La notte non è nostra - Eleonora Rossetti
Inviato: martedì 20 ottobre 2015, 0:44
Avrei dovuto fermarti prima.
Il nostro primo bicchiere, te lo ricordi? Io no, ma di sicuro mi ricordo l’ultimo. Alcol che scorre come un fiume. Come sangue.
Avrei dovuto fermarti prima. Non è questo il compito di un migliore amico?
Il copione si ripeteva ogni sabato sera. Arrivati al pub, un Daiquiri. Cuba libre, doppio giro. In discoteca, poi, perdevo il conto. Come facevi ad avere così tanta sete? Ancora non capisco cosa ti spingesse in quella folle gara contro te stesso, con o senza pubblico. Sfidavi il tuo ego, ti costruivi una reputazione a colpi di drink, o almeno ne eri convinto: una fama che, però, ai tuoi genitori non sarebbe piaciuta affatto. Santo di giorno e trasgressore di notte: eccolo, il Batman dell’alta gradazione. E io sono stato il tuo Robin per un po’, a suon di brindisi, senza però superare il punto di non ritorno.
Tu quel limite non ce l’avevi. La notte era diventata il tuo habitat, un’oscurità spezzata dalle luci della discoteca, tra ragazze da abbindolare con il fiato che puzzava di tequila e gabinetti disastrati in cui riversare, a faccia in giù, ogni fallimento. Non ti fermavi neanche alle prime avvisaglie, come se tra ghiaccio, alcol e cannuccia ci fosse un divertimento o una dignità che non potevi trovare da nessuna parte. E quando anche essere Batman non ti bastava, in un lampo ti tramutavi in un novello Peter Pan, con la polvere di fata che ti procuravi dagli spacciatori all’angolo.
La notte era nostra, mi ripetevi, e tu ti lasciavi andare in caduta libera, protetto dall’anonimato di un mondo che di giorno svaniva per incanto, ebbro di una libertà che assaporavi, letteralmente, goccia dopo goccia.
Era quello l’unico sballo? Non credo.
So soltanto che avrei dovuto fermarti quando, ubriaco fradicio, hai voluto raggiungere l’auto per tornare a casa. Mi hai urlato contro, non hai voluto ascoltarmi. Mi hai anche rifilato un pugno nel delirio della sbronza, facendomi perdere i sensi quel tanto che è bastato per far perdere le tue tracce: il parcheggio vuoto, i segni della sgommata alla partenza. Ti avevo perso e chissà dov’eri.
Avrei dovuto fermarti prima, quando ero ancora in tempo per entrambi.
Ti ho trovato solo un’ora dopo, quando i tuoi fari mi sono piombati addosso mentre tornavo a casa. Ricordo poco dello schianto, e ora non vedo altro che lamiere, e il sangue che cola sull’asfalto... il mio sangue. E quelle luci lampeggianti... forse sono gli strobo della discoteca, forse mi sto sognando tutto. Poi sento delle voci concitate e la tua, impastata e delirante, mentre grondi di pianto e invochi il mio nome.
La notte era nostra, dicevi sempre. Forse non è vero. Forse è il contrario.
Avrei dovuto fermarti prima, e ora il buio che mi scivola addosso mi fa paura.
Il nostro primo bicchiere, te lo ricordi? Io no, ma di sicuro mi ricordo l’ultimo. Alcol che scorre come un fiume. Come sangue.
Avrei dovuto fermarti prima. Non è questo il compito di un migliore amico?
Il copione si ripeteva ogni sabato sera. Arrivati al pub, un Daiquiri. Cuba libre, doppio giro. In discoteca, poi, perdevo il conto. Come facevi ad avere così tanta sete? Ancora non capisco cosa ti spingesse in quella folle gara contro te stesso, con o senza pubblico. Sfidavi il tuo ego, ti costruivi una reputazione a colpi di drink, o almeno ne eri convinto: una fama che, però, ai tuoi genitori non sarebbe piaciuta affatto. Santo di giorno e trasgressore di notte: eccolo, il Batman dell’alta gradazione. E io sono stato il tuo Robin per un po’, a suon di brindisi, senza però superare il punto di non ritorno.
Tu quel limite non ce l’avevi. La notte era diventata il tuo habitat, un’oscurità spezzata dalle luci della discoteca, tra ragazze da abbindolare con il fiato che puzzava di tequila e gabinetti disastrati in cui riversare, a faccia in giù, ogni fallimento. Non ti fermavi neanche alle prime avvisaglie, come se tra ghiaccio, alcol e cannuccia ci fosse un divertimento o una dignità che non potevi trovare da nessuna parte. E quando anche essere Batman non ti bastava, in un lampo ti tramutavi in un novello Peter Pan, con la polvere di fata che ti procuravi dagli spacciatori all’angolo.
La notte era nostra, mi ripetevi, e tu ti lasciavi andare in caduta libera, protetto dall’anonimato di un mondo che di giorno svaniva per incanto, ebbro di una libertà che assaporavi, letteralmente, goccia dopo goccia.
Era quello l’unico sballo? Non credo.
So soltanto che avrei dovuto fermarti quando, ubriaco fradicio, hai voluto raggiungere l’auto per tornare a casa. Mi hai urlato contro, non hai voluto ascoltarmi. Mi hai anche rifilato un pugno nel delirio della sbronza, facendomi perdere i sensi quel tanto che è bastato per far perdere le tue tracce: il parcheggio vuoto, i segni della sgommata alla partenza. Ti avevo perso e chissà dov’eri.
Avrei dovuto fermarti prima, quando ero ancora in tempo per entrambi.
Ti ho trovato solo un’ora dopo, quando i tuoi fari mi sono piombati addosso mentre tornavo a casa. Ricordo poco dello schianto, e ora non vedo altro che lamiere, e il sangue che cola sull’asfalto... il mio sangue. E quelle luci lampeggianti... forse sono gli strobo della discoteca, forse mi sto sognando tutto. Poi sento delle voci concitate e la tua, impastata e delirante, mentre grondi di pianto e invochi il mio nome.
La notte era nostra, dicevi sempre. Forse non è vero. Forse è il contrario.
Avrei dovuto fermarti prima, e ora il buio che mi scivola addosso mi fa paura.