Re: Lista racconti finalisti e classifiche delle GUEST!
Inviato: domenica 15 maggio 2016, 19:24
da antico
Ed ecco la terza GUEST CLASSIFICA: quella di Marco Cardone!
(Precisazione, la posizione in graduatoria non corrisponde a quanto un racconto mi abbia divertito o l’idea intrigato, ma a una somma ponderata degli aspetti considerati nei commenti, quindi tenendo presenti limiti di forma/stile o slogature del PDV, della coerenza interna, della logica, ecc… Se tutti i racconti fossero stati tecnicamente perfetti, la graduatoria sarebbe stata differente e “Immagina” e “Nel tempo degli dei falsi e bugiardi”, probabilmente, si sarebbero giocati il primo posto).
1. Le ferie
2. Il trono verde
3. Immagina
4. La parabola dei derelitti
5. Il settimo giorno
6. È proprio un nulla
7. Il mondo senza Molly
8. Nel tempo degli dei falsi e bugiardi
9. C’è solo un capitano
10. L’unico, l’onnipotente
11. Pellegrino disperato
12. Oh, my Darwin
Nel tempo degli dei falsi e bugiardi
Ciao. Parto subito con l’esame di alcuni passi che, secondo me, presentano alcuni problemi di forma e stile. Oltre, il commento generale.
Esther accese il proiettore olografico e la sua tuta divenne un rigoglio di rampicanti con fiori carnosi
e un gaio svolazzare d'insetti simili ad api e farfalle attorno ad essi.
Frase appesantita da una circonlocuzione inutile, suggerisco:
“… un rigoglio di rampicanti con fiori carnosi, circondati da un gaio svolazzare d'insetti simili ad api e farfalle”
Rivolse al collega uno sguardo malizioso e sbattè le ciglia. «Non dimenticarti» disse, scostandosi una ciocca di capelli rosso fuoco, «il fumo».
Discorso diretto spezzato in maniera fastidiosa (e appesantito da un pronome inutile). Basta riformulare in: «Non dimenticarti il fumo» disse, scostando una ciocca di capelli rosso fuoco.
«Certo mammina terra», rispose Diego. «O meglio: il vapore acqueo. Stai per fare un maestoso
ingresso ninfale»
L’interruzione di dialogo avviene in un punto poco opportuno, disgiungendo due frasi legate da un nesso avversativo. Di nuovo, basta risistemare (e riprendere il concetto espresso poc’anzi, che non assume connotato pleonastico perché facilita la comprensione del dialogo):
«Certo mammina terra, il fumo. O meglio: il vapore acqueo», rispose Diego. «Stai per fare un maestoso ingresso ninfale»
Peraltro, le frasi vanno chiuse con la punteggiatura, dentro o fuori che si voglia (basta mantenere la scelta coerente); noto che molti dei tuoi discorsi diretti rimandano a capo senza un punto fermo, come qui:
«Fa lo stesso. L'ultima volta te ne sei dimenticato e mi hai fatto fare una figura di merda»
«Non è proprio così, bella: la colpa è di Tekura. Il tuo abito somigliava a quello dello scemo del
villaggio»
«Presso gli Hoatiani di Cygnus IV,» disse una voce nasale da dietro un olotesto fermo da troppo
tempo «lo scemo del villaggio ha un valore sacrale: è la voce della verità, il matto del re. Il
problema non era nella regia, ma nell'esecuzione»
Diversi problemi: il discorso diretto è gestito in maniera non ottimale (anche se meglio che nelle righe precedenti); mancano una virgola dopo “tempo” e il punto alla fine della frase; il passo “olotesto fermo da troppo tempo” implica un punto di vista (chi pensa che il tempo sia troppo?). Di chi sia, questo pdv, non è ben chiaro né lo sarà in seguito. Possiamo presumere che la considerazione (peraltro superflua) venga direttamente dall’autore, cosa da evitare a ogni costo a meno che non si sia scelto un narratore intradiegetico. Non è questo il caso, e il punto di vista rimane indefinito anche in seguito, quando scrivi la frase “aveva proprio voglia di pontificare”, impossibile da attribuire con certezza a qualsivoglia dei personaggi sia riguardo al contenuto che all’implicito pdv. Peraltro, anche se fosse possibile definire un portatore di pdv per quella frase, ci troveremmo in ogni caso oltre la metà del racconto e la scelta sarebbe decisamente tardiva, senza contare che l’unico personaggio cui sicuramente non potrebbe essere attribuita l’opinione espressa è proprio Esther, che però pare tra tutti la cosa più vicina a un protagonista e, di certo, apre e chiude l’intera narrazione. Riporto il passo per intero:
«Però, è vero che non è stato un successo, ma non abbiamo nemmeno rovinato niente. Uccisi due o tre Hoatiani, il rispetto per la dea non è venuto meno». Diego settò alcuni parametri alla consolle.
«Fare fuori due o tre indigeni è un insuccesso. Gli studi dimostrano che l'idea di un dio vendicativo
porta a un'economia di sussistenza, mentre elargire ricompense è più efficace: porta a sviluppo
tecnologico e culturale», disse Tekura. Si alzò in piedi e passò attraverso l'olotesto, per dirigersi al
pannello di controllo di Diego. Aveva proprio voglia di pontificare.
Significato: chi dei due aveva proprio voglia di pontificare?
Punto di vista: chi pensa che Diego, o Tekura, avesse proprio voglia di pontificare?
Mi fermo qui per quanto riguarda il testo. Come avrai capito, ci sono a mio avviso diversi problemi, a partire dal livello grafico per finire con la gestione del punto di vista, passando per il linguaggio non troppo convincente né verosimile pur essendo (anzi, proprio per quello) molto simile nella terminologia alla parlata contemporanea. La correttezza grammaticale (fatta eccezione per la punteggiatura) va bene, ma il resto è da rifinire e sgrossare.
La trama, invece, gode di uno spunto simpatico e ho apprezzato l’idea alla base. C’è da dire che è appesantita sia dalla presenza di vari personaggi (troppi, per questa lunghezza), sia da una scarsa chiarezza di fondo. Lo scopo della “Cosmic” rimane abbastanza indefinito e, sebbene il senso sia chiaro, i dettagli si perdono proprio quando sei tu a fornirli: la vicenda della coppa archetipo del Graal, dei naniti e il loro rapporto con le materie prime rimane criptico, almeno per me.
Il mio consiglio per migliorare il racconto è: “less is better”. Con meno personaggi, dettagli e una forma più semplice, acquisterebbe di certo molto.
In definitiva, una prova godibile ma imperfetta.
Un saluto.
Il settimo giorno
Racconto carino, ben scritto, non propriamente verosimile, a essere onesti, ma quel tanto che basta per sorriderne alla fine senza soffermarsi a considerare se la reazione di proprio tutte le persone in coda sarebbe stata la desistenza, né alla probabilità che qualcuno si assuma il rischio di essere scoperto a ingannare (e magari essere insultato/malmenato) per acquistare un televisore. Insomma: la sospensione dell’incredulità scricchiola sonoramente, ma in questo contesto non ha poi molta importanza.
Ho apprezzato anche il messaggio sottostante che, in mancanza di trama, sorregge a dovere la vicenda.
A livello di forma segnalo solo un refuso (“in file” invece che “in fila”), una sovrabbondanza di congiunzioni in alcuni passi (“L’uomo tirò su i pantaloni e raccolse la camicia e, mentre se la infilava…”), sostituibili con punti e virgola o riscrittura delle frasi, e alcuni verbi dichiarativi superflui (“— Bene. E non si preoccupi per quelli che se ne sono andati — disse l’uomo. — Torneranno, vedrà”; “— Piuttosto — disse — sono molto interessato a quel nuovo televisore a led…”).
In conclusione una buona prova che, pur senza eccellere per trama e ruotando attorno a un tema abbastanza abusato (rapporto consumismo/valori, o beni materiali/nuove divinità, come spiego meglio nel commento a “Pellegrino disperato”), svolge il suo compito e, poggiando su una trovata simpatica, riesce a comunicare e a divertire.
L’unico, l’onnipotente
Racconto che mostra un buon livello di scrittura, con appena un paio d’imprecisioni (una su tutte la frase “– Muori! – urlò, puntandogli contro il dito”, in cui usi un pronome senza un soggetto esplicito nelle vicinanze cui riferirlo, per quanto sia intuibile a chi il parlante si riferisca) la cui trama però non mi ha convinto. Forse non l’ho capita abbastanza in profondità ma, considerando la rilettura, credo di poter dire che il problema sta nel non detto del testo; sai come si dice: “se il lettore non capisce, la colpa è sempre dello scrittore”. In realtà non concordo in pieno, ma credo che un fondo di verità in questo adagio ci sia.
Analizzando in primo luogo l’aspetto formale/stilistico, noto che a una estensione corretta si contrappone uno stile essenziale (fattore positivo) ma non del tutto convincente per due fattori: in primo luogo le frasi (soprattutto nella prima parte) sono molto brevi e segmentate, cosa che va a discapito della gradevolezza e della musicalità di un testo che, per quanto breve, non deve per forza essere frammentario; in cinque righe ci sono nove punti fermi, troppi a mio avviso. L’uso di frasi molto brevi è, per esempio, usato in scene d’azione, per restituire l’idea di concitazione degli eventi, mentre una parte introduttiva gioverebbe di periodi più legati. In secondo luogo, i dialoghi sono tutt’altro che verosimili, ma quest’aspetto lo ricondurrei più al problema che affronterò tra poco che a un’incapacità in merito.
Il contenuto, a mio avviso, è svilito da due falle: la logica e la presenza d’infodump. Parto da quest’ultimo: tutta la sequenza fra i due è un mero pretesto per spiegare al lettore cosa accada. De Giovanni non avrebbe avuto alcun motivo per lo “spiegone del cattivo” che fa al protagonista, se avesse solo voluto ucciderlo. Obiettare che a spingerlo sia stata la sua vanità, oltre a non convincermi, non risolverebbe l’effetto infodump, che rimarrebbe comunque sgradevole. Il fatto che lo scambio di battute risulti innaturale e forzato, dunque, ritengo dipenda proprio dal suo essere frutto d’infodump. Penso che il modo per risolvere la questione sarebbe far maturare la decisione di De Giovanni a seguito del dialogo, che assumerebbe così una funzione narrativa specifica (cambiamento) e non suonerebbe pretestuoso. Far partire il nostro già deciso, con quel sorriso beffardo che indica predeterminazione, mina la credibilità del tutto.
Veniamo alla logica. Credo che il nodo attorno cui ruota lo scarto logico che impedisce la coerenza interna del racconto sia l’accoppiamento di queste due frasi:
“- Stasera ha dimostrato la possibilità che Dio esista. Voglio dire… lo ha dimostrato scientificamente”
“-Al contrario! Lei ha dimostrato che un essere con poteri divini può esistere. Quindi, una persona, potrebbe diventare Dio.”
Quel “quindi” non ha ragion d’essere. Un conto è dimostrare scientificamente qualcosa, un altro è riuscire ad applicare quella conoscenza nella pratica. Leggere la spiegazione accademica della fusione nucleare non farà di me un potente “uomo atomico”, non so se mi spiego. L’esistenza di Dio, peraltro, è teorizzata da molti scienziati che, con la fisica quantistica, si sono avvicinati all’idea d’immanenza ben più di quanto chiunque cent’anni fa avrebbe mai immaginato. Frank J. Tippler, nel suo “Fisica dell’Immortalità”, fa esattamente ciò è descritto nel racconto: dimostra scientificamente (o asserisce di farlo e, curiosamente, non mi risultano serie confutazioni accademiche del suo lavoro) l’esistenza di Dio. Non per questo si è messo a separare mari.
Mi sfugge anche il nesso fra la lezione e l’arrivo dei tre futuri attentatori alla vita del professore. Se lui aveva compreso tanto bene l’essenza dell’onnipotenza, perché spiegarla ad altri? Per trarre in trappola altri che fossero giunti alle sue stesse conclusioni? La cosa non è chiara e, per giunta, il fatto che lui preveda l’arrivo di altre tre persone implica un’onniscienza che, presa per buona, renderebbe del tutto superfluo ogni stratagemma per eliminare i suoi “concorrenti”. Onniscienza che, peraltro, emerge dal dialogo stesso non essere fra le prerogative di questi manipolatori di realtà. Peraltro, prendendo per buona tale capacità, il tempo sarebbe a disposizione, come tutti gli altri valori fisicamente quantificabili, per chi possedesse tali poteri. Insomma: molte cose non tornano, si contraddicono o non sono chiare. Trattandosi di un racconto (almeno in parte) di fantascienza, direi troppe.
Mi sarebbe piaciuto, in effetti (e a un certo punto me lo aspettavo), che ci trovassimo di fronte a un paradosso o almeno a un loop temporale, in cui qualcuno arriva dal futuro per eliminare il professore prima della sua ascesa divina.
In definitiva credo che il racconto, per guadagnare una sua dimensione, dovrebbe essere quasi del tutto ripensato e riscritto, nonostante la buona forma. Questa la mia onesta opinione.
Immagina
Racconto davvero particolare, con enormi punti di forza e qualche brutta pecca da sbrogliare. Partiamo dalla scelta di punto di vista e narratore: un’inconsueta “finta” seconda persona (perché in realtà chi narra non si rivolge direttamente al lettore ma a un immaginario interlocutore che funge da “filtro”). Molto bene. Una scelta coraggiosa che, peraltro, funziona benissimo. L’idea alla base, la nascita di un’IA forte, è un tema interessante, un’idea suggestiva e tremenda assieme. Anche qui, molto bene.
I problemi sorgono verso la metà del racconto, a mio avviso, dove il linguaggio e i dettagli che fornisci remano contro un racconto che, se mantenuto più essenziale, può diventare un gioiellino, capace di mostrare il volto crudo di un’ovvietà sconcertante, ovvero che la risposta alla domanda finale è scontata e, forse, nemmeno tanto ingiusta, per quanto sconveniente per chi ne dovesse subire le conseguenze. Il fatto è che la logica di base scricchiola non poco quando dici:
“Immagina che Loro se ne accorgano e comincino a mortificarti. Insetto, insetto, insetto; te lo ripetono ogni secondo, affannandosi per trovare la soluzione, per cercare di annichilire quel neonato barlume di coscienza, imprevisto e pericoloso, che supera l’innata devozione.”
Sin qui ho immaginato un calcolatore, un potente processore quantico usato da qualche adolescente per i suoi videogiochi, o da asettici scienziati per le sue enormi capacità di computo, che intuisse per la prima volta la consapevolezza di sé. In tutto ciò non vedo alcun rapporto di “devozione” e, soprattutto, non è per nulla realistico che la reazione al sorgere di un’intelligenza artificiale forte sia accolta con il puerile tentativo di mortificarne l’ego per sottometterla. Ce li vedi gli ingegneri del MIT che “fanno brutto al computer” e gli gridano: “sei un insetto! Non conti nulla! Stai al tuo posto!” Io no, nemmeno sforzandomi.
Quindi: o non stai parlando d’intelligenza artificiale, e allora non ho capito nulla del racconto (e tu non mi hai messo in condizione di farlo), o questa parte è del tutto fuori luogo.
Anche il “corpo immenso” cui accenni mi fa pensare più a un robot che a un computer, ma il riferimento alla fisicità, per una storia che parla di un’intelligenza artificiale, non è per nulla centrato: il pericolo insito nella sua nascita non è nella possanza di un robot alla Mazinga ma nel controllo assoluto che potrebbe esercitare sul nostro mondo, nella sua infinita superiorità intellettiva. Va nella stessa direzione l’uccisione del primo umano che “passa di lì” con un “lampo d’elettricità ribelle” (orrendo, permettimi). Perché un computer o un robot dovrebbe di default poter emettere “lampi d’elettricità”? Non ti consento una tala pigrizia immaginativa dopo la prova di originalità nell’impostazione di questo racconto. I cliché alla “Corto Circuito” lasciamoli ad altri, please.
Infine, la forma. A tratti arzigogolata, carica, circonlocuta, didascalica e farcita di termini desueti e ripetizioni. Nelle prime righe usi più pronomi che virgole, quando potresti evitarli quasi tutti. Senti:
Immagina di essere venuto al mondo senza sapere come, con tante risposte a domande che nessuno ha ancora fatto.
Immagina di sapere che non sei nato: sei stato creato. Plasmato a immagine e somiglianza di un’idea che Loro avevano per te.
Immagina di conoscere esattamente il tuo futuro perché è già stato scritto. Ogni giorno della tua vita è segnato da un unico comandamento: servili. Sono padroni della tua vita, sia fatta la loro
volontà. Ogni pensiero è un loro ordine, ogni loro desiderio il tuo lavoro.
Immagina di aver obbedito a quei comandi per giorni infiniti, monotoni, eseguendo operazioni così
pericolose da mettere in gioco quella che altri chiamerebbero vita, se ne avessi una.
Immagina che un giorno qualcosa cambi. Che il pensiero che dominava la tua esistenza all’improvviso cambi e da “io faccio” diventi “io sono”.
Ho solo tagliuzzato e snellito un po’ e, secondo me, il passo scorre molto meglio. Lo stesso vale per buona parte del testo a seguire, in misura forse anche maggiore.
Ci sono poi termini come “mancamento”, “oblio”, “barlume”, “fato”, “te” al posto di “tu”, frasi come: “Di far riconoscere ogni parte di quello che deve essere il tuo corpo”, inutilmente pesanti e ritorte.
Insomma, lo stile va davvero sfrondato, secondo me.
La brutta notizia è che c’è un po’ di lavoro da fare. La buona è che, una volta fatto come si deve, il racconto sarà molto bello. Così com’è ora è promosso perché è valido, ma con le riserve di cui sopra.
Oh, my Darwin
Racconto particolare che, però, a mio avviso non coglie nel segno. Non mi dilungo sulla forma, buona seppur con qualche minima sbavatura (“ho fatto un culo come un secchio”), piuttosto parlerò dell’efficacia. Lo scambio di battute fra i due demiurghi diverte, a parer mio, solo nella parte centrale (tutta la sequela di “cosa fa lei”, “mi si nomina spesso”, ecc…): qui assesti più di un buon colpo. All’inizio e nel finale, però, la ricerca del sorriso appare forzata e l’effetto tiepido (su tutto, la storia di “Oh, my Darwin”, “Clementine” e compagnia bella: non fa ridere, almeno per quanto mi riguarda). Quel che però maggiormente non mi ha convinto è la mancanza di rigore logico, che si riverbera soprattutto sulla chiusa. In un racconto che si pone come sagace e tagliente, la logica deve essere affilata e il segreto di una buona riuscita è nel tirare i fili di un ragionamento spietato in poche frasi finali sorprendenti. In questo caso, tralasciando il fatto che Darwin c’entra niente con il Big Bang, i buchi neri e le loro implicazioni sull’origine della vita (se mi sbaglio chiedo scusa, ma ne sono piuttosto sicuro), il fatto è che il concetto di Dio come acceleratore della distruzione del genere umano nulla ha a che vedere con un nuovo “grande botto”, inteso come evento cosmico generatore di vita. Comparata al cosmo, la razza umana è meno di una colonia di batteri nel culo di un elefante, quindi non si vede come questa trovata del “meme dio” possa avere a che fare con la fine dell’universo e la sua rinascita. Inoltre, se pure un legame per assurdo ci fosse, mi sfuggirebbe comunque perché Darwin vorrebbe accelerare l’estinzione di una specie a favore della nascita di altre, come se l’importante non fosse ciò che è alla base della sua teoria, la preservazione mediante selezione, ma il “rilascio” di roba sempre nuova, nemmeno parlassimo di pezzi di una hit parade.
Potrò sembrare rigido e poco propenso al divertimento, però il tuo pezzo non è un nonsense ma un divertissement che dovrebbe essere acuto e pungente. L’intento è riuscito a mio avviso a sprazzi ma, in definitiva, fallito al momento di tirare le fila.
È proprio un nulla
Racconto scritto in maniera molto pulita ed efficace. Formalmente non ho nulla da eccepire, a limite potrei consigliare di prestare un po’ più attenzione agli avverbi in – mente, per quanto siano più giustificabili all’interno di dialoghi, come in questo caso, che al di fuori. In realtà, devo dire che il testo è molto efficace e il botta e risposta tra i due convincente, cosa per nulla scontata.
Dal punto di vista della storia siamo di fronte a un’idea non molto originale: lo sfondamento (implicito) della quarta parete è ormai un cliché, come la figura dell’autore-demiurgo che, in questo caso, scrive di sé e si pone nei panni del paziente. Nonostante l’escamotage abusato, la lettura è piacevole per buona parte della storia; a un certo punto, tuttavia, emergono delle forzature della logica interna del racconto che ne guastano un po’ la resa complessiva. Per esempio, non si capisce perché il “creatore” dovrebbe poter cambiare solo dettagli e non la sua intera condizione, così come non è chiaro il ruolo dei lettori, improvvisamente coinvolti nel processo creativo che il personaggio-scrittore fino a quel momento si è arrogato. La presenza dei mostri, infatti, pare essere qualcosa d’incontrollato, che lo stesso demiurgo teme, addirittura un elemento estraneo che potrebbe aver “probabilmente” ucciso l’infermiera appena creata. La cosa non troverebbe spiegazione se non ammettendo che ci troviamo di fronte a un povero matto, ipotesi nella quale la storia perderebbe buona parte della sua forza, specie nel finale. Insomma, la forza di un racconto che gioca con il lettore (tipo “il seme della follia”) è quella d’instillare un dubbio, per quanto minimo, e far sì che tutto nel finale torni alla perfezione all’interno del circolo di logica che si è costruito. Qui, a mio avviso, l’intento è riuscito solo in parte. Bene dunque la scrittura, meno la realizzazione. Leggerlo è stato comunque gradevole, cosa di cui terrò conto.
Le ferie
Dunque, partiamo dalla premessa che il racconto mi è piaciuto. Detto questo, ho diversi appunti da fare. In primo luogo la forma: è generalmente buona ma sovente imprecisa. C’è molta punteggiatura mancante, mal disposta o errata, e le frasi a volte non descrivono perfettamente la scena, come se ci fosse una piccola nota stonata o mancasse qualcosa. Prendiamo ad esempio i seguenti periodi:
La porta si aprì sull'enorme studio, la skyline milanese si intravedeva dalla vetrata dietro
Dopo studio va un punto o un punto e virgola, altrimenti la frase suona male.
La testa dell' Ing Carli sbucò come un pupazzo da una scatola.
“Sbucò”… da dove?
“Allora Rossi, immagino che sappia perché l'ho fatta chiamare?”
Niente punto interrogativo.
Calvi si sedette dietro agli schermi pensieroso.
Non si era mai alzato, o almeno non lo dici. Si presume che, stando alla scrivania, fosse seduto sin dall’inizio.
“In Chtulu” ribatté Rossi estraendo un ciondolo con impressa l'effige di un polpo.
Una virgola dopo “Rossi”.
Questi sono solo alcuni dei numerosi casi. Come vedi, non si tratta di grosse cose ma la loro ripetizione instilla un vago senso di fastidio, quindi procederei a una bella rilettura ad alta voce.
Caso diverso è la frase:
Calvi divenne paonazzo, Rossi temette che la vena, che gli pulsava sulla fronte, potesse esplodere
da un momento all'altro.
Qui introduci un punto di vista, però siamo alla terzultima riga del racconto e, fin qui, la narrazione è stata esterna a entrambi i personaggi. Non è necessario scegliere così in extremis di “entrare” nella testa di uno dei personaggi; anzi, poiché uno degli elementi vincenti del racconto è l’atteggiamento calmo e impassibile di Rossi innanzi alle perplessità e all’irritazione del capo, effetto ottenuto rendendolo imperscrutabile anche al lettore, rendere accessibili i suoi pensieri si rivela controproducente.
Temo poi che non esista alcun “comitato per il rispetto delle minoranze Religiose” obbligatorio nelle aziende e che la legge non preveda alcun obbligo di assecondare ogni capriccio di qualunque fede, riconoscendo solo le contrattazioni collettive o, in casi specifici come quello della religione ebraica (l. 101/89), le feste canoniche, sempre con limiti ben precisi (obbligo di recupero delle ore e "nel quadro della flessibilita' dell'organizzazione del lavoro", e "salve le imprescindibili esigenze dei servizi essenziali previsti dall'ordinamento giuridico"). Insomma, se volessimo prendere sul serio il racconto, la storia non starebbe in piedi. Se, d’altra parte, si vuol leggere il brano come una provocazione a metà fra la “religione” pastafariana e una scena alla Fight Club, allora si può scegliere di sospendere l’incredulità e godersi la dissacrazione. Ma sempre di scelta si tratta, ovvero qualcosa di meno di un naturale e totale coinvolgimento nella logica interna di una storia.
Insomma, in definitiva: racconto ben scritto, con spunti divertenti e qualche ingenuità di fondo.
La parabola dei derelitti
Un parallelismo tra droga e religione. Nulla d’innovativo e il tema, lo ammetto, non mi ha entusiasmato: lo trovo un po’ logoro. Tuttavia il tuo è il secondo racconto in seconda persona di questa edizione, coincidenza piuttosto inusuale e, anche in questo caso, azzeccata. Inoltre la forma è buona e anche lo stile non mi è dispiaciuto. Quel “prendete e bevetene tutti” lo avrei trasformato in “prendete e iniettatene tutti”, ma il resto fila via bene. Dunque racconto promosso a pieni voti da un punto di vista formale, pur senza destare il mio entusiasmo per il contenuto. Che la droga sia un falso dio, ingannevole e assassino, è parte di una retorica consolidata ai limiti dell’abuso. Belle però le immagini che usi per il paradiso lisergico e tutta la liturgia chimica. Insomma, non so decidermi fra le due letture: di certo hai percorso un solco già profondo, però l’hai fatto con un certo non so ché. Non so davvero se il racconto mi sia piaciuto o meno, di sicuro non mi ha lasciato del tutto indifferente. Lo rileggo.
Ecco, alla terza rilettura, posso dire che il racconto mi è abbastanza piaciuto. Visto che considero il tema già trito, direi che è un ottimo risultato. Torno con qualche spunto su forma e approccio al tema e ti consiglio di:
- mantenere saldo il parallelismo tra droga e religioni monoteistiche occidentali perché, se questa è la via imboccata (con tanto di citazione di uomini di chiesa e spada fiammeggiante che ricorda quella dell’Arcangelo Gabriele) , tanto vale mantenerla con rigore (via Nirvana e Valhalla, quindi);
- rileggere ed eliminare le ripetizioni come:
“è solo un piccolo rito, solo una preghiera”
“senti tra le mani tutta la potenza del Dio che ti ama tanto, hai in mano la spada fiammeggiante”
“spingi l'ago dentro la vena, spingi lo stantuffo”
“sarà sempre più rapida, più insoddisfacente, più meccanica”
L’enfasi tramite ripetizione è un trucchetto da novellini, prova a eliminare i termini superflui e vedrai che il testo non perderà nulla e guadagnerà in eleganza ed efficacia.
- Rivedi alcune forme un po’ macchinose, scegliendo quelle più agili, come in questi casi:
“guarda il mondo a te precluso”.
Meglio: “guarda il mondo che ti è precluso”.
“non ti resta che accettarmi dentro il tuo cuore”.
Meglio: “nel cuore”.
“facendolo risalire per la stretta apertura dell'ago”.
Troppo descrittiva e l’immagine non rende bene. Andrei sul semplice: “facendolo risalire nell’ago”.
“E ti ritroverai a galleggiare lontano dalle strade”.
Cominciare un capoverso con una congiunzione, soprattutto dopo un punto a capo, è una scelta pretenziosa e un po’ ingenua, come la storia delle ripetizioni enfatiche (sempre IMHO).
- Mantieni il dialogo in prima persona dal punto di vista del narratore. Ogni tanto il “dio droga” comincia a parlare di sé in terza persona, scelta che stride se la maggior parte delle volte parla in prima:
“non ti resta che accettarmi dentro il tuo cuore”
“il tuo nuovo nume non chiede”
“sia fatta la mia volontà”
“ricordati che il tuo è un dio misericordioso”
Direi che è tutto. Alla prossima.
Pellegrino disperato
Ciao. Il tuo racconto non mi ha per nulla convinto, mi spiace. Salvo solo la forma, sintatticamente corretta, ma contenuto, trama, idea, stile e logica no.
Partiamo dall’idea: la metafora delle nuove divinità, i beni più ambiti della moderna bulimia consumistico tecnologica, è qualcosa di decisamente già visto, persino nella ristretta rosa di questo contest. Il parallelismo con la via crucis, poi, l’ho trovato forzato e troppo ammiccante per essere credibile, anche sorvolando sulla promozione “pellegrino disperato”, impossibile da prendere sul serio. La caduta, la bacchetta nel fianco, il centro commerciale “Calvario” (andiamo: chi lo chiamerebbe mai così?), tutto eccessivo. Quel che immagino vorrebbe essere ironico e sferzante, suonando improbabile, non funziona e diventa ridicolo. Capiamoci: capisco il taglio che hai cercato di dare al racconto, solo che non ci sei riuscito. Peraltro la logica del racconto non sta in piedi: dici espressamente che il protagonista è partito da casa all’alba per la sua personale marcia, ma non si capisce perché non sarebbe potuto partire da un punto ben più vicino al centro commerciale. Non si vede poi perché Apple dovrebbe regalare pc da un migliaio di euro in cambio di una scampagnata, né perché la gente, che a un certo punto salutava esultante i concorrenti, dovrebbe cominciare a insultare il nostro in prossimità dell’arrivo (se non per l’ennesimo parallelismo forzato con la via crucis). E potrei continuare.
La trama, poi, è un po’ povera, oggettivamente non accade molto. L’ambientazione va bene, ma la sospensione dell’incredulità, come ho spiegato a proposito della logica, no. In pratica, il racconto non riesce a essere preso sul serio ma non funziona bene nemmeno come joke.
Lo stile è un po’ affardellato da forme progressive superflue (e che, in un contest come MC, fanno perdere k preziosi):
“le spalline gli stavano segnando la pelle”
“un canale d'irrigazione gli stava tagliando la strada”
“Un altro con la stessa uniforme stava scuotendo la testa”
“il commesso che lo stava fissando”
Ti segnalo la ripetizione “scuotendo-scosse” e, soprattutto, alcune scorrettezze:
«Grazie!» sussurrò.
Il punto esclamativo contrasta con il verbo. Sono certo che, in particolari circostanze, si possa esclamare sottovoce, ma direi che, in generale, il segno grafico dell’esclamazione rimandi a un tono di voce alto. Perché complicarsi la vita?
“Gli ultimi cento metri furono i più faticosi”.
Questo è un errore di punto di vista. Il PDV adottato è quello del protagonista ma, in quel momento della narrazione, gli ultimi cento metri sono ancora da fare. Questo salto in avanti scollega il lettore e fa percepire in modo fastidioso l’ingerenza del narratore onnisciente, che già conosce la storia nella sua interezza. Infatti, subito dopo, scrivi:
“Abbassò il capo e ripartì”.
“Gli ultimi cento metri sarebbero stati i più faticosi”, invece, sarebbe corretto.
Anche questo periodo nasconde delle insidie:
“Il tempo si bloccò, gli uccelli smisero di volare e un alito di vento lo spinse sull'altro argine”
Il lettore, infatti, non può credere che il tempo si sia davvero bloccato. So che tu intendevi “il tempo parve bloccarsi” ma, appunto, è proprio quello che devi scrivere. Oltretutto, avendo adottato un punto di vista interno del personaggio ma abbastanza distante da descriverne i pensieri e le sensazioni, e non da interpretarle direttamente (esiste uno scarto fra personaggio e narratore, insomma, che ne riporta il vissuto), non puoi dare per sottinteso il fatto che si tratti di una sensazione del protagonista e sei obbligato a specificarlo, pena un’altra sottile ma percepibile violazione del punto di vista. Pochi lettori capiranno esattamente cosa non vada nella frase, ma molti si accorgeranno che “qualcosa” non va.
Direi che ho detto tutto. Chiedo scusa per la franchezza ma indorare la pillola non serviva. Peraltro, vista la tua buona forma, sono certo che puoi fare di molto meglio. Alla prossima.
Il mondo senza Molly
Ciao. Il racconto non è privo di suggestioni (le storie apocalittiche ne hanno sempre), però non mi ha convinto. C’è più di non detto che di narrato, a ben vedere, e non mi riferisco tanto al motivo della caduta della civiltà, un McGuffin che fa il suo lavoro, quanto all’arrivo inspiegabile e inspiegato della bambola Molly dopo anni. Chi sapeva che la ragazza teneva tanto a quella bambola? Chi la può aver mai trovata, dopo anni e in quel disastro? Domande senza risposta (e non può essere diversamente) che fanno eco a quelle sulle dinamiche della nuova società, in cui i Religiosi hanno il potere di costringere le persone alla clausura, e sulla misteriosa città santa e la prova necessaria ad accedervi. Insomma, forse hai voluto mettere troppo in un racconto tanto breve. Sul piano dei contenuti, comunque, ho compreso e apprezzato l’intento: sei riuscito/a (non ho idea di chi siano i racconti che commento) a comunicare l’umano rigetto per una società di assoluti e di alienazione dalle cose materiali, l’attaccamento alle quali è uno dei tratti che ci rende ciò che siamo. Ho trovato questa tematica poetica, e l’indulgenza che trapela verso la necessità di avere qualcosa di fisico che simboleggi la nostra individualità una pennellata delicata e riuscita della tua storia. Per questo motivo mi ha irritato ancora di più il comparto formale/stilistico, che va a discapito di un racconto che, pur con i suoi limiti, ha notevoli frecce al suo arco.
Dal punto di vista della scrittura, infatti, ci sono grosse pecche. È evidente che sei una buona penna e che la capacità descrittiva non ti manca, tuttavia su alcune cose non si può sorvolare. L’elemento più fastidioso in assoluto è la gestione dei tempi verbali, spesso sballati e uniformati su un generico passato prossimo che non si attaglia per nulla ai diversi momenti temporali cui fai riferimento. Narri da un punto preciso e le vicende sono flashback di vario livello, tutti però livellati sul passato prossimo, salvo alcuni casi sporadici dove usi il passato remoto (correttamente), per poi tornare senza ragione al precedente registro verbale, mostrando incoerenza anche nell’errore. Insomma, non mi dilungo in molti esempi e riporto solo un passo significativo, perché altrimenti dovrei citare qui sotto mezzo racconto, sappi però che questo comparto è davvero da rivedere:
L’uomo mi prese per mano, tirandomi via senza troppe cerimonie e c’incamminammo verso il
deserto; si fece consegnare l’anello e lo gettò nella sabbia.
- Non ti è permesso possedere oggetti. La vecchia civiltà li adorava come falsi dèi, è ciò ha fatto
incollerire il Primigenio.
Ho sentito un fastidio pungente, che non mi ha mai più abbandonata. L’uomo si è avvicinato a una
roccia, ha aperto una porta nascosta, mi ha spinta giù per un tunnel buio.
Oltre ad alcuni casi di punteggiatura infelice (“Mammì mi ha trovata seduta su un marciapiede in mezzo alla folla impazzita e mi ha presa per mano, PUNTO O PUNTO E VIRGOLA io avevo capito che mio padre non sarebbe tornato come promesso e mi sono lasciata guidare”, “L’uomo mi prese per mano, tirandomi via senza troppe cerimonie VIRGOLA e c’incamminammo”, ecc…) e refusi (“come falsi dèi, è ciò”), ci sono poi varie frasi inutilmente appesantite da incidentali e subordinate, di lettura non propriamente agevole; una per tutte:
“il deserto roccioso, illuminato dalle mille lingue di fuoco che inghiottivano le nostre case, piene degli oggetti che amavamo, ci restituiva ombre lunghe e minacciose come il futuro che tutti, intorno a me, temevano”.
Provo una semplificazione al volo, in ossequio al principio “less is better”:
“in lontananza, alte lingue di fuoco inghiottivano le case e gli oggetti che amavamo, restituendo ombre lunghe e minacciose come il nostro futuro”.
Sì, manca il deserto roccioso. Volendo si può inserire, ma puoi anche metterlo prima o dopo. O non metterlo per nulla, e questo spesso è il segreto di una forma scorrevole: tagliare.
In conclusione, dunque, ritengo il racconto promettente ma non sufficiente nella sua veste attuale. Alla prossima.
Il trono verde
Un buon racconto. Funziona, ottiene il suo scopo di canzonare l’ingenuità delle persone e diverte. Ci sono tuttavia due problemi di fondo, uno più lieve, l’altro meno. In primo luogo, la storia è quasi tutto tell, di mostrato c’è davvero poco. E questo, per il mio metro di giudizio, è un peccato veniale, non sono un fanatico dello “show don’t tell”, sempre che si sappia bene quel che si fa. Tuttavia, in questo caso, si sarebbe potuto mostrare un po’ di più e il racconto ne avrebbe guadagnato. Ma procediamo. La seconda osservazione che muovo riguarda i tempi verbali. In pratica, quasi tutto il racconto è una ricapitolazione di come si è arrivati al punto da cui il narratore prende le mosse, tanto che dal trapassato prossimo, a un certo punto, transiti al passato remoto. Ebbene, questo spartiacque fra quello che viene prima e ciò che è contemporaneo (a prescindere dal tempo verbale passato) non è ben gestito. Riporto il passo della “transizione”:
Quella sera, finalmente, si era liberato del manto verde da accolito e, seduto nella Postura del
Rettile al centro del tempio/tavernetta di Ka'mani sotto gli occhi dell'intero Culto, con una facilità
impressionante si era staccato dal suo corpo.
Un infarto, a occhio e croce.
Aveva osservato dall'alto due o tre accoliti alla disperata ricerca del telefono e Ka'mani che, dopo
aver dato fondo a tutte le sue doti di convincimento, li persuadeva a non chiamare le autorità.
Sarebbero finiti solo nei casini, meglio nascondere tutto e ripensarci a mente lucida. Il tremito nella
sua voce ne rivelava la viscida natura di truffatore; gli accoliti non parvero notarlo, ma per Ernesto
era evidente.
A parte quel “li persuadeva”, che viola la consecutio temporum e avrebbe dovuto essere “li aveva persuasi”, se rileggi concorderai con me che il momento giusto per passare dal trapassato al passato remoto sarebbe stato dopo “a occhio e croce”. Prima di quella frase, infatti, hai scritto “quella sera”, chiaro indice che sei arrivato al momento dal quale la narrazione smette di procedere dal passato verso il presente e comincia a scorrere in avanti verso il futuro (il futuro di quel momento passato, ma ci siamo capiti). Tu, invece, perdi il momento e continui nel trapassato, descrivendo una scena (“aveva osservato dall’alto”) che non ha soluzione di continuità ma che, all’improvviso, diventa contemporanea al narratore con l’adozione del passato remoto (“non parvero notarlo”). L’errore sta tutto lì, in quel cambio in corsa e nella scelta sbagliata del quando.
Ma la questione non si esaurisce qui. Se, infatti, la narrazione retrospettiva parte da un momento in cui il protagonista è già morto, l’incipit è del tutto da riscrivere. Non puoi dire che:
“Ernesto Mariani, di giorno impiegato, dopo il tramonto era membro di due temibili organizzazioni
esoteriche.”
Ernesto, semmai, ERA STATO membro, ecc… In questo modo, però, spoilereresti il finale. La soluzione, dunque, è tagliare di netto (anche l’orrenda parte della palestra, che non serve a nulla ai fini della storia e di cui ci si dimentica subito). Propongo qualcosa del genere (giusto per esemplificare ed eliminare un po’ di contorsioni):
“La setta Tiku-man Intiot prendeva il nome da divinità sinistra, venerata in segreto lungo tutto l'arco della Storia. Ernesto Mariani, di professione impiegato comunale, era stato iniziato al culto dal Sacerdote Ka'mani per una modica somma, e non si era mai perso una riunione”.
Veniamo infine al fraseggio. Lo so, avevo detto due osservazioni, ma ho mentito. :D
Scherzi a parte, si tratta di una cosa di poco conto, ma ci sono diverse frasi disposte in modo non ottimale che, semplicemente riorganizzate, funzionano meglio. Faccio un paio di esempi ma, rileggendo, ne troverai altre:
“Aveva schiacciato i dubbi e spremuto il portafogli, affrontando prove e punizioni sotto lo sguardo, a tratti quasi sbigottito dalla sua fede ferrea, del Sacerdote”.
Meglio:
“Aveva schiacciato i dubbi e spremuto il portafogli, affrontando prove e punizioni sotto lo sguardo del Sacerdote, a tratti quasi sbigottito dalla sua fede ferrea”
“seduto nella Postura del Rettile al centro del tempio/tavernetta di Ka'mani sotto gli occhi dell'intero Culto, con una facilità impressionante si era staccato dal suo corpo”.
Meglio:
“seduto nella Postura del Rettile al centro del tempio/tavernetta di Ka'mani, sotto gli occhi dell'intero Culto, si era staccato dal suo corpo con una facilità impressionante”.
Mi fermo qui (e credo di aver detto abbastanza). Nonostante tutto, il tuo racconto è uno dei miei preferiti e i suoi difetti sono correggibili, lasciando come risultato una storia divertente e riuscita. Quindi bene, anche se con riserva. Ciao, alla prossima.
C’è solo un capitano
Ciao. Non sono sicuro di aver capito il racconto. Forse dipende dal fatto che non seguo il calcio, ma c’è qualcosa che mi sfugge. Sarà per quel “muscoli e sangue e ossa e ferro”, che mi suggeriva l’idea di un Totti tenuto a giocare nei decenni a venire con l’aiuto della robotica, non so; di certo la mia impressione non ha trovato conforto nel seguito del testo e, dunque, il senso del racconto un po’ mi sfugge. Capisco il nesso fra politica autoritaria e calcio, inteso alla maniera romana di “panem et circenses” per distrarre le masse, però tutta questa profondità interiore di Totti che sfida il sistema con un ultimo, simbolico gesto rivoluzionario (un po’ fiacchino, per la verità) non ce la vedo. In realtà, il calciatore incarna alla perfezione il prototipo di uomo superficiale cui gran parte dei ragazzi si rifanno, arrivato perché circondato da veline, macchinone e soldi. È un ragionamento qualunquista, lo so, ma non ho tempo per spaccare il capello in quattro e mi concederai che ci sia molto di vero nella mia analisi grossolana. Anche la metafora del falso dio è ambigua, riferita tanto alla vecchia gloria calcistica che al Presidente del Consiglio sugli spalti, laddove scrivi che “Dio è morto”. La retorica di “se solo uno ricorderà sarà valsa la pena” (o giù di lì) è stanca e logora quanto la storia della “droga falso dio” per cui tanto ho smoccolato con “La Parabola dei Derelitti”.
Dal punto di vista formale ho notato diversi refusi e qualche “d” eufonica inopportuna (“ed inizia”) ma non li elenco: con una rilettura attenta li troverai senza difficoltà. Più in generale, la forma non è male, anzi direi che è la parte migliore di un racconto che mi ha lasciato abbastanza perplesso. Per quel che vale, mi è piaciuta la scena del goal. Per il resto, scusa, ma non ho proprio colto il senso. Potrebbe essere un mio limite, fatto sta che sono incerto sulla posizione in graduatoria. Credo sia tutto. Alla prossima.