L'imperatrice di ghiaccio
Inviato: sabato 30 aprile 2016, 22:55
Un viandante una volta mi disse che da dove veniva lui la chiamavano la città violetta. Stavo giusto ammirando com’è che i raggi del tramonto riflettevano sulle carte, i legni e i tessuti per creare quel colore, che tutto cominciò. Il mandarino davanti a me gridava come un ossesso quel che da anni era noto a tutti, che la nostra nobile figlia del Cielo e futura Imperatrice Turandot solo si sarebbe data a chi tre enigmi avrebbe sciolto. Pang e Pong mi venivano dietro, e attraversavamo la folla per l’esecuzione dell’ultimo bel giovanotto che aveva tentato. Esser principe di Persia, e non aver di meglio da fare che venir fin qua a cercare i favori di una zitellaccia crudele. Che quella un cuore non ce l’aveva.
Dietro di noi veniva il boia con la sua spada che sempre affilava e arrotava, e sguainava e inguainava. La folla se ne stava buona, ché già ci vedeva il suo di sangue, su quella lama. A un certo punto in tutto quello spingi-mormora-sospira, un vecchio andò per terra e la sua schiava prese a strillare con una vocetta acuta, che mamma mia. Ma un giovane si era avvicinato come lo conoscesse, e tra gran baci e abbracci lo tirarono su. Meno male, che se Turandot avesse trovato la folla in subbuglio, lo so io quale testa avrebbe fatto compagnia a quella del persiano nella cesta.
Finalmente la luna sorse, ed è strano, pensai, che incanti gli amanti così pallida e fredda e lontana. E quella sera poi, sembrava davvero una testa di morto, staccata e appesa lassù in cielo. Anzi, sembrava quasi la faccia tutta bianca della figlia del Cielo Turandot. E mentre pensavo Pong prese a tirarmi tutto sgomento la manica della veste cerimoniale.
Da come gli strattonavo la manica, speravo Ping fosse più svelto a capir che avevamo un problema. Mentre Turandot si portava via la testa del Principe di Persia ecco che un altro pazzo si faceva largo tra la gente e le guardie per arrivare fino al gong. Corremmo come pazzi per fermarlo, ché già ci stavano provando un vecchio e una ragazza, ma quello li spingeva via e andava avanti.
- O divina bellezza! Meraviglia! Io soffro, padre, soffro! – diceva.
Al che mi misi tra lui e il gong: - Se vuoi smetter di soffrire, è la strada giusta, chiedi al persiano! Se suoni il gong Turandot ti proporrà gli enigmi, e andrai incontro a morte certa.
- Che dici ministro, Turandot è la mia vita!
- Turandot è vita quanto lo è l’inverno che spoglia gli alberi e gela i piedi ai poveracci.
La ragazza aveva buonsenso, si aggrappava e provava a portarselo via, e gli faceva pure gli occhi dolci.
- Mio signore, andiamo. Vostro padre morrà senza di voi. Non mettete a rischio la vostra vita, e la nostra.
- Ha ragione – tentai – torna al tuo paese, che qui i cimiteri son già pieni!
- Lasciatemi passare!
- Guarda che anche se ha una corona sulla testa è pur sempre due gambe e due braccia, come tutte le altre. Non son meglio cento donne normali? Te le troviamo, duecento gambe son certo meglio di due.
- Ma io voglio baciar la luna, e la luna è una.
Io e Pong ci guardammo, rassegnati, e Ping sbuffava innervosito. Ché poi il lavoro toccava a noi. Gli si fece vicino: - Turandot non esiste! È come il manto di neve che copre un palazzo, senza il palazzo sotto! Questa donna qui invece, guardala, ti ama!
- È vero Liu? Chiese lui tutto stupito. E lei: - Amo il sorriso, mio signore, che una volta mi avete concesso.
- Non puoi chiedere di più! – dissi io, ed ecco che quel giovane impetuoso mi spinse di lato, buttò a terra Pong, e gli camminò sopra coi suoi stivalacci tartari. Poi d’impeto batté il grande gong. Il suono lugubre del metallo riempì l’aria, e la città sapeva che presto avrebbe di nuovo respirato sangue.
Mi rialzai con tutto il fango addosso. Ormai era bell’e che andato. Gurdai Ping di sottecchi. Sicuramente me ne avrebbe fatte passare perché non l’avevo fermato. Pareva assorto, e stava facendo qualche pensiero triste perché sospirò dal mento per tutta la barba lunga e sottile, fino alla punta.
L’indomani preparammo tutto come sempre. Pang si era seduto nella grande sala con la veste verde tutta accartocciata sotto di lui, come un cuscino. Grasso com’era gli pesava tutto questo spostar roba, e si sedeva di continuo a prendere decisioni.
- Pong! Ping ha detto che tu prepari le esequie.
- Io non ho detto niente!
- Va bene le faccio io - aveva già un che di malinconico e non volevo abbatterlo di più.
- Io invece preparo le nozze – continuò Pang - con le lanterne rosse, e chiamo i bonzi per i canti.
- Beh i bonzi li chiamiamo lo stesso, per i lamenti. Io preparo le lanterne bianche da lutto. Il banchetto nuziale lo possiamo usare per le offerte funebri.
- Ma che ha Ping?
- Mah.
Guardai bene mentre passavo, ed ecco che a Ping quasi quasi scendeva una lacrima.
- Prepariamo sempre due feste, ma ne festeggiamo sempre una. Sempre dal lato del sangue. E io che ho lasciato l’Honan. C’era un bel laghetto blu a casa, tutto cinto di bambù.
- Eh. Nell’anno del Cane otto, quest’anno siamo a tredici.
- Con Turandot muore la Cina. Niente amore, niente eredi.
- Ah, finisse questo inverno! Le farei il letto con le mie mani. E potrei tornare a casa.
Fu allora che sentimmo le trombe.
- È già il tramonto! Pang! Pong! Basta sognare, godiamoci quest’altro sgozzamento.
E Ping, lungo e secco e indispettito che le trombe l’avessero portato via dal pensiero del suo laghetto, uscì dalla grande sala.
Mi sbrigai verso la pazza. Il patibolo lo lasciavamo sempre montato. Certi giorni qualche mercante lo usava anche per mettere in mostra le sue stoffe. La piazza era piena, e il giovane era al fondo della scalinata che aspettava. L’Imperatore era affacciato per veder la sua figlia crudele che faceva schizzare altro sangue. Povero vecchio, cosa gli toccava.
Si aprì il portone e Turandot da lassù sulla scalinata sembrava quasi bella, anche a chi la conosceva. Poi aprì la bocca e rovinò tutto: - Straniero! Quando il re dei tartari ci invase, invase anche Lou Ling, la mia ava. La trascinò nel buio e la soffocò col suo dominio. Ma è come fosse qui con me, e io la vendico ogni giorno! Nessuno mi avrà mai.
La gente sbadigliava, tante volte l’aveva sentita questa storia. Nessuno stava più dalla parte dei pazzi innamorati, troppe delusioni. Venivano a vedere Turandot la Crudele che scambiava tre enigmi per una morte, ed eccola che già poneva il primo.
- V’è un fantasma da tutti invocato in ogni cupa notte, che all’aurora puntuale svanisce.
- La Speranza, Turandot.
Questa non se l’aspettava nessuno. Tutti tremarono, fremettero, sgranarono gli occhi.
Turandot aveva lo sguardo più cattivo che le avessi mai visto. Tutta impettita, scese metà scala e disse: - Sì, la speranza che sempre delude! – e poi subito sputò addosso al poverino il secondo enigma.
- È febbre, è ardore, nella morte raffredda, nella malinconia langue.
Pong e Pang, che nel frattempo mi avevano raggiunto, dicono che il ragazzo qualche esitazione ce l’ha avuta. Ma mi sembra di vederlo ora che risponde: - Il sangue!
Lì Turandot andò su tutte le furie, scese fin sulla piazza e arcigna e piena d’odio fece percuotere la folla che a quel punto un po’ se l’era preso a cuore il giovane scioglitore di enigmi. Gli gridò in faccia sillaba per sillaba: - Il gelo che dà fuoco, candida e oscura, se t’accetta per servo ti fa re.
Il giovane prese la testa tra le mani, che non ci credeva nemmeno lui forse, e rispose!
- Turandot!
Lei fu sgomenta, per un attimo, e poi si rifiutò, implorò l’Imperatore di non dar sua figlia in schiava a uno straniero. Ma il giuramento è sacro. E però l’amore, quello è folle. Al vederla così, lo straniero le fece il gran dono della dignità. Le disse che se entro l’alba lei avesse scoperto il suo nome, allora se ne sarebbe andato, e l’avrebbe lasciata in pace. Turandot annuì, e Pong e Pang alle mie spalle sospirarono. Ora il supplizio era nostro.
Gli araldi calcarono ogni strada e ogni vicolo quella notte. La principessa voleva il nome, pena la morte il martirio e lo sgozzamento generale. Ping, Pong e Pang trovarono il giovane nei giardini reali, dove l’aveva invitato l’imperatore, che aver dei nipotini finalmente a lui non dispiaceva.
Dopo aver confabulato un po’ discosto dal ragazzo, decisero per la corruzione. Ma non c’era corpo flessuoso che potesse placare l’ossessione di quel tartaro maledetto. Nemmeno i gioielli della corona, presi in prestito per allettarlo, ebbero grande effetto. Allora Ping prese coraggio: - Scellerato che non sei altro, se tu domani sei ancora qui, e noi non sappiamo il tuo nome, Turandot ci fa tagliuzzare!
- Dissezionare! – fece Pong avvicinandosi.
- Decorticare! – aggiunse Pang, togliendosi il cappello e pasticciandolo nervosamente al solo pensiero.
- Tu non sai di ch’è capace! – rimarcò Ping.
- Non vi dirò il mio nome.
- E allora lo chiederemo a chi lo sa!
- Il vecchio e la donna con cui parlavi!
- Prendeteli!
- Fateli parlare!
- Il nome!
E presto le guardie tornarono coi due, e i tre ministri mandarono a chiamare Turandot.
- Torturate il vecchio! – ordinò. Ma subito la donna si fece avanti: - Io sola so il suo nome!
- E allora torturate lei!
I tre sudavano freddo, ogni tanto Liu sembrava lì lì per parlare, ma poi non cedeva. Turandot non capiva l’esser disposti a dar tutto, la vita stessa, per un uomo. Poco sapeva del mondo e dell’amore, lei ch’era nata e cresciuta su un piedistallo di giada. Quando la tortura la portò al limite, Liu ebbe la forza di strappare un coltello a un soldato e uccidersi.
Se avessero avuto fiducia nel giovane tartaro i tre ministri l’avrebbero visto poco dopo regalare a Turandot la libertà, rivelandole il suo nome. Ma Ping Pong e Pang se l’erano già svignata, che era quasi l’alba e non volevano rischiare che le cose finissero male. Nessuno li vide più a Pechino. Senza dubbio erano tornati ciascuno al proprio laghetto circondato di bambù. Peccato, perché all’alba Turandot disse che conosceva il nome dello straniero. E che lo straniero si chiamava Amore. Avrebbero potuto usare le lanterne rosse, per una volta.
Dietro di noi veniva il boia con la sua spada che sempre affilava e arrotava, e sguainava e inguainava. La folla se ne stava buona, ché già ci vedeva il suo di sangue, su quella lama. A un certo punto in tutto quello spingi-mormora-sospira, un vecchio andò per terra e la sua schiava prese a strillare con una vocetta acuta, che mamma mia. Ma un giovane si era avvicinato come lo conoscesse, e tra gran baci e abbracci lo tirarono su. Meno male, che se Turandot avesse trovato la folla in subbuglio, lo so io quale testa avrebbe fatto compagnia a quella del persiano nella cesta.
Finalmente la luna sorse, ed è strano, pensai, che incanti gli amanti così pallida e fredda e lontana. E quella sera poi, sembrava davvero una testa di morto, staccata e appesa lassù in cielo. Anzi, sembrava quasi la faccia tutta bianca della figlia del Cielo Turandot. E mentre pensavo Pong prese a tirarmi tutto sgomento la manica della veste cerimoniale.
Da come gli strattonavo la manica, speravo Ping fosse più svelto a capir che avevamo un problema. Mentre Turandot si portava via la testa del Principe di Persia ecco che un altro pazzo si faceva largo tra la gente e le guardie per arrivare fino al gong. Corremmo come pazzi per fermarlo, ché già ci stavano provando un vecchio e una ragazza, ma quello li spingeva via e andava avanti.
- O divina bellezza! Meraviglia! Io soffro, padre, soffro! – diceva.
Al che mi misi tra lui e il gong: - Se vuoi smetter di soffrire, è la strada giusta, chiedi al persiano! Se suoni il gong Turandot ti proporrà gli enigmi, e andrai incontro a morte certa.
- Che dici ministro, Turandot è la mia vita!
- Turandot è vita quanto lo è l’inverno che spoglia gli alberi e gela i piedi ai poveracci.
La ragazza aveva buonsenso, si aggrappava e provava a portarselo via, e gli faceva pure gli occhi dolci.
- Mio signore, andiamo. Vostro padre morrà senza di voi. Non mettete a rischio la vostra vita, e la nostra.
- Ha ragione – tentai – torna al tuo paese, che qui i cimiteri son già pieni!
- Lasciatemi passare!
- Guarda che anche se ha una corona sulla testa è pur sempre due gambe e due braccia, come tutte le altre. Non son meglio cento donne normali? Te le troviamo, duecento gambe son certo meglio di due.
- Ma io voglio baciar la luna, e la luna è una.
Io e Pong ci guardammo, rassegnati, e Ping sbuffava innervosito. Ché poi il lavoro toccava a noi. Gli si fece vicino: - Turandot non esiste! È come il manto di neve che copre un palazzo, senza il palazzo sotto! Questa donna qui invece, guardala, ti ama!
- È vero Liu? Chiese lui tutto stupito. E lei: - Amo il sorriso, mio signore, che una volta mi avete concesso.
- Non puoi chiedere di più! – dissi io, ed ecco che quel giovane impetuoso mi spinse di lato, buttò a terra Pong, e gli camminò sopra coi suoi stivalacci tartari. Poi d’impeto batté il grande gong. Il suono lugubre del metallo riempì l’aria, e la città sapeva che presto avrebbe di nuovo respirato sangue.
Mi rialzai con tutto il fango addosso. Ormai era bell’e che andato. Gurdai Ping di sottecchi. Sicuramente me ne avrebbe fatte passare perché non l’avevo fermato. Pareva assorto, e stava facendo qualche pensiero triste perché sospirò dal mento per tutta la barba lunga e sottile, fino alla punta.
L’indomani preparammo tutto come sempre. Pang si era seduto nella grande sala con la veste verde tutta accartocciata sotto di lui, come un cuscino. Grasso com’era gli pesava tutto questo spostar roba, e si sedeva di continuo a prendere decisioni.
- Pong! Ping ha detto che tu prepari le esequie.
- Io non ho detto niente!
- Va bene le faccio io - aveva già un che di malinconico e non volevo abbatterlo di più.
- Io invece preparo le nozze – continuò Pang - con le lanterne rosse, e chiamo i bonzi per i canti.
- Beh i bonzi li chiamiamo lo stesso, per i lamenti. Io preparo le lanterne bianche da lutto. Il banchetto nuziale lo possiamo usare per le offerte funebri.
- Ma che ha Ping?
- Mah.
Guardai bene mentre passavo, ed ecco che a Ping quasi quasi scendeva una lacrima.
- Prepariamo sempre due feste, ma ne festeggiamo sempre una. Sempre dal lato del sangue. E io che ho lasciato l’Honan. C’era un bel laghetto blu a casa, tutto cinto di bambù.
- Eh. Nell’anno del Cane otto, quest’anno siamo a tredici.
- Con Turandot muore la Cina. Niente amore, niente eredi.
- Ah, finisse questo inverno! Le farei il letto con le mie mani. E potrei tornare a casa.
Fu allora che sentimmo le trombe.
- È già il tramonto! Pang! Pong! Basta sognare, godiamoci quest’altro sgozzamento.
E Ping, lungo e secco e indispettito che le trombe l’avessero portato via dal pensiero del suo laghetto, uscì dalla grande sala.
Mi sbrigai verso la pazza. Il patibolo lo lasciavamo sempre montato. Certi giorni qualche mercante lo usava anche per mettere in mostra le sue stoffe. La piazza era piena, e il giovane era al fondo della scalinata che aspettava. L’Imperatore era affacciato per veder la sua figlia crudele che faceva schizzare altro sangue. Povero vecchio, cosa gli toccava.
Si aprì il portone e Turandot da lassù sulla scalinata sembrava quasi bella, anche a chi la conosceva. Poi aprì la bocca e rovinò tutto: - Straniero! Quando il re dei tartari ci invase, invase anche Lou Ling, la mia ava. La trascinò nel buio e la soffocò col suo dominio. Ma è come fosse qui con me, e io la vendico ogni giorno! Nessuno mi avrà mai.
La gente sbadigliava, tante volte l’aveva sentita questa storia. Nessuno stava più dalla parte dei pazzi innamorati, troppe delusioni. Venivano a vedere Turandot la Crudele che scambiava tre enigmi per una morte, ed eccola che già poneva il primo.
- V’è un fantasma da tutti invocato in ogni cupa notte, che all’aurora puntuale svanisce.
- La Speranza, Turandot.
Questa non se l’aspettava nessuno. Tutti tremarono, fremettero, sgranarono gli occhi.
Turandot aveva lo sguardo più cattivo che le avessi mai visto. Tutta impettita, scese metà scala e disse: - Sì, la speranza che sempre delude! – e poi subito sputò addosso al poverino il secondo enigma.
- È febbre, è ardore, nella morte raffredda, nella malinconia langue.
Pong e Pang, che nel frattempo mi avevano raggiunto, dicono che il ragazzo qualche esitazione ce l’ha avuta. Ma mi sembra di vederlo ora che risponde: - Il sangue!
Lì Turandot andò su tutte le furie, scese fin sulla piazza e arcigna e piena d’odio fece percuotere la folla che a quel punto un po’ se l’era preso a cuore il giovane scioglitore di enigmi. Gli gridò in faccia sillaba per sillaba: - Il gelo che dà fuoco, candida e oscura, se t’accetta per servo ti fa re.
Il giovane prese la testa tra le mani, che non ci credeva nemmeno lui forse, e rispose!
- Turandot!
Lei fu sgomenta, per un attimo, e poi si rifiutò, implorò l’Imperatore di non dar sua figlia in schiava a uno straniero. Ma il giuramento è sacro. E però l’amore, quello è folle. Al vederla così, lo straniero le fece il gran dono della dignità. Le disse che se entro l’alba lei avesse scoperto il suo nome, allora se ne sarebbe andato, e l’avrebbe lasciata in pace. Turandot annuì, e Pong e Pang alle mie spalle sospirarono. Ora il supplizio era nostro.
Gli araldi calcarono ogni strada e ogni vicolo quella notte. La principessa voleva il nome, pena la morte il martirio e lo sgozzamento generale. Ping, Pong e Pang trovarono il giovane nei giardini reali, dove l’aveva invitato l’imperatore, che aver dei nipotini finalmente a lui non dispiaceva.
Dopo aver confabulato un po’ discosto dal ragazzo, decisero per la corruzione. Ma non c’era corpo flessuoso che potesse placare l’ossessione di quel tartaro maledetto. Nemmeno i gioielli della corona, presi in prestito per allettarlo, ebbero grande effetto. Allora Ping prese coraggio: - Scellerato che non sei altro, se tu domani sei ancora qui, e noi non sappiamo il tuo nome, Turandot ci fa tagliuzzare!
- Dissezionare! – fece Pong avvicinandosi.
- Decorticare! – aggiunse Pang, togliendosi il cappello e pasticciandolo nervosamente al solo pensiero.
- Tu non sai di ch’è capace! – rimarcò Ping.
- Non vi dirò il mio nome.
- E allora lo chiederemo a chi lo sa!
- Il vecchio e la donna con cui parlavi!
- Prendeteli!
- Fateli parlare!
- Il nome!
E presto le guardie tornarono coi due, e i tre ministri mandarono a chiamare Turandot.
- Torturate il vecchio! – ordinò. Ma subito la donna si fece avanti: - Io sola so il suo nome!
- E allora torturate lei!
I tre sudavano freddo, ogni tanto Liu sembrava lì lì per parlare, ma poi non cedeva. Turandot non capiva l’esser disposti a dar tutto, la vita stessa, per un uomo. Poco sapeva del mondo e dell’amore, lei ch’era nata e cresciuta su un piedistallo di giada. Quando la tortura la portò al limite, Liu ebbe la forza di strappare un coltello a un soldato e uccidersi.
Se avessero avuto fiducia nel giovane tartaro i tre ministri l’avrebbero visto poco dopo regalare a Turandot la libertà, rivelandole il suo nome. Ma Ping Pong e Pang se l’erano già svignata, che era quasi l’alba e non volevano rischiare che le cose finissero male. Nessuno li vide più a Pechino. Senza dubbio erano tornati ciascuno al proprio laghetto circondato di bambù. Peccato, perché all’alba Turandot disse che conosceva il nome dello straniero. E che lo straniero si chiamava Amore. Avrebbero potuto usare le lanterne rosse, per una volta.