Pasqua di sangue (avarizia) - Andrea Dessardo
Inviato: martedì 8 marzo 2016, 0:14
Volle essere lui stesso a compiere il sacrificio rituale e tutti fummo concordi nel concedergli l'onore come a un capofamiglia, ché tale in certo modo noi, i suoi compagni di lotta, lo consideravamo. Era un autentico miracolo vedercelo di nuovo vivo davanti, dopo lunghi mesi durante i quali non eravamo riusciti ad avere alcuna sua notizia e ci eravamo anzi rassegnati al peggio, o a quello che nelle prigioni dei pagani era quasi la norma.
Quando il belato della bestia si volse in un rantolo stridulo, mentre lui le affondava energicamente la lama nella gola, mi parve di scorgere nei suoi occhi come un lampo di soddisfazione, come se nell'uccidere l'agnello la sua mente fosse presa da altri pensieri. Conoscevamo le sofferenze e le privazioni che aveva patito negli ultimi mesi e che portava tutte impresse nella sua persona: di sotto la tunica s'intravedevano le strisce violacee dei flagelli e quasi si potevano contargli le ossa. Quella sera di Pasqua avrebbe consumato il suo primo pasto decente.
Intinta una frasca nel bacile nel quale avevamo fatto sgocciolare il sangue, ne asperse gli stipiti della casa in cui avremmo trascorso la notte; e quando si sciacquò le mani, Barabba ghignò: «Vedrai che il prossimo anno lo faremo con quel porco di Pilato». Le gocce si allargavano scarlatte nell'acqua perturbata. Fu allora che si presentò uno che aveva davvero le mani sporche di sangue.
«Siete voi gli zeloti di Barabba?». Un uomo s'era affacciato sotto il portico, col fiato corto, visibilmente agitato.
Barabba trasalì. Ma, da audace qual era, ebbe la forza di replicare: «Barabba sono io, tu chi sei?».
«Il mio nome è Giuda. Sono colui che ha consegnato al sinedrio Gesù il Nazareno. Voglio parlarti».
Scuoiato e svuotato delle viscere l'agnello, io, Barabba e Giuda Iscariota entrammo nel cortile, dove le donne avevano già acceso il fuoco e apparecchiato la tavola. Fili di fumo salivano bianchi striando leggeri il cielo di Gerusalemme: gli ebrei, quel venerdì di parasceve, si apprestavano a ricordare la liberazione dall'Egitto, ma ancora Israele non conosceva la libertà e noi fremevamo per l'indignazione e il desiderio di vendetta, maledicendo la pavidità del sinedrio e l'inconsistenza politica di quel buffone di Antipa.
In piedi attorno al tavolo, con la cintura ai fianchi, i sandali ai piedi e il bastone in mano come le Scritture prescrivono, ascoltammo Barabba recitare la preghiera di benedizione e lo guardammo spezzare il pane e versare il vino.
«Raccontami di quel galileo» chiese Barabba, dopo che, consumata la cena, noi uomini ci eravamo seduti in un canto attorno al fuoco. «Dicevano che s'era proclamato re dei giudei, giusto?».
«E figlio di Dio, pure. Ma è una storia lunga e sciocco io che l'ho seguito per tre anni anche a rischio di farmi ammazzare».
Barabba corrugò la fronte che la luce cangiante del falò modellava in smorfie che non riuscivo a decifrare: pareva ora rabbioso ora riflessivo, tremava per il freddo, forse. Certo la detenzione e la tortura non l'avevano lasciato lo stesso di prima. «Sarei potuto finire io su quella croce. Ma, come dicono i romani? Mors tua, vita mea». Tacque un momento. «Io ho visto come l'hanno ridotto quel povero messia di provincia: l'avevano frustato da renderlo irriconoscibile. Ma raramente ho visto un uomo accettare con tanta dignità il supplizio. Pilato pagherà anche per questo» sibilò sputando nel fuoco. «Pregava incessantemente. Chiamava “padre” il Signore. Non con la superbia d'un bestemmiatore, ma con la fiducia inesauribile d'un figlio. E l'hanno umiliato oltre misura con quella corona in testa e il mantello di porpora. La violenza dei romani mi ripugna ma, sai, mai come la viltà e il cinismo del nostro sinedrio che ha fatto consapevolmente uccidere un innocente. Io questo Gesù non lo conoscevo e forse era solo un esaltato rabbi di campagna, un mezzo stregone, però...».
«Gli uomini di Caifa hanno fatto molto per la tua liberazione. Forse è un segno che il Signore ci manda, che per liberare Israele occorrono uomini d'azione come te...».
«Hanno fatto liberare me per vigliaccheria, temevano che quel Gesù di Nazaret potesse metterli in ombra. Ma perché l'hai seguito? E perché sei qui ora?».
«Volevo la liberazione d'Israele da questa occupazione! E Gesù mi dava l'idea di voler scuotere le folle e farle sollevare! Invece solo chiacchiere e buone azioni...». Raccontò dell'ultima settimana, di come Gesù era entrato a Gerusalemme a dorso d'asino e la folla l'aveva accolto cantandogli “alleluia”, stendendo mantelli sulla strada, ondeggiando rami di palma e chiamandolo il figlio di Davide, il nuovo re che avrebbe liberato Israele. Oggi stesso invece, poche ore fa, era morto inchiodato a una croce, mia moglie aveva assistito.
«Io tenevo la cassa del nostro gruppo e mai l'ho visto prendere decisioni sensate, non ha fatto nulla per mettere da parte del denaro, che sarebbe potuto servire per organizzare qualche rivolta, per mantenere un po' di gente dalla nostra parte, raccogliere armi, creare un fondo per i momenti di difficoltà: niente. E sapessi cosa l'ho sentito dire! Una volta ha invitato un giovane, un bravo ragazzo, devoto, a vendere tutto e a dare i proventi ai poveri; un'altra ha pubblicamente lodato una vedova perché quella povera vecchia aveva donato i suoi ultimi risparmi al tesoro del tempio. Tra i nostri c'era anche un pubblicano pentito, infatti, e non molti giorni fa a Gerico un tale Zaccheo ha promesso di restituire tutti i soldi che aveva frodato e siamo andati a pranzo da lui, che ancora me ne vergogno… Non potevo più sopportare quella situazione, dopo tre anni senza combinare nulla. Mi si accusava d'esser ladro, ma quei soldi che mancavano li ho dati qualche volta alle famiglie di qualche zelota latitante. Pochi giorni fa a Betania l'episodio che mi ha convinto: ha permesso alla sorella del suo amico Lazzaro di buttar via una boccetta di nardo costosissima, e solo per riverirlo! Di quei soldi avremmo potuto sicuro far qualcosa di meglio...».
Barabba guardava a terra e disegnava nervosamente col dito nella polvere.
«Barabba, io non ci ho visto più, sono andato a denunciarlo al sinedrio!».
Nell'oscurità del cortile ci guardavamo muti tra le vampe del falò che andava lentamente spegnendosi. Le donne e i bambini da un po' erano rientrati. «E quanto ti hanno dato?».
Giuda esitò un momento. «Trenta denari d'argento». Prese un sacchetto da sotto il mantello e glielo porse: «Con questi potremo fare qualcosa! C'è una guerra da combattere!».
Ma Barabba lo gelò: «Non accetto denaro che gronda sangue. Non possiamo combattere i pagani comportandoci come loro. Chi costruisce idoli – e il denaro è un idolo – non può combattere per Israele».
Giuda rimase interdetto. Farfugliò ancora qualcosa, poi tacque, confuso. Rimase un altro po' con noi e poi se ne andò nella notte. «Mors tua, vita mea» ripeté Barabba tra sé e sé.
Con il denaro che Giuda restituì, il sinedrio acquistò il Campo del Vasaio, che da allora è chiamato Campo di Sangue.
Quando il belato della bestia si volse in un rantolo stridulo, mentre lui le affondava energicamente la lama nella gola, mi parve di scorgere nei suoi occhi come un lampo di soddisfazione, come se nell'uccidere l'agnello la sua mente fosse presa da altri pensieri. Conoscevamo le sofferenze e le privazioni che aveva patito negli ultimi mesi e che portava tutte impresse nella sua persona: di sotto la tunica s'intravedevano le strisce violacee dei flagelli e quasi si potevano contargli le ossa. Quella sera di Pasqua avrebbe consumato il suo primo pasto decente.
Intinta una frasca nel bacile nel quale avevamo fatto sgocciolare il sangue, ne asperse gli stipiti della casa in cui avremmo trascorso la notte; e quando si sciacquò le mani, Barabba ghignò: «Vedrai che il prossimo anno lo faremo con quel porco di Pilato». Le gocce si allargavano scarlatte nell'acqua perturbata. Fu allora che si presentò uno che aveva davvero le mani sporche di sangue.
«Siete voi gli zeloti di Barabba?». Un uomo s'era affacciato sotto il portico, col fiato corto, visibilmente agitato.
Barabba trasalì. Ma, da audace qual era, ebbe la forza di replicare: «Barabba sono io, tu chi sei?».
«Il mio nome è Giuda. Sono colui che ha consegnato al sinedrio Gesù il Nazareno. Voglio parlarti».
Scuoiato e svuotato delle viscere l'agnello, io, Barabba e Giuda Iscariota entrammo nel cortile, dove le donne avevano già acceso il fuoco e apparecchiato la tavola. Fili di fumo salivano bianchi striando leggeri il cielo di Gerusalemme: gli ebrei, quel venerdì di parasceve, si apprestavano a ricordare la liberazione dall'Egitto, ma ancora Israele non conosceva la libertà e noi fremevamo per l'indignazione e il desiderio di vendetta, maledicendo la pavidità del sinedrio e l'inconsistenza politica di quel buffone di Antipa.
In piedi attorno al tavolo, con la cintura ai fianchi, i sandali ai piedi e il bastone in mano come le Scritture prescrivono, ascoltammo Barabba recitare la preghiera di benedizione e lo guardammo spezzare il pane e versare il vino.
«Raccontami di quel galileo» chiese Barabba, dopo che, consumata la cena, noi uomini ci eravamo seduti in un canto attorno al fuoco. «Dicevano che s'era proclamato re dei giudei, giusto?».
«E figlio di Dio, pure. Ma è una storia lunga e sciocco io che l'ho seguito per tre anni anche a rischio di farmi ammazzare».
Barabba corrugò la fronte che la luce cangiante del falò modellava in smorfie che non riuscivo a decifrare: pareva ora rabbioso ora riflessivo, tremava per il freddo, forse. Certo la detenzione e la tortura non l'avevano lasciato lo stesso di prima. «Sarei potuto finire io su quella croce. Ma, come dicono i romani? Mors tua, vita mea». Tacque un momento. «Io ho visto come l'hanno ridotto quel povero messia di provincia: l'avevano frustato da renderlo irriconoscibile. Ma raramente ho visto un uomo accettare con tanta dignità il supplizio. Pilato pagherà anche per questo» sibilò sputando nel fuoco. «Pregava incessantemente. Chiamava “padre” il Signore. Non con la superbia d'un bestemmiatore, ma con la fiducia inesauribile d'un figlio. E l'hanno umiliato oltre misura con quella corona in testa e il mantello di porpora. La violenza dei romani mi ripugna ma, sai, mai come la viltà e il cinismo del nostro sinedrio che ha fatto consapevolmente uccidere un innocente. Io questo Gesù non lo conoscevo e forse era solo un esaltato rabbi di campagna, un mezzo stregone, però...».
«Gli uomini di Caifa hanno fatto molto per la tua liberazione. Forse è un segno che il Signore ci manda, che per liberare Israele occorrono uomini d'azione come te...».
«Hanno fatto liberare me per vigliaccheria, temevano che quel Gesù di Nazaret potesse metterli in ombra. Ma perché l'hai seguito? E perché sei qui ora?».
«Volevo la liberazione d'Israele da questa occupazione! E Gesù mi dava l'idea di voler scuotere le folle e farle sollevare! Invece solo chiacchiere e buone azioni...». Raccontò dell'ultima settimana, di come Gesù era entrato a Gerusalemme a dorso d'asino e la folla l'aveva accolto cantandogli “alleluia”, stendendo mantelli sulla strada, ondeggiando rami di palma e chiamandolo il figlio di Davide, il nuovo re che avrebbe liberato Israele. Oggi stesso invece, poche ore fa, era morto inchiodato a una croce, mia moglie aveva assistito.
«Io tenevo la cassa del nostro gruppo e mai l'ho visto prendere decisioni sensate, non ha fatto nulla per mettere da parte del denaro, che sarebbe potuto servire per organizzare qualche rivolta, per mantenere un po' di gente dalla nostra parte, raccogliere armi, creare un fondo per i momenti di difficoltà: niente. E sapessi cosa l'ho sentito dire! Una volta ha invitato un giovane, un bravo ragazzo, devoto, a vendere tutto e a dare i proventi ai poveri; un'altra ha pubblicamente lodato una vedova perché quella povera vecchia aveva donato i suoi ultimi risparmi al tesoro del tempio. Tra i nostri c'era anche un pubblicano pentito, infatti, e non molti giorni fa a Gerico un tale Zaccheo ha promesso di restituire tutti i soldi che aveva frodato e siamo andati a pranzo da lui, che ancora me ne vergogno… Non potevo più sopportare quella situazione, dopo tre anni senza combinare nulla. Mi si accusava d'esser ladro, ma quei soldi che mancavano li ho dati qualche volta alle famiglie di qualche zelota latitante. Pochi giorni fa a Betania l'episodio che mi ha convinto: ha permesso alla sorella del suo amico Lazzaro di buttar via una boccetta di nardo costosissima, e solo per riverirlo! Di quei soldi avremmo potuto sicuro far qualcosa di meglio...».
Barabba guardava a terra e disegnava nervosamente col dito nella polvere.
«Barabba, io non ci ho visto più, sono andato a denunciarlo al sinedrio!».
Nell'oscurità del cortile ci guardavamo muti tra le vampe del falò che andava lentamente spegnendosi. Le donne e i bambini da un po' erano rientrati. «E quanto ti hanno dato?».
Giuda esitò un momento. «Trenta denari d'argento». Prese un sacchetto da sotto il mantello e glielo porse: «Con questi potremo fare qualcosa! C'è una guerra da combattere!».
Ma Barabba lo gelò: «Non accetto denaro che gronda sangue. Non possiamo combattere i pagani comportandoci come loro. Chi costruisce idoli – e il denaro è un idolo – non può combattere per Israele».
Giuda rimase interdetto. Farfugliò ancora qualcosa, poi tacque, confuso. Rimase un altro po' con noi e poi se ne andò nella notte. «Mors tua, vita mea» ripeté Barabba tra sé e sé.
Con il denaro che Giuda restituì, il sinedrio acquistò il Campo del Vasaio, che da allora è chiamato Campo di Sangue.