Non è così che ce la raccontano
Inviato: lunedì 19 maggio 2025, 23:47
La luce del neon riflette sullo stetoscopio. I bagliori azzurri ondeggiano sulle pareti bianche. Stritolo il laccio di gomma tra dita sudate e ansia. La pressione mi fa rimbombare le orecchie e il cuore ha deciso di andarsene e di tirarsi d'impaccio, di scappare codardo. Dondolo le gambe giù dal lettino.
Afferro le analisi del signor Di Giovanni, 79 anni. Non metto a fuoco gli asterischi, le doppie linee e i cerchi rossi. Le conosco a memoria; le ricorderò per sempre.
Sobbalzo, è solo la porta. Claudio, con una smorfia degna di un teatrante navigato, fronte corrucciata a mettere in evidenza le rughe, mi porge gli esami che ho richiesto d’urgenza. Sono del signor Battista, 81 anni. «Marco, massimo cinque minuti.»
Fisso le mie Crocs verdi. Non è così che da piccolo mi immaginavo fare il dottore. Mi vedevo tra ossa estratte al volo, taglia e cuci veloce, sangue a zampilli e miracolose guarigioni degne di Lazzaro. Nessuno spiega a un bambino cosa sia essere un medico. Perché medico si è, non si fa e… Sto perdendo tempo. Devo scegliere. Ho già scelto, chi voglio prendere in giro?
Mi alzo facendo leva sulle braccia. Dannazione a me, e al cambio turno che ho fatto alla Donzelli. Un profondo respiro. Mi fiondo in corridoio. Scatto veloce illudendomi di seminare l’odore di umanità. I suoni arrivano come in una video call con connessione lenta, a scatti, gracchianti. Scivolo tra lettini d’emergenza, aste, padelle e bombole d’ossigeno.
Evito il contatto visivo. Dritto alla meta, se mi fermo è finita.
«Marco!» Il professor Baccelli esce dalla sala 2 e prova a intercettarmi.
Lo fermo con una manata decisa sull'avambraccio. «Non adesso.»
«Aspetta.» Non demorde. «Sei sicuro? Lascia perdere. Sono solo rogne con parenti e avvocati.»
Le unghie mi trafiggono i palmi. 'Lascia perdere'. Non posso averlo sentito. La terapia intensiva è sulla destra. Claudio è sulla soglia pronto per aiutarmi nella vestizione. Gli porgo la mano. «Grazie.»
Lui la stringe e mi tira dentro con forza. Chiude la porta di colpo, il botto scaccia il putiferio della corsia. Il silenzio si impossessa della mia anima.
Tolgo il camice. «I documenti?» È una formalità chiedere.
«È già tutto pronto.» Il suo tono è asciutto, neutro, quasi meccanico.
Apro l’acqua del lavabo e inizio a sfregare il sapone, con violenza. Il fastidio sulla pelle impedisce al cervello limbico di andare nel panico. Sfrego e sfrego. «Sapevi chi avrei scelto ancora prima di portarmi le cartelle, vero?»
Non risponde. Doveva smontare quattro ore fa, ma è qui.
Entro dai sospesi. Uomini e donne, tra la vita e la morte, incoscienti. L’odore di detergente rende l’aria solida, nonostante la mascherina e il casco. I led dei macchinari e lo sfiato dei ventilatori polmonari sono l’unico segno di vita. Corpi a pancia in giù su letti di aghi e tubi. La Matrix del reparto malattie infettive.
Il corpo del signor Di Giovanni, 79 anni, centodue chili il giorno del ricovero, cinquantasette ieri mattina, è alla A3. Un’ultima telefonata a casa, le lacrime, la speranza di essere svegliato. Oggi tocca a lui liberare il posto per l’emergenza posti letti.
La dottoressa Stamperi è la mia seconda. Faccio un cenno con la mano e iniziamo. Lenti e impacciati da strati di gomma, con la cura che il momento richiede, rimuoviamo le somministrazioni endovenose degli antivirali, le sonde gastriche, i drenaggi.
Mi porto davanti al signor Di Giovanni, 79 anni. «Perdonami, Paolo.» Termino l'estubazione.
La macchina organizzativa si mette in moto. Ogni minuto è prezioso per il signor Battista, 81 anni, migliori speranze di vita.
Claudio mi aiuta a spogliarmi. Lo guardo. «Non è così che ce la raccontano all'università…»
Lui ricambia lo sguardo e tace.
Stringo con forza la maniglia della porta, è fredda. Osservo le nocche diventare bianche. «E sai qual è la cosa peggiore?»
«Sì»
«Già.»
Torno a dondolare le gambe sul lettino, fisso le Crocs verdi.
Afferro le analisi del signor Di Giovanni, 79 anni. Non metto a fuoco gli asterischi, le doppie linee e i cerchi rossi. Le conosco a memoria; le ricorderò per sempre.
Sobbalzo, è solo la porta. Claudio, con una smorfia degna di un teatrante navigato, fronte corrucciata a mettere in evidenza le rughe, mi porge gli esami che ho richiesto d’urgenza. Sono del signor Battista, 81 anni. «Marco, massimo cinque minuti.»
Fisso le mie Crocs verdi. Non è così che da piccolo mi immaginavo fare il dottore. Mi vedevo tra ossa estratte al volo, taglia e cuci veloce, sangue a zampilli e miracolose guarigioni degne di Lazzaro. Nessuno spiega a un bambino cosa sia essere un medico. Perché medico si è, non si fa e… Sto perdendo tempo. Devo scegliere. Ho già scelto, chi voglio prendere in giro?
Mi alzo facendo leva sulle braccia. Dannazione a me, e al cambio turno che ho fatto alla Donzelli. Un profondo respiro. Mi fiondo in corridoio. Scatto veloce illudendomi di seminare l’odore di umanità. I suoni arrivano come in una video call con connessione lenta, a scatti, gracchianti. Scivolo tra lettini d’emergenza, aste, padelle e bombole d’ossigeno.
Evito il contatto visivo. Dritto alla meta, se mi fermo è finita.
«Marco!» Il professor Baccelli esce dalla sala 2 e prova a intercettarmi.
Lo fermo con una manata decisa sull'avambraccio. «Non adesso.»
«Aspetta.» Non demorde. «Sei sicuro? Lascia perdere. Sono solo rogne con parenti e avvocati.»
Le unghie mi trafiggono i palmi. 'Lascia perdere'. Non posso averlo sentito. La terapia intensiva è sulla destra. Claudio è sulla soglia pronto per aiutarmi nella vestizione. Gli porgo la mano. «Grazie.»
Lui la stringe e mi tira dentro con forza. Chiude la porta di colpo, il botto scaccia il putiferio della corsia. Il silenzio si impossessa della mia anima.
Tolgo il camice. «I documenti?» È una formalità chiedere.
«È già tutto pronto.» Il suo tono è asciutto, neutro, quasi meccanico.
Apro l’acqua del lavabo e inizio a sfregare il sapone, con violenza. Il fastidio sulla pelle impedisce al cervello limbico di andare nel panico. Sfrego e sfrego. «Sapevi chi avrei scelto ancora prima di portarmi le cartelle, vero?»
Non risponde. Doveva smontare quattro ore fa, ma è qui.
Entro dai sospesi. Uomini e donne, tra la vita e la morte, incoscienti. L’odore di detergente rende l’aria solida, nonostante la mascherina e il casco. I led dei macchinari e lo sfiato dei ventilatori polmonari sono l’unico segno di vita. Corpi a pancia in giù su letti di aghi e tubi. La Matrix del reparto malattie infettive.
Il corpo del signor Di Giovanni, 79 anni, centodue chili il giorno del ricovero, cinquantasette ieri mattina, è alla A3. Un’ultima telefonata a casa, le lacrime, la speranza di essere svegliato. Oggi tocca a lui liberare il posto per l’emergenza posti letti.
La dottoressa Stamperi è la mia seconda. Faccio un cenno con la mano e iniziamo. Lenti e impacciati da strati di gomma, con la cura che il momento richiede, rimuoviamo le somministrazioni endovenose degli antivirali, le sonde gastriche, i drenaggi.
Mi porto davanti al signor Di Giovanni, 79 anni. «Perdonami, Paolo.» Termino l'estubazione.
La macchina organizzativa si mette in moto. Ogni minuto è prezioso per il signor Battista, 81 anni, migliori speranze di vita.
Claudio mi aiuta a spogliarmi. Lo guardo. «Non è così che ce la raccontano all'università…»
Lui ricambia lo sguardo e tace.
Stringo con forza la maniglia della porta, è fredda. Osservo le nocche diventare bianche. «E sai qual è la cosa peggiore?»
«Sì»
«Già.»
Torno a dondolare le gambe sul lettino, fisso le Crocs verdi.