Rosaspina ovvero la persecuzione
Inviato: domenica 24 aprile 2016, 23:36
Accidenti, nella fretta di consegnare stavo dimenticando il commento sulle mie scelte! Rimedio subito:
Commento: ho scelto di affrontare per il mio racconto il genere fantastico-fiabesco, sulla scia delle Fiabe Italiane di Calvino che ho amato e continuo ad amare. Anche nella trilogia degli Antenati ho ritrovato atmosfere e personaggi tipici della fiaba, così mi è risultato quasi naturale optare per questa soluzione. Riguardo allo stile, ho cercato di riprodurre l'uso frequente di Calvino dell'elisione e del troncamento (cent'anni, gran baffi, s'addormentò, m'ha tenuta); i nomi buffi e improbabili di certi personaggi (il principe Beltrando, l'arciduca Usbergo); l'ironia (si accorse che mancava la cosa più importante: sua moglie); certi elementi surreali (l'antagonista fa di mestiere quello di ammazzare i ricchi); certe espressioni che io non userei nel mio stile ma che ho trovato efficaci (era nella prima giovinezza; vestito e acconciato con grande proprietà). Buona lettura!
ROSASPINA OVVERO LA PERSECUZIONE
C’era una principessa, sapete, a nome Rosaspina. Ma non quella Rosaspina che aveva dormito per cent’anni ed era stata risvegliata dal bacio del principe; questa era una diversa Rosaspina, più grassottella di quell’altra. Era nella prima giovinezza e il re suo padre l’aveva rinchiusa in uno stanzino sulla torre più alta del castello, perché era molto geloso.
Un giorno fu introdotto alla presenza del re un giovane forestiero, nerastro di pelle e con dei gran baffi, ma molto elegante, vestito e acconciato con grande proprietà. Chiedeva la mano della principessa e si presentò come Beltrando dei Magagnò, principe di Maganza. Al re piacque di prendere questo giovane di sangue reale come marito per sua figlia, e acconsentì. A Rosaspina piacque un po’ meno, e protestò con forza: «Non mi piacciono gli uomini coi baffi! Non lo voglio!»
E il re: «È un principe e te lo farai piacere, con o senza baffi.»
Così le nozze si fecero, con gran disappunto di Rosaspina, che però era anche contenta di levarsi dalla tirannia di suo padre. Al termine della cerimonia, gli sposi partirono subito in carrozza. Ed ecco che, invece di seguitare per la strada maestra, il cocchiere prese per il folto del bosco.
Quando furono ben lontani dal paese, la carrozza si fermò. Il marito di Rosaspina si levò un pugnale dalla tasca, lo puntò alla gola della sposa terrorizzata e le disse: «Ora, mia cara, sei in mia potestà. Devi sapere che io sono un rivoluzionario e di mestiere ammazzo i nobili e la gente ricca. Ma mi serve qualcuno che resti a far la guardia alla mia casa, quando sono via.»
Così dicendo, il falso principe portò Rosaspina nella sua dimora, che si trovava in riva al mare. La legò a un albero con una grossa catena e la lasciò lì, sola soletta, a far la guardia alla casa.
Mentre il falso principe era via per ammazzare la gente nobile e ricca, Rosaspina si annoiava, legata a una catena come un cane. Allora prese a guardare le navi che solcavano il mare. Una passò molto vicino alla costa e la principessa cominciò a far segni perché la vedessero. Ma nessun bastimento passava tanto vicino da accorgersi di lei e dei suoi patimenti.
Quando il marito tornò a casa, Rosaspina lo supplicò di liberarla. «Non scapperò, lo giuro!» gridò a mani giunte. Il falso principe si lasciò commuovere e le tolse la catena, portandola in casa. «Bada» le disse, in tono minaccioso, «qui tengo tutte le ricchezze della gente che ho ammazzato. Puoi girovagare per casa quanto ti pare, ma non azzardarti a rubar qualcosa. Se lo farai, me n’accorgerò e me la pagherai!»
Il giorno dopo il marito era di nuovo via per ammazzare i nobili e i ricchi. Rosaspina gironzolò per tutte le stanze della casa, ammirando i forzieri d’oro, di diamanti e di pietre preziose che il falso principe aveva sottratto alle sue vittime. L’ultima stanza era piena fino al soffitto di balle di cotone. Rosaspina entrò, s’accoccolò in mezzo al cotone e s’addormentò.
Quando lo sposo tornò, la prima cosa che fece fu controllare che non mancasse nulla nelle stanze dei tesori. Ma dopo un giro di ricognizione s’accorse che mancava la cosa più importante: sua moglie. La cercò nella stanza degli ori: niente; la cercò in quella dei diamanti: niente; la cercò in quella delle pietre preziose: ancora niente. Per ultimo la cercò nella stanza del cotone.
Rosaspina s’era talmente calata nel cotone che v’era sprofondata e non si vedeva. Così lo sposo sguainò la spada e si mise a trafiggere le balle di cotone. A un certo punto la lama ferì un braccio ciccioso della ragazza, ma il cotone asciugò il sangue e la spada uscì pulita.
Quando il falso principe s’avvide che Rosaspina non era in casa, pensò che fosse riuscita a scappare e andò a cercarla in paese. Lei, lesta lesta, massaggiandosi il braccio dolorante, appena lo sposo fu uscito scappò per davvero e corse a chiedere aiuto.
Lì vicino passava un vero principe, in sella al suo destriero. Appena vide Rosaspina tutta trafelata, subito gli piacque quella ragazzona dalle gambe rosa e cicciottelle. Scese da cavallo e le andò incontro. Rosaspina gli disse d’essere di sangue reale e gli raccontò tutta la sua storia. Lui, che nel sentirla parlare se n’era digià innamorato, la prese con sé e la portò al castello.
Sei mesi più tardi il principe e Rosaspina si sposavano. Durante il banchetto nuziale si presentò un ricco signore forestiero dal nome altisonante di Usbergo dei Filastò, arciduca di Moldavia. Era un gran parlatore, tutto sdilinquimenti e parole d’ammirazione per la principessa. Il principe era ammaliato dalle belle parole e dai salamelecchi dell’uomo.
Ma Rosaspina, che l’aveva riconosciuto per il suo primo sposo, anche se s’era tagliato i baffi, e, avendo studiato araldica, sapeva che la Moldavia di arciduchi non ne aveva, prese in disparte suo marito il principe e cercò di metterlo in guardia.
«Anche se è passato tanto tempo, non ho dubbi: quell’uomo è il mio primo marito, che di mestiere fa l’assassino dei nobili e dei ricchi e m’ha tenuta legata come un cane a far la guardia alla sua casa.»
«Ti sogni!» rispose il principe. «Non hai visto che eleganza ha, e che bei discorsi fa? Si vede che è un gran signore beneducato.» E non ci fu verso di convincerlo.
L’arciduca Usbergo offrì il vino delle sue proprietà a tutti gl’invitati e fece portare nel palazzo botti e barili e damigiane: ma nel vino era stato versato del narcotico in gran quantità. Tutti bevvero a più non posso, comprese le guardie, i dignitari, i ministri, i servitori e il principe per primo. Al termine della serata erano crollati in un sonno profondo.
Il primo marito di Rosaspina, l’unico a non aver bevuto quel vino, si rivolse alla principessa con due occhi iniettati di sangue: «Adesso sei nuovamente in mia potestà, e non v’è nessuno che possa soccorrerti. Finalmente avrò la mia vendetta.»
Poi si levò un lungo coltello dalla cintura e lo puntò al collo della ragazza. «Va’ a prendermi un catino d’acqua. Quando t’avrò sgozzata, mi servirà per lavarmi le mani dal sangue» le sibilò in faccia.
Potete immaginare Rosaspina! Invece di andare a prendere il catino, corse a svegliare suo marito. Ma per quanto lo scuotesse e facesse, il principe continuava a dormire. Quindi le toccò prendere il catino d’acqua e portarlo all’assassino. Quello stava affilando il coltello e appena la vide sogghignò. «Mi servono anche del sapone e un asciugamano. Va’ a prenderli.»
Rosaspina provò ancora una volta a svegliare suo marito: tutto inutile. Allora gli frugò nella cintura dei calzoni, estrasse un pugnale dal fodero e l’avvolse nell’asciugamano.
«Ce n’hai messo di tempo!» sbottò l’assassino vedendola tornare. «Dai qua.» Rosaspina, nell’atto di porgergli l’asciugamano, gli piantò una pugnalata in cuore. Al grido dell’uomo tutta la corte si svegliò e il principe e i suoi dignitari si precipitarono in direzione del trambusto.
La principessa aveva ancora il pugnale insanguinato in mano e rideva, rideva a più non posso. E quando il principe, inorridito, le tolse l’arma di tra le mani, lei continuò a ridere, fissando il lago di sangue che s’allargava sul pavimento, finalmente libera da quella persecuzione.
Commento: ho scelto di affrontare per il mio racconto il genere fantastico-fiabesco, sulla scia delle Fiabe Italiane di Calvino che ho amato e continuo ad amare. Anche nella trilogia degli Antenati ho ritrovato atmosfere e personaggi tipici della fiaba, così mi è risultato quasi naturale optare per questa soluzione. Riguardo allo stile, ho cercato di riprodurre l'uso frequente di Calvino dell'elisione e del troncamento (cent'anni, gran baffi, s'addormentò, m'ha tenuta); i nomi buffi e improbabili di certi personaggi (il principe Beltrando, l'arciduca Usbergo); l'ironia (si accorse che mancava la cosa più importante: sua moglie); certi elementi surreali (l'antagonista fa di mestiere quello di ammazzare i ricchi); certe espressioni che io non userei nel mio stile ma che ho trovato efficaci (era nella prima giovinezza; vestito e acconciato con grande proprietà). Buona lettura!
ROSASPINA OVVERO LA PERSECUZIONE
C’era una principessa, sapete, a nome Rosaspina. Ma non quella Rosaspina che aveva dormito per cent’anni ed era stata risvegliata dal bacio del principe; questa era una diversa Rosaspina, più grassottella di quell’altra. Era nella prima giovinezza e il re suo padre l’aveva rinchiusa in uno stanzino sulla torre più alta del castello, perché era molto geloso.
Un giorno fu introdotto alla presenza del re un giovane forestiero, nerastro di pelle e con dei gran baffi, ma molto elegante, vestito e acconciato con grande proprietà. Chiedeva la mano della principessa e si presentò come Beltrando dei Magagnò, principe di Maganza. Al re piacque di prendere questo giovane di sangue reale come marito per sua figlia, e acconsentì. A Rosaspina piacque un po’ meno, e protestò con forza: «Non mi piacciono gli uomini coi baffi! Non lo voglio!»
E il re: «È un principe e te lo farai piacere, con o senza baffi.»
Così le nozze si fecero, con gran disappunto di Rosaspina, che però era anche contenta di levarsi dalla tirannia di suo padre. Al termine della cerimonia, gli sposi partirono subito in carrozza. Ed ecco che, invece di seguitare per la strada maestra, il cocchiere prese per il folto del bosco.
Quando furono ben lontani dal paese, la carrozza si fermò. Il marito di Rosaspina si levò un pugnale dalla tasca, lo puntò alla gola della sposa terrorizzata e le disse: «Ora, mia cara, sei in mia potestà. Devi sapere che io sono un rivoluzionario e di mestiere ammazzo i nobili e la gente ricca. Ma mi serve qualcuno che resti a far la guardia alla mia casa, quando sono via.»
Così dicendo, il falso principe portò Rosaspina nella sua dimora, che si trovava in riva al mare. La legò a un albero con una grossa catena e la lasciò lì, sola soletta, a far la guardia alla casa.
Mentre il falso principe era via per ammazzare la gente nobile e ricca, Rosaspina si annoiava, legata a una catena come un cane. Allora prese a guardare le navi che solcavano il mare. Una passò molto vicino alla costa e la principessa cominciò a far segni perché la vedessero. Ma nessun bastimento passava tanto vicino da accorgersi di lei e dei suoi patimenti.
Quando il marito tornò a casa, Rosaspina lo supplicò di liberarla. «Non scapperò, lo giuro!» gridò a mani giunte. Il falso principe si lasciò commuovere e le tolse la catena, portandola in casa. «Bada» le disse, in tono minaccioso, «qui tengo tutte le ricchezze della gente che ho ammazzato. Puoi girovagare per casa quanto ti pare, ma non azzardarti a rubar qualcosa. Se lo farai, me n’accorgerò e me la pagherai!»
Il giorno dopo il marito era di nuovo via per ammazzare i nobili e i ricchi. Rosaspina gironzolò per tutte le stanze della casa, ammirando i forzieri d’oro, di diamanti e di pietre preziose che il falso principe aveva sottratto alle sue vittime. L’ultima stanza era piena fino al soffitto di balle di cotone. Rosaspina entrò, s’accoccolò in mezzo al cotone e s’addormentò.
Quando lo sposo tornò, la prima cosa che fece fu controllare che non mancasse nulla nelle stanze dei tesori. Ma dopo un giro di ricognizione s’accorse che mancava la cosa più importante: sua moglie. La cercò nella stanza degli ori: niente; la cercò in quella dei diamanti: niente; la cercò in quella delle pietre preziose: ancora niente. Per ultimo la cercò nella stanza del cotone.
Rosaspina s’era talmente calata nel cotone che v’era sprofondata e non si vedeva. Così lo sposo sguainò la spada e si mise a trafiggere le balle di cotone. A un certo punto la lama ferì un braccio ciccioso della ragazza, ma il cotone asciugò il sangue e la spada uscì pulita.
Quando il falso principe s’avvide che Rosaspina non era in casa, pensò che fosse riuscita a scappare e andò a cercarla in paese. Lei, lesta lesta, massaggiandosi il braccio dolorante, appena lo sposo fu uscito scappò per davvero e corse a chiedere aiuto.
Lì vicino passava un vero principe, in sella al suo destriero. Appena vide Rosaspina tutta trafelata, subito gli piacque quella ragazzona dalle gambe rosa e cicciottelle. Scese da cavallo e le andò incontro. Rosaspina gli disse d’essere di sangue reale e gli raccontò tutta la sua storia. Lui, che nel sentirla parlare se n’era digià innamorato, la prese con sé e la portò al castello.
Sei mesi più tardi il principe e Rosaspina si sposavano. Durante il banchetto nuziale si presentò un ricco signore forestiero dal nome altisonante di Usbergo dei Filastò, arciduca di Moldavia. Era un gran parlatore, tutto sdilinquimenti e parole d’ammirazione per la principessa. Il principe era ammaliato dalle belle parole e dai salamelecchi dell’uomo.
Ma Rosaspina, che l’aveva riconosciuto per il suo primo sposo, anche se s’era tagliato i baffi, e, avendo studiato araldica, sapeva che la Moldavia di arciduchi non ne aveva, prese in disparte suo marito il principe e cercò di metterlo in guardia.
«Anche se è passato tanto tempo, non ho dubbi: quell’uomo è il mio primo marito, che di mestiere fa l’assassino dei nobili e dei ricchi e m’ha tenuta legata come un cane a far la guardia alla sua casa.»
«Ti sogni!» rispose il principe. «Non hai visto che eleganza ha, e che bei discorsi fa? Si vede che è un gran signore beneducato.» E non ci fu verso di convincerlo.
L’arciduca Usbergo offrì il vino delle sue proprietà a tutti gl’invitati e fece portare nel palazzo botti e barili e damigiane: ma nel vino era stato versato del narcotico in gran quantità. Tutti bevvero a più non posso, comprese le guardie, i dignitari, i ministri, i servitori e il principe per primo. Al termine della serata erano crollati in un sonno profondo.
Il primo marito di Rosaspina, l’unico a non aver bevuto quel vino, si rivolse alla principessa con due occhi iniettati di sangue: «Adesso sei nuovamente in mia potestà, e non v’è nessuno che possa soccorrerti. Finalmente avrò la mia vendetta.»
Poi si levò un lungo coltello dalla cintura e lo puntò al collo della ragazza. «Va’ a prendermi un catino d’acqua. Quando t’avrò sgozzata, mi servirà per lavarmi le mani dal sangue» le sibilò in faccia.
Potete immaginare Rosaspina! Invece di andare a prendere il catino, corse a svegliare suo marito. Ma per quanto lo scuotesse e facesse, il principe continuava a dormire. Quindi le toccò prendere il catino d’acqua e portarlo all’assassino. Quello stava affilando il coltello e appena la vide sogghignò. «Mi servono anche del sapone e un asciugamano. Va’ a prenderli.»
Rosaspina provò ancora una volta a svegliare suo marito: tutto inutile. Allora gli frugò nella cintura dei calzoni, estrasse un pugnale dal fodero e l’avvolse nell’asciugamano.
«Ce n’hai messo di tempo!» sbottò l’assassino vedendola tornare. «Dai qua.» Rosaspina, nell’atto di porgergli l’asciugamano, gli piantò una pugnalata in cuore. Al grido dell’uomo tutta la corte si svegliò e il principe e i suoi dignitari si precipitarono in direzione del trambusto.
La principessa aveva ancora il pugnale insanguinato in mano e rideva, rideva a più non posso. E quando il principe, inorridito, le tolse l’arma di tra le mani, lei continuò a ridere, fissando il lago di sangue che s’allargava sul pavimento, finalmente libera da quella persecuzione.