Apex Predator - Daniele Bassanese
Inviato: martedì 18 marzo 2025, 0:51
Ricordava poco di come fosse la sua vita, prima. Gli restavano solo sensazioni nelle ossa e poco più. Echi di un tepore e di pancia piena. Persino di affetto. Non li ricordava, ma era certo fossero stati bei tempi.
Il buio e il caos di un mondo terribile l’avevano investito. Il sole faceva capolino di rado, dalla sommità dell’abisso in cui era precipitato. Una luce fioca e malata si univa a una cacofonia mostruosa, ruggiti vibranti di infiniti esseri scuotevano la terra. Altre creature gigantesche e meno rumorose popolavano quel dedalo sul fondo dell’abisso. Passavano veloci, indifferenti a tutto. Era un ardire sfidare la loro marcia, quelle zampe trafelate potevano calpestarlo senza neanche accorgersene. Poteva solo nascondersi e aspettare.
La notte i mostri si chetavano e il buio portava una calma apparente. I rumori non cessavano mai del tutto, qualche bestia si aggirava comunque, ma era isolata, stanca. Allora quel regno dell’abisso diventava suo. Poteva sfidare quel mondo oscuro e contendersi con gli altri derelitti come lui quel poco di cibo che si riusciva a rimediare.
Niente cooperazione con gli altri. Solo artigli e zanne snudate. Un tempo era stato forte, ma ora… La fame e i miasmi di luogo l’avevano fiaccato. E gli altri, oh sì, ne era certo, si erano alleati contro di lui. Avevano complottato, lo temevano, e l’avevano aggredito.
Vigliacchi.
Pioveva, quella notte. Un’acqua densa, unta, di quelle che se provavi a bere cagavi anche quello che non avevi mangiato. Si era nascosto in un anfratto, a leccarsi le ferite. Odiava quel mondo che l’aveva gettato nell’abisso. Un odio puro, così intenso da coprire il dolore della carne. Zoppicava e senza la sua agilità come poteva cacciare? Sarebbe morto lì. Lui, che un tempo era il migliore tra i predatori.
Ora era solo fame. Nera e profonda, che lo consumava dall’interno. Fame e una rabbia cieca.
Poi, una di quelle creature che vagavano di giorno l’aveva preso. Aveva urlato, dimenato. Ma era così stanco, così dolorante… Solo un verso strozzato era uscito dalla sua gola.
Patetico.
È così che finisce un predatore caduto?
Lo spazio dove l’aveva portato non era piccolo e qualcosa copriva il cielo, ma nessun mostro ruggente girava nei paraggi. Niente più sole slavato, o pioggia puzzolente. Anche gli odori erano diversi, alieni.
Perché lo aveva rapito? Per giocare, stuzzicarlo? Mangiarlo non poteva. Quelli non erano predatori, era lui quello da temere! Non avevano artigli o zanne. Erano lenti e goffi, l’unico vantaggio era la dimensione e gli arti lunghi che lo afferravano ovunque tentasse di scappare. La prima volta che, in preda al terrore, aveva provato a nascondersi in qualche affranto, la creatura l’aveva preso e portato in un angolo.
Un angolo con del cibo.
Aveva guardato con sospetto la carne grassa e succosa. Ma l’orgoglio ebbe vita breve contro la fame.
Mangiò così tanto che la notte vomitò.
La creatura gli dava cibo e acqua due volte al giorno, certo, ma non poteva uscire né allontanarsi da quello spazio in cui l’aveva confinato. Era ampio, caldo, e al sicuro dai mostri là fuori. Ma restava una prigione. La creatura tentava di afferrarlo, di sollevarlo da terra. Le prime volte aveva dovuto lasciarla fare. Ma ora, pasto dopo pasto, riprendeva forza. Snudava gli artigli e colpiva quella creatura gigantesca. Se doveva morire, che almeno lo facesse combattendo. Lei, però, dopo aver assaggiato il suo odio si ritraeva e non lo attaccava mai.
Tornavano finalmente a temerlo.
Quel luogo era curioso, diverso dal fondo dell’abisso. Gli spazi aperti si alternavano a ripari e cunicoli, poteva saltare lungo le pareti su ripiani sempre più alti. Lì osservava ogni cosa. Era il suo regno e lui l’apex predator. Si avvicinava di soppiatto e balzava contro la creatura.
Lei saltava via, evitava gli artigli. Diceva qualcosa nella sua lingua incomprensibile, non parevano mai parole arrabbiate, o spaventate. Ogni volta che gli parlava il suo tono si faceva strano, buffo. Non capiva e questo lo disorientava.
Spesso, quando dormiva, lei veniva a toccarlo. Passava la grande zampa sulla sua testa e sul corpo. Le prime volte aveva provato a morderla, ma poi ci aveva rinunciato. Non serviva a niente, lei tornava dopo un po’ e ora la lasciava fare. Era quasi… piacevole. Non poteva ammetterlo a sé stesso, ma quando lo solleticava sotto il mento gli dava un fremito per tutto il corpo che risuonava vibrante in gola.
Faceva fatica a capire quella creatura. Gli portava il cibo cacciato per lui, ma non mostrava paura o reverenza, non lo venerava. Né ricambiava il suo odio, anzi. La sentiva diversa quando era al suo fianco, quando gli dava da mangiare o provava ad accarezzarlo. Era felice quando lui, scocciato, si lasciava toccare.
Quando con il naso umido le aveva toccato la mano, lei era andata in visibilio e aveva poggiato il grosso muso piatto e senza peli al suo. Fu una sensazione bella. Diversa. Di quelle che aveva dimenticato. Forse poteva lasciare l’odio in fondo all’abisso, nella pioggia e nel buio.
Il buio e il caos di un mondo terribile l’avevano investito. Il sole faceva capolino di rado, dalla sommità dell’abisso in cui era precipitato. Una luce fioca e malata si univa a una cacofonia mostruosa, ruggiti vibranti di infiniti esseri scuotevano la terra. Altre creature gigantesche e meno rumorose popolavano quel dedalo sul fondo dell’abisso. Passavano veloci, indifferenti a tutto. Era un ardire sfidare la loro marcia, quelle zampe trafelate potevano calpestarlo senza neanche accorgersene. Poteva solo nascondersi e aspettare.
La notte i mostri si chetavano e il buio portava una calma apparente. I rumori non cessavano mai del tutto, qualche bestia si aggirava comunque, ma era isolata, stanca. Allora quel regno dell’abisso diventava suo. Poteva sfidare quel mondo oscuro e contendersi con gli altri derelitti come lui quel poco di cibo che si riusciva a rimediare.
Niente cooperazione con gli altri. Solo artigli e zanne snudate. Un tempo era stato forte, ma ora… La fame e i miasmi di luogo l’avevano fiaccato. E gli altri, oh sì, ne era certo, si erano alleati contro di lui. Avevano complottato, lo temevano, e l’avevano aggredito.
Vigliacchi.
Pioveva, quella notte. Un’acqua densa, unta, di quelle che se provavi a bere cagavi anche quello che non avevi mangiato. Si era nascosto in un anfratto, a leccarsi le ferite. Odiava quel mondo che l’aveva gettato nell’abisso. Un odio puro, così intenso da coprire il dolore della carne. Zoppicava e senza la sua agilità come poteva cacciare? Sarebbe morto lì. Lui, che un tempo era il migliore tra i predatori.
Ora era solo fame. Nera e profonda, che lo consumava dall’interno. Fame e una rabbia cieca.
Poi, una di quelle creature che vagavano di giorno l’aveva preso. Aveva urlato, dimenato. Ma era così stanco, così dolorante… Solo un verso strozzato era uscito dalla sua gola.
Patetico.
È così che finisce un predatore caduto?
Lo spazio dove l’aveva portato non era piccolo e qualcosa copriva il cielo, ma nessun mostro ruggente girava nei paraggi. Niente più sole slavato, o pioggia puzzolente. Anche gli odori erano diversi, alieni.
Perché lo aveva rapito? Per giocare, stuzzicarlo? Mangiarlo non poteva. Quelli non erano predatori, era lui quello da temere! Non avevano artigli o zanne. Erano lenti e goffi, l’unico vantaggio era la dimensione e gli arti lunghi che lo afferravano ovunque tentasse di scappare. La prima volta che, in preda al terrore, aveva provato a nascondersi in qualche affranto, la creatura l’aveva preso e portato in un angolo.
Un angolo con del cibo.
Aveva guardato con sospetto la carne grassa e succosa. Ma l’orgoglio ebbe vita breve contro la fame.
Mangiò così tanto che la notte vomitò.
La creatura gli dava cibo e acqua due volte al giorno, certo, ma non poteva uscire né allontanarsi da quello spazio in cui l’aveva confinato. Era ampio, caldo, e al sicuro dai mostri là fuori. Ma restava una prigione. La creatura tentava di afferrarlo, di sollevarlo da terra. Le prime volte aveva dovuto lasciarla fare. Ma ora, pasto dopo pasto, riprendeva forza. Snudava gli artigli e colpiva quella creatura gigantesca. Se doveva morire, che almeno lo facesse combattendo. Lei, però, dopo aver assaggiato il suo odio si ritraeva e non lo attaccava mai.
Tornavano finalmente a temerlo.
Quel luogo era curioso, diverso dal fondo dell’abisso. Gli spazi aperti si alternavano a ripari e cunicoli, poteva saltare lungo le pareti su ripiani sempre più alti. Lì osservava ogni cosa. Era il suo regno e lui l’apex predator. Si avvicinava di soppiatto e balzava contro la creatura.
Lei saltava via, evitava gli artigli. Diceva qualcosa nella sua lingua incomprensibile, non parevano mai parole arrabbiate, o spaventate. Ogni volta che gli parlava il suo tono si faceva strano, buffo. Non capiva e questo lo disorientava.
Spesso, quando dormiva, lei veniva a toccarlo. Passava la grande zampa sulla sua testa e sul corpo. Le prime volte aveva provato a morderla, ma poi ci aveva rinunciato. Non serviva a niente, lei tornava dopo un po’ e ora la lasciava fare. Era quasi… piacevole. Non poteva ammetterlo a sé stesso, ma quando lo solleticava sotto il mento gli dava un fremito per tutto il corpo che risuonava vibrante in gola.
Faceva fatica a capire quella creatura. Gli portava il cibo cacciato per lui, ma non mostrava paura o reverenza, non lo venerava. Né ricambiava il suo odio, anzi. La sentiva diversa quando era al suo fianco, quando gli dava da mangiare o provava ad accarezzarlo. Era felice quando lui, scocciato, si lasciava toccare.
Quando con il naso umido le aveva toccato la mano, lei era andata in visibilio e aveva poggiato il grosso muso piatto e senza peli al suo. Fu una sensazione bella. Diversa. Di quelle che aveva dimenticato. Forse poteva lasciare l’odio in fondo all’abisso, nella pioggia e nel buio.