Scosto Don Pablo e scendo giù dalla torretta di Porta Montana. Il rombo del bus si fa più vicino. Per strada sono costretto a fare slalom tra i fuggitivi, tutti a indecisi tra guardare le mura e raggiungere gli ascensori. Arrivo allo spiazzo del parcheggio, vedo Frankie da dietro, le ginocchia piegate, una specie di santo osservato dai suoi fedeli. Non l’hanno tirato giù. Allungo la mano proprio quando si sente un fischio di gomme.
Frankie salta.
Si sente un tonfo metallico, poi uno stridio. Sbatto contro il muro e mi tiro su per vedere. Frankie è sul soffitto del bus, è rotolato di schiena, e ora si tiene per miracolo all’antenna radio. Le gambe gli slittano via pericolosamente quando il mezzo sterza di nuovo verso i cancelli. Dagli spettatori si leva un coro di preoccupazione mista a sollievo.
«Testa di cazzo. Andate ai giardini, in fretta!» Sento che sto urlando e spingendo persone che neanche vedo in volto. Li conduco all’entrata degli ascensori, poi mi fermo, con il cuore in gola, di fronte alla porta tagliafuoco che si richiude.
Ho lasciato tutto sulla torretta di Porta Montana. La mia lancia, la benzina, Peppa Pig. E Alice. Alice, che coordina i sopravvissuti da Piazza della Libertà.
Torno a Porta Montana. Don Pablo è sparito. Mi sporgo oltre il parapetto, ma il parcheggio dei giardini non lo vedo bene, ci sono troppi alberi in mezzo. Dovrei salire sulla torre dell’orologio ma non farei mai in tempo. Il bus non ritorna. L’orda è ancora in frenesia, e gli Z che possono ancora camminare stanno defluendo. Alcuni invece allenano le mascelle sulla poltiglia informe che il bus si è lasciato dietro. Cinque minuti dopo sento di nuovo il suono di un motore in lontananza, ma non lo vedo passare.
Ormai sotto le mura ci sono solo poche teste marce. Non vale nemmeno la pena grigliarle. Raccolgo la mazza da baseball di metallo, ne sento il peso; cerco di immaginare Frankie che scivola dal tetto e si infila in un finestrino aperto del bus in corsa, come una specie di supereroe. O forse ha solo aspettato che gli aprissero le porte.
Devo crederlo lì, a guidare quelli di Rimini con la sua artistica nochalance. Lui è andato, e noi rimaniamo qui, ad aspettare il potere liberatorio del tafano.
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