Il generale meccanico - Andrea Dessardo
Inviato: giovedì 28 aprile 2016, 13:36
Commento.
Confesso che di Calvino avevo - ho tuttora - una conoscenza abbastanza superficiale: avevo letto alle elementari [i]Marcovaldo e negli anni del liceo prima Se una notte d'inverno un viaggiatore, che non mi era piaciuto, e poi Lezioni americane, che invece considero una lettura necessaria per chiunque voglia accostarsi alla scrittura, insieme al commento all'Orlando furioso, di cui l'anno scorso avevo letto alcuni passi. Più di recente, per fortuita coincidenza, avevo letto Il barone rampante, mentre per partecipare a questo certamen ho provveduto a leggere anche gli altri due episodi della Trilogia. Tutto ciò per dire che Calvino è un autore che apprezzo, ma che non avevo mai preso come modello: i miei autori preferiti sono Joseph Roth, Elias Canetti, Claudio Magris.
Non mi è stato troppo difficile tentare d'imitare la sua scrittura: la moltiplicazione abnorme dei dettagli, le descrizioni e le divagazioni già mi appartengono (sciaguratamente), è stato sufficiente provare a calarsi in un passato mitico e fare un calco dei racconti di Calvino. Sicché, purtroppo, questo racconto è assai povero d'originalità. Una cosa che in genere mi manca è un soggetto di cui parlare: troppo spesso i miei racconti si fermano a poche impressioni, senza riuscire a svolgere una trama. In questo il cercare d'imitare Calvino mi ha aiutato molto, costringendomi a individuare un plot, per quanto comunque assai flebile. Non sono sicuro d'aver fatto un buon lavoro, anche se credo di meritare la sufficienza: vedo che al mio racconto manca un po' del brio e dell'umorismo di Calvino, ma spero sarete indulgenti.
Ricreare lo stile della Trilogia in soli diecimila caratteri è però frustrante, sono stato costretto a tagliare più di duemila battute e tante altre sono rimaste nella penna, arrivando a una conclusione della storia che mi sembra troppo sbrigativa. Ma mi rimetto al vostro giudizio.[/i]
Il generale meccanico
L'arciduca Guidoberto Omobono Gravedona, signore di Cardenaga e Quintacella, era un uomo dai modi austeri, frugale, taccagno al giudizio di certuni, spilorcio secondo il parere di talaltri, il quale conduceva uno stile di vita assai al di sotto di quanto si sarebbe preteso dal suo rango. Il castello avito, che si ergeva al sommo del colle della Sulmegna, versava in condizioni da far pietà, come nemmeno la stamberga dell'ultimo tagliapietre: mantenerlo avrebbe comportato un costo che l'arciduca non riteneva di poter sostenere. Mentre i borghigiani osservavano la gramigna crescere a ciuffi per l'incuria lungo le mura e tra le pietre del cortile, l'arciduca Guidoberto Omobono si trascinava malmostoso, avvolto in un logoro tabarro di fustagno, per i corridoi ombrosi della sua dimora, lanciando di quando in quando rapide occhiate ai ritratti dei suoi predecessori, tutti valorosi condottieri che avevano nei secoli contribuito alla prosperità del piccolo ducato combattendo al servizio dell'imperatore. Partecipando all'assedio di Rouen, il trisavolo Cagnazzo Giammastino Gravedona aveva ottenuto in premio il feudo di Quintacella, ed ora lo squadrava grifagno dalla tela: - Guai a te, nipote! - pareva dirgli. Allora i Gravedona erano i più pronti a rifornire l'esercito imperiale di arditi armati di tutto punto e di cavalli addestrati nelle più esclusive scuole d'equitazione d'Europa e bardati delle gualdrappe più fini! Tempi tramontati da quando al trono era asceso Guidoberto Omobono. Nemmeno il trono c'era più, a dire il vero: egli l'aveva venduto a rigattieri ebrei e s'accontentava di ricevere i suoi pochi ospiti assiso su una seggiolina di legno laccato. La massima concessione al lusso nei banchetti era l'acqua con la menta, ma mai più di qualche brocca. Rara la carne, l'arciduca si nutriva perlopiù di verdure dell'orto, che coltivava da sé medesimo: qualche carota, qualche rapa, cavoli e lattuga, che egli condiva col solo aceto ricavato dal vino che non aveva bevuto. In tale rigore aveva voluto fosse cresciuto anche l'unico figlio Tassilo, rimasto orfano della madre, la baronessa Maria Edvige Sorbetelli degli Ordemagni, a soli tre anni. All'epoca del mio racconto il signorino era nel suo ottavo anno ed era sotto la mia protezione dall'età di sei anni.
È ardua impresa l'educazione quand'è soggetta a impulsi e prospettive pedagogiche divergenti. Il giovane Tassilo si trovava suo malgrado al centro delle mire concorrenti di suo padre e della prozia Prospera, sorella del defunto arciduca Policarpo Berengario Gravedona, donna oltremodo prodiga: sicché il ragazzo, non ottenendo dal padre soddisfazione ai suoi desideri, tosto la cercava nella prozia, che immancabilmente vi corrispondeva spingendosi anzi ben al di là di quanto il rampollo avesse osato soltanto immaginare e - è bene dirlo - della stessa ragionevolezza. Io – è ora che mi presenti -, Ambrogio Ulrico Cavallari Sustenberg, negli ingrati panni d'istitutore e pedagogo, duravo fatica a dirozzare il ragazzo e a indicargli la via mediana della virtù; invano gli sciorinavo le cinque declinazioni latine e le tre coniugazioni e senza il minimo profitto gli cantavo le ecloghe del vate mantovano e il girovagare d'Ulisse ed Enea. Nel bel mezzo d'una nostra lezione poteva capitare, e capitava spesso, l'arciduchessa Prospera recando al nipote la merenda. Hop! Hop! Ella veniva con un seguito di almeno tre fantesche e traeva da ceste capaci, che a stento stavano chiuse, torte di pan di Spagna farcite di confettura d'albicocche e budini di vaniglia o cioccolato che si faceva portare dall'Arabia; e ancora cornetti fragranti e bottiglie di latte appena munto, di mucca e di capra, e rosolii dolci e succhi di frutta e frutta fresca o candita. Le cameriere stendevano sull'erba soffici coperte e apparecchiavano il desco: Tassilo vi si gettava famelico e si rimpinzava fin quasi a scoppiare. Impossibile a quel punto riprendere il filo della spiegazione! Povero Virgilio!
La prozia soleva fargli dono anche di raffinati e costosissimi balocchi, di proporzioni sovente spropositate. Se infatti per esempio Tassilo la pregava del regalo di qualche soldatino di piombo, ecco che ella gli faceva recapitare un'intera panoplia di corazze corrusche; se le domandava un gattino da accudire, ella procurava dall'India un cucciolo di tigre! Pepé-pepé, s'udiva risuonare la campagna più remota d'uno squillar di trombe: i villani lasciavano per qualche minuto l'erpice o la marra e s'acquattavano al bordo della strada per veder sfilare il corteo dell'arciduchessa Prospera, decisa a viziare il nipotino, e s'inchinavano, si prostravano a terra al passaggio dei doni. Talora erano necessarie lunghe carovane e schiavi robusti per recapitare quei balocchi: armature d'acciaio brunito forgiate da artisti armaioli, macchine semoventi che parevano sputate or ora dalla fucina di Vulcano, draghi di cartapesta, spade, daghe, sciabole e scimitarre di legno esotico e avorio, bambole di cera o porcellana vestite all'ultima moda in velluto e crinoline di Fiandra; gufi e barbagianni impagliati, scimmie addomesticate, scimpanzé, oranghi, bertucce catturate in terra d'Africa che l'arciduchessa aveva fatto acquistare negli scali di Genova, Venezia, Alessandria; biglie di cristallo, pariglie di cavalli vivi o a dondolo, da cavalcare o nei quali nascondersi ad imitazione d'Ulisse, zebre, caribù, una volta un orso bruno e persino un rinoceronte alla catena.
Il signorino negligeva perciò le mie lezioni per trastullarsi con quei balocchi. Ma ne possedeva così tanti e vari e tanto spesso essi venivano rinnovati, ch'egli presto se ne disfaceva abbandonandoli tra le marruche incolte e i campi di tutta Cardenaga, disseminandoli nelle foreste o per via, ovunque egli fosse stato in ozio. Questi relitti dei suoi giochi avevano nel tempo dato la stura a leggende, che le donne raccontavano ai bimbi rimboccando loro le coperte; le voci s'erano sparse nei domini circonvicini per bocca dei viaggiatori che giungevano alla corte dell'arciduca: Cardenaga - pensate! - era popolata di mostri e demoni, difesa da un esercito scappato dai più profondi gironi dell'inferno. Camminando per le sue strade non era raro imbattersi in briganti armati fino ai denti celati nella boscaglia: erano i giocattoli che il signorino Tassilo aveva dismesso. E fu così che la prodigalità ottenne la sua rivincita sull'austerità e che tutte le mie raccomandazioni sulla parsimonia furono beffate.
Scoppiò tra i villani di Quintacella una sommossa per la fame e la miseria cui il rigore finanziario dell'arciduca Gravedona aveva condannato la borgata: la scarsa distribuzione delle sementi aveva portato la carestia e non v'erano più bestie forti abbastanza da arare le campagne inaridite dall'abbandono dei canali d'irrigazione. Un tale Baruffo dei Bigonci s'era messo a capo della marmaglia e dopo numerose minacce l'aveva infine convinta a seguirlo per mettere a ferro e fuoco Cardenaga e il castello sul colle della Sulmegna. I villani s'erano armati delle loro vanghe, delle zappe e dei forconi, dei ventilabri e di quanto possedevano di atto alla bisogna, e marciavano saccheggiando quanto v'era sulla loro strada, senza mai trovare resistenza: da anni l'esercito un tempo glorioso di Cardenaga s'era dissolto e per la negligenza di Guidoberto Omobono i più scelti tra i condottieri s'erano messi a servizio d'altri signori. Invano più volte io avevo messo in guardia l'arciduca sulla necessità di difendere il nostro ducato: ma l'arciduca era certo che per garantirsi la pace fosse sufficiente non impicciarsi degli affari altrui.
I miei lettori più sagaci avranno forse già intuito come finì la storia. Il signorino Tassilo si trovava anche quel pomeriggio a giocare ignaro nella campagna con gli ultimi regali della prozia, un mastodonte di bronzo, un drago volante e qualche decina di soldati in armature del Catai. Aveva caricato la molla d'un alabardiere di latta che, infilatosi nella macchia, comparve d'improvviso davanti alla colonna dei contadini di Quintacella, puntando loro la sua asta. Alle sue spalle giunse in volo il drago di cartapesta, sostenuto dalle correnti ascensionali: il vento faceva fremere le sue code di carta che vibravano come il sonaglio d'un serpente. Ciò bastò a mettere in rotta quell'esercito raccogliticcio di straccioni, che si diede precipitosamente alla fuga attraverso le sterpaglie gridando aita: e qua e là essi s'imbattevano in altri fantocci abbandonati, che la paura, il ricordo delle leggende udite attorno al fuoco e il calar delle tenebre facevano assomigliare a sicari e manutengoli appostati a difesa del ducato di Cardenaga. La sommossa fu dispersa e l'indomani una delegazione di quei villani venne vestita di sacco e col capo cosparso di cenere a implorare pietà e a rinnovare il vincolo di fedeltà alla casa di Gravedona. A Baruffo dei Bigonci quei bravi paesani cavarono gli occhi e fu impalato con uno spiedo arroventato sulla piazza di Quintacella, dove rimase esposto per quaranta giorni e quaranta notti.
La storia dunque ebbe una fine lieta, sembrerebbe. L'arciduca Guidoberto Omobono ridusse significativamente il rigore della sua spilorceria, si concesse dei lussi fino ad allora insperabili e nominò l'arciduchessa Prospera amministratrice del tesoro. Il giovane Tassilo fu vieppiù vezzeggiato, incoraggiato all'ozio e ai divertimenti e liberato perciò dall'obbligo dell'istruzione. Questa fu la rovina mia, di Ambrogio Ulrico Cavallari Sustenberg, che mi trovai senza lavoro a subire l'umiliazione del trionfo dell'arroganza del danaro sulla morigeratezza e la cultura, spregiato e deriso dai miei stessi beneficiati d'un tempo.
Fu così che un giorno, di buon mattino, salii a bordo d'un pallone aerostatico che il signorino aveva dimenticato sugli spalti del castello e, sciolte le funi, presi il volo verso l'empireo, alla ricerca delle risposte che ancora non avevo trovato.
Confesso che di Calvino avevo - ho tuttora - una conoscenza abbastanza superficiale: avevo letto alle elementari [i]Marcovaldo e negli anni del liceo prima Se una notte d'inverno un viaggiatore, che non mi era piaciuto, e poi Lezioni americane, che invece considero una lettura necessaria per chiunque voglia accostarsi alla scrittura, insieme al commento all'Orlando furioso, di cui l'anno scorso avevo letto alcuni passi. Più di recente, per fortuita coincidenza, avevo letto Il barone rampante, mentre per partecipare a questo certamen ho provveduto a leggere anche gli altri due episodi della Trilogia. Tutto ciò per dire che Calvino è un autore che apprezzo, ma che non avevo mai preso come modello: i miei autori preferiti sono Joseph Roth, Elias Canetti, Claudio Magris.
Non mi è stato troppo difficile tentare d'imitare la sua scrittura: la moltiplicazione abnorme dei dettagli, le descrizioni e le divagazioni già mi appartengono (sciaguratamente), è stato sufficiente provare a calarsi in un passato mitico e fare un calco dei racconti di Calvino. Sicché, purtroppo, questo racconto è assai povero d'originalità. Una cosa che in genere mi manca è un soggetto di cui parlare: troppo spesso i miei racconti si fermano a poche impressioni, senza riuscire a svolgere una trama. In questo il cercare d'imitare Calvino mi ha aiutato molto, costringendomi a individuare un plot, per quanto comunque assai flebile. Non sono sicuro d'aver fatto un buon lavoro, anche se credo di meritare la sufficienza: vedo che al mio racconto manca un po' del brio e dell'umorismo di Calvino, ma spero sarete indulgenti.
Ricreare lo stile della Trilogia in soli diecimila caratteri è però frustrante, sono stato costretto a tagliare più di duemila battute e tante altre sono rimaste nella penna, arrivando a una conclusione della storia che mi sembra troppo sbrigativa. Ma mi rimetto al vostro giudizio.[/i]
Il generale meccanico
L'arciduca Guidoberto Omobono Gravedona, signore di Cardenaga e Quintacella, era un uomo dai modi austeri, frugale, taccagno al giudizio di certuni, spilorcio secondo il parere di talaltri, il quale conduceva uno stile di vita assai al di sotto di quanto si sarebbe preteso dal suo rango. Il castello avito, che si ergeva al sommo del colle della Sulmegna, versava in condizioni da far pietà, come nemmeno la stamberga dell'ultimo tagliapietre: mantenerlo avrebbe comportato un costo che l'arciduca non riteneva di poter sostenere. Mentre i borghigiani osservavano la gramigna crescere a ciuffi per l'incuria lungo le mura e tra le pietre del cortile, l'arciduca Guidoberto Omobono si trascinava malmostoso, avvolto in un logoro tabarro di fustagno, per i corridoi ombrosi della sua dimora, lanciando di quando in quando rapide occhiate ai ritratti dei suoi predecessori, tutti valorosi condottieri che avevano nei secoli contribuito alla prosperità del piccolo ducato combattendo al servizio dell'imperatore. Partecipando all'assedio di Rouen, il trisavolo Cagnazzo Giammastino Gravedona aveva ottenuto in premio il feudo di Quintacella, ed ora lo squadrava grifagno dalla tela: - Guai a te, nipote! - pareva dirgli. Allora i Gravedona erano i più pronti a rifornire l'esercito imperiale di arditi armati di tutto punto e di cavalli addestrati nelle più esclusive scuole d'equitazione d'Europa e bardati delle gualdrappe più fini! Tempi tramontati da quando al trono era asceso Guidoberto Omobono. Nemmeno il trono c'era più, a dire il vero: egli l'aveva venduto a rigattieri ebrei e s'accontentava di ricevere i suoi pochi ospiti assiso su una seggiolina di legno laccato. La massima concessione al lusso nei banchetti era l'acqua con la menta, ma mai più di qualche brocca. Rara la carne, l'arciduca si nutriva perlopiù di verdure dell'orto, che coltivava da sé medesimo: qualche carota, qualche rapa, cavoli e lattuga, che egli condiva col solo aceto ricavato dal vino che non aveva bevuto. In tale rigore aveva voluto fosse cresciuto anche l'unico figlio Tassilo, rimasto orfano della madre, la baronessa Maria Edvige Sorbetelli degli Ordemagni, a soli tre anni. All'epoca del mio racconto il signorino era nel suo ottavo anno ed era sotto la mia protezione dall'età di sei anni.
È ardua impresa l'educazione quand'è soggetta a impulsi e prospettive pedagogiche divergenti. Il giovane Tassilo si trovava suo malgrado al centro delle mire concorrenti di suo padre e della prozia Prospera, sorella del defunto arciduca Policarpo Berengario Gravedona, donna oltremodo prodiga: sicché il ragazzo, non ottenendo dal padre soddisfazione ai suoi desideri, tosto la cercava nella prozia, che immancabilmente vi corrispondeva spingendosi anzi ben al di là di quanto il rampollo avesse osato soltanto immaginare e - è bene dirlo - della stessa ragionevolezza. Io – è ora che mi presenti -, Ambrogio Ulrico Cavallari Sustenberg, negli ingrati panni d'istitutore e pedagogo, duravo fatica a dirozzare il ragazzo e a indicargli la via mediana della virtù; invano gli sciorinavo le cinque declinazioni latine e le tre coniugazioni e senza il minimo profitto gli cantavo le ecloghe del vate mantovano e il girovagare d'Ulisse ed Enea. Nel bel mezzo d'una nostra lezione poteva capitare, e capitava spesso, l'arciduchessa Prospera recando al nipote la merenda. Hop! Hop! Ella veniva con un seguito di almeno tre fantesche e traeva da ceste capaci, che a stento stavano chiuse, torte di pan di Spagna farcite di confettura d'albicocche e budini di vaniglia o cioccolato che si faceva portare dall'Arabia; e ancora cornetti fragranti e bottiglie di latte appena munto, di mucca e di capra, e rosolii dolci e succhi di frutta e frutta fresca o candita. Le cameriere stendevano sull'erba soffici coperte e apparecchiavano il desco: Tassilo vi si gettava famelico e si rimpinzava fin quasi a scoppiare. Impossibile a quel punto riprendere il filo della spiegazione! Povero Virgilio!
La prozia soleva fargli dono anche di raffinati e costosissimi balocchi, di proporzioni sovente spropositate. Se infatti per esempio Tassilo la pregava del regalo di qualche soldatino di piombo, ecco che ella gli faceva recapitare un'intera panoplia di corazze corrusche; se le domandava un gattino da accudire, ella procurava dall'India un cucciolo di tigre! Pepé-pepé, s'udiva risuonare la campagna più remota d'uno squillar di trombe: i villani lasciavano per qualche minuto l'erpice o la marra e s'acquattavano al bordo della strada per veder sfilare il corteo dell'arciduchessa Prospera, decisa a viziare il nipotino, e s'inchinavano, si prostravano a terra al passaggio dei doni. Talora erano necessarie lunghe carovane e schiavi robusti per recapitare quei balocchi: armature d'acciaio brunito forgiate da artisti armaioli, macchine semoventi che parevano sputate or ora dalla fucina di Vulcano, draghi di cartapesta, spade, daghe, sciabole e scimitarre di legno esotico e avorio, bambole di cera o porcellana vestite all'ultima moda in velluto e crinoline di Fiandra; gufi e barbagianni impagliati, scimmie addomesticate, scimpanzé, oranghi, bertucce catturate in terra d'Africa che l'arciduchessa aveva fatto acquistare negli scali di Genova, Venezia, Alessandria; biglie di cristallo, pariglie di cavalli vivi o a dondolo, da cavalcare o nei quali nascondersi ad imitazione d'Ulisse, zebre, caribù, una volta un orso bruno e persino un rinoceronte alla catena.
Il signorino negligeva perciò le mie lezioni per trastullarsi con quei balocchi. Ma ne possedeva così tanti e vari e tanto spesso essi venivano rinnovati, ch'egli presto se ne disfaceva abbandonandoli tra le marruche incolte e i campi di tutta Cardenaga, disseminandoli nelle foreste o per via, ovunque egli fosse stato in ozio. Questi relitti dei suoi giochi avevano nel tempo dato la stura a leggende, che le donne raccontavano ai bimbi rimboccando loro le coperte; le voci s'erano sparse nei domini circonvicini per bocca dei viaggiatori che giungevano alla corte dell'arciduca: Cardenaga - pensate! - era popolata di mostri e demoni, difesa da un esercito scappato dai più profondi gironi dell'inferno. Camminando per le sue strade non era raro imbattersi in briganti armati fino ai denti celati nella boscaglia: erano i giocattoli che il signorino Tassilo aveva dismesso. E fu così che la prodigalità ottenne la sua rivincita sull'austerità e che tutte le mie raccomandazioni sulla parsimonia furono beffate.
Scoppiò tra i villani di Quintacella una sommossa per la fame e la miseria cui il rigore finanziario dell'arciduca Gravedona aveva condannato la borgata: la scarsa distribuzione delle sementi aveva portato la carestia e non v'erano più bestie forti abbastanza da arare le campagne inaridite dall'abbandono dei canali d'irrigazione. Un tale Baruffo dei Bigonci s'era messo a capo della marmaglia e dopo numerose minacce l'aveva infine convinta a seguirlo per mettere a ferro e fuoco Cardenaga e il castello sul colle della Sulmegna. I villani s'erano armati delle loro vanghe, delle zappe e dei forconi, dei ventilabri e di quanto possedevano di atto alla bisogna, e marciavano saccheggiando quanto v'era sulla loro strada, senza mai trovare resistenza: da anni l'esercito un tempo glorioso di Cardenaga s'era dissolto e per la negligenza di Guidoberto Omobono i più scelti tra i condottieri s'erano messi a servizio d'altri signori. Invano più volte io avevo messo in guardia l'arciduca sulla necessità di difendere il nostro ducato: ma l'arciduca era certo che per garantirsi la pace fosse sufficiente non impicciarsi degli affari altrui.
I miei lettori più sagaci avranno forse già intuito come finì la storia. Il signorino Tassilo si trovava anche quel pomeriggio a giocare ignaro nella campagna con gli ultimi regali della prozia, un mastodonte di bronzo, un drago volante e qualche decina di soldati in armature del Catai. Aveva caricato la molla d'un alabardiere di latta che, infilatosi nella macchia, comparve d'improvviso davanti alla colonna dei contadini di Quintacella, puntando loro la sua asta. Alle sue spalle giunse in volo il drago di cartapesta, sostenuto dalle correnti ascensionali: il vento faceva fremere le sue code di carta che vibravano come il sonaglio d'un serpente. Ciò bastò a mettere in rotta quell'esercito raccogliticcio di straccioni, che si diede precipitosamente alla fuga attraverso le sterpaglie gridando aita: e qua e là essi s'imbattevano in altri fantocci abbandonati, che la paura, il ricordo delle leggende udite attorno al fuoco e il calar delle tenebre facevano assomigliare a sicari e manutengoli appostati a difesa del ducato di Cardenaga. La sommossa fu dispersa e l'indomani una delegazione di quei villani venne vestita di sacco e col capo cosparso di cenere a implorare pietà e a rinnovare il vincolo di fedeltà alla casa di Gravedona. A Baruffo dei Bigonci quei bravi paesani cavarono gli occhi e fu impalato con uno spiedo arroventato sulla piazza di Quintacella, dove rimase esposto per quaranta giorni e quaranta notti.
La storia dunque ebbe una fine lieta, sembrerebbe. L'arciduca Guidoberto Omobono ridusse significativamente il rigore della sua spilorceria, si concesse dei lussi fino ad allora insperabili e nominò l'arciduchessa Prospera amministratrice del tesoro. Il giovane Tassilo fu vieppiù vezzeggiato, incoraggiato all'ozio e ai divertimenti e liberato perciò dall'obbligo dell'istruzione. Questa fu la rovina mia, di Ambrogio Ulrico Cavallari Sustenberg, che mi trovai senza lavoro a subire l'umiliazione del trionfo dell'arroganza del danaro sulla morigeratezza e la cultura, spregiato e deriso dai miei stessi beneficiati d'un tempo.
Fu così che un giorno, di buon mattino, salii a bordo d'un pallone aerostatico che il signorino aveva dimenticato sugli spalti del castello e, sciolte le funi, presi il volo verso l'empireo, alla ricerca delle risposte che ancora non avevo trovato.