Strukul Edition - Saggezza Popolare
Inviato: sabato 9 gennaio 2016, 17:27
Doveva essere la cosa più bella, il momento che avrebbe realizzato la sua vita. La verità? Alekseyev l'aveva pronta: un sonoro, gigantesco, profondamente sentito fanculo!
Eppure non poteva negarlo: era innamorato.
Anche il solo pensare a quel nome lo faceva sciogliere, avvampare, eccitare.
E quegli occhi? Per quelli non riusciva a trovare parole perché vi si perdeva, ci naufragava, insomma soccombeva alla loro bellezza.
Allora perché riassumeva il suo amore con quel rancoroso, caldo, onesto insulto?
Scosse la testa, doveva continuare a correre, senza fermarsi, stringendo i denti per ignorare le fitte di dolore al fianco, il catarro che si accumulava nella gola, la pesantezza dei polpacci. Correre un passo dietro l'altro, sempre più veloce, sbattendo le palpebre per allontanare il bruciore dovuto al copioso sudore sul viso, cercando di discernere tra il rombo dei battiti e i rumori che venivano da fuori.
Da sempre quella era la parte più difficile: quando il suo cuore batteva così velocemente e violentemente da annullare gli altri suoni gli era impossibile capire se qualcuno stava arrivando, da dove, chi fossero i suoi inseguitori.
Ah, l'amore! Era così giovane. Quanti anni? Quattordici? Ne erano passati di anni e di nomi, e lei sempre fedelmente al suo fianco. Con i suoi colori: quel rosso sgargiante e pulsante, così vivo, accompagnato da uno più scuro, quasi denso, così consumato, e il grigio biancastro che lei sparpagliava con impredibilità, quel bianco, quasi un grigio perlaceo, così poco cerebrale, che facilmente si sporcava del sangue che a sua volta contaminava? Un brivido, scariche di adrenalina accentuate da voci scricchiolanti, urlanti, terrorizzate.
E come poteva non amarla quando lei sapeva come provocarlo? Alekseyev era sempre in attesa perché non sapeva quando lei sarebbe venuta a trovarlo o lo avrebbe sorpreso indicandogli un altro nome, un'altra sfumatura da aggiungere alle tante che aveva conosciuto e rielaborato secondo la sua ispirazione.
E l'imprevisto? Oh, in quello lei era maestra: in quel momento doveva fuggire dagli ufficiali che lo inseguivano.
Una sua sorpresa.
Lei voleva che fosse il suo mezzo, colui che realizzava le sue granguignolesche fantasie, ma per questo doveva testarlo, metterlo alla prova, tenerlo sul chi vive.
Il dolore lo costrinse a sbattere le palpebre, agitare le braccia in cerca di un appiglio, annaspare in cerca di aria quando toccò violentemente il suolo.
E allora, solo allora, la sua risata ruppe la monotonia del rombo del suo cuore coprendo le urla dei poliziotti ai quali, lo dedusse dalla fitta al petto sempre più dolorosa dopo ogni respiro, era sfuggito qualche calcio, e qualche pugno e manganellata di troppo.
Ma Alekseyev era abituato al dolore a infligerlo e a riceverlo. Perché quello era il suo preliminare più amato.
E ora doveva lasciarla: sapeva bene che tutti gli omicidi, tutto il sangue, le ossa spezzate, i corpi
smembrati, la sua arte erano la sua condanna.
Fanculo, perché si era innamorato della morte e si sentiva vivo e felice con il sangue che ribolliva e gli ormoni che si scatenavano solo quando sfondava un cranio o i timpani gli facevano male per le urla di dolore delle sue vittime?
Scosse la testa rassegnato, lui era un uomo semplice e sapeva che la risposta era nella saggezza dei nonni, in quel detto che per molti era solo stupida arretratezza: "al cuor non si comanda!"
Eppure non poteva negarlo: era innamorato.
Anche il solo pensare a quel nome lo faceva sciogliere, avvampare, eccitare.
E quegli occhi? Per quelli non riusciva a trovare parole perché vi si perdeva, ci naufragava, insomma soccombeva alla loro bellezza.
Allora perché riassumeva il suo amore con quel rancoroso, caldo, onesto insulto?
Scosse la testa, doveva continuare a correre, senza fermarsi, stringendo i denti per ignorare le fitte di dolore al fianco, il catarro che si accumulava nella gola, la pesantezza dei polpacci. Correre un passo dietro l'altro, sempre più veloce, sbattendo le palpebre per allontanare il bruciore dovuto al copioso sudore sul viso, cercando di discernere tra il rombo dei battiti e i rumori che venivano da fuori.
Da sempre quella era la parte più difficile: quando il suo cuore batteva così velocemente e violentemente da annullare gli altri suoni gli era impossibile capire se qualcuno stava arrivando, da dove, chi fossero i suoi inseguitori.
Ah, l'amore! Era così giovane. Quanti anni? Quattordici? Ne erano passati di anni e di nomi, e lei sempre fedelmente al suo fianco. Con i suoi colori: quel rosso sgargiante e pulsante, così vivo, accompagnato da uno più scuro, quasi denso, così consumato, e il grigio biancastro che lei sparpagliava con impredibilità, quel bianco, quasi un grigio perlaceo, così poco cerebrale, che facilmente si sporcava del sangue che a sua volta contaminava? Un brivido, scariche di adrenalina accentuate da voci scricchiolanti, urlanti, terrorizzate.
E come poteva non amarla quando lei sapeva come provocarlo? Alekseyev era sempre in attesa perché non sapeva quando lei sarebbe venuta a trovarlo o lo avrebbe sorpreso indicandogli un altro nome, un'altra sfumatura da aggiungere alle tante che aveva conosciuto e rielaborato secondo la sua ispirazione.
E l'imprevisto? Oh, in quello lei era maestra: in quel momento doveva fuggire dagli ufficiali che lo inseguivano.
Una sua sorpresa.
Lei voleva che fosse il suo mezzo, colui che realizzava le sue granguignolesche fantasie, ma per questo doveva testarlo, metterlo alla prova, tenerlo sul chi vive.
Il dolore lo costrinse a sbattere le palpebre, agitare le braccia in cerca di un appiglio, annaspare in cerca di aria quando toccò violentemente il suolo.
E allora, solo allora, la sua risata ruppe la monotonia del rombo del suo cuore coprendo le urla dei poliziotti ai quali, lo dedusse dalla fitta al petto sempre più dolorosa dopo ogni respiro, era sfuggito qualche calcio, e qualche pugno e manganellata di troppo.
Ma Alekseyev era abituato al dolore a infligerlo e a riceverlo. Perché quello era il suo preliminare più amato.
E ora doveva lasciarla: sapeva bene che tutti gli omicidi, tutto il sangue, le ossa spezzate, i corpi
smembrati, la sua arte erano la sua condanna.
Fanculo, perché si era innamorato della morte e si sentiva vivo e felice con il sangue che ribolliva e gli ormoni che si scatenavano solo quando sfondava un cranio o i timpani gli facevano male per le urla di dolore delle sue vittime?
Scosse la testa rassegnato, lui era un uomo semplice e sapeva che la risposta era nella saggezza dei nonni, in quel detto che per molti era solo stupida arretratezza: "al cuor non si comanda!"