La notte delle fate
Inviato: sabato 11 giugno 2016, 16:50
Lo Straniero bevve un sorso di vino rosso dal grosso calice di vetro. Lo trattenne in bocca qualche secondo, imprimendogli una leggera pressione contro il palato con la lingua, poi deglutì. Sorrise, estasiato.
Passò all’hamburger di chianina: gli diede un morso e il sapore della carne tenerissima lo riempì di delizia. Nonostante avesse viaggiato in lungo e in largo e assaggiato la cucina di ogni angolo del mondo, quello era ancora uno dei sapori che preferiva.
La ragazza seduta accanto a lui lo urtò leggermente con il gomito.
“Sorry!” Gli disse.
Guardò incuriosita la veste scura che lo ricopriva quasi per intero. Lo Straniero fece un cenno con la testa e la ragazza riprese a chiacchierare con l’amica che era con lei.
Sbirciò nei loro piatti: avevano preso la pizza margherita da Romualdo, come faceva la gran parte dei turisti al Mercato Centrale di Firenze. Romualdo faceva la pizza “alla napoletana” (che per gli stranieri era sinonimo di “originale italiana”), con la mozzarella che si scioglieva in bocca.
Guardò l’orologio: erano le 22.30 e il Mercato Centrale era in piena attività. Le code davanti alle botteghe erano ancora lunghe e dietro ai banconi i bottegai affettavano, arrostivano, friggevano, spadellavano, impiattavano e auguravano buon appetito.
Ci sarebbero volute ancora un paio d’ore prima che il caos iniziasse a scemare, i tavoli si svuotassero e gli avanzi delle specialità artigianali finissero nel cestino.
Lo Straniero attendeva il momento in cui i bottegai, spenti i fornelli e puliti i banconi, se ne fossero andati a dormire.
Attendeva il momento in cui l’Altro Mercato Centrale avrebbe aperto l’attività.
Il custode abbassò le luci e chiuse la porta, poi abbassò le saracinesche e si avviò fischiettando lungo via dell’Ariento.
Sulla corte interna del Mercato Centrale calò il silenzio.
Per qualche minuto non accadde niente. Poi la quiete fu attraversata da un rumore. In un angolo della corte una mattonella si mosse e si sollevò come una botola.
Una testa sporse dal pavimento: apparteneva a uomo con una folta barba rossa e due grosse corna ritorte.
L’uomo si guardò in giro, e, quando fu certo che tutto fosse tranquillo, uscì dal buco, saltellando su due gambe da capra. Raggiunse il centro della corte e suonò il corno.
Altre botole si aprirono e nel Mercato Centrale entrarono gargoyle, streghe, nani, gnomi, gatti mammoni, folletti, orchi e ogni genere di creatura magica.
Ciascuno prese il proprio posto nelle botteghe, che si rianimarono immediatamente: grosse lanterne di carta si accesero, i fuochi riavvamparono, le pietanze furono risistemate sui banconi, nelle pentole ricominciarono a sfrigolare i cibi e in breve tempo l’intero mercato si riempì nuovamente di profumi deliziosi.
Di lì a poco arrivarono anche i clienti: spiriti, fantasmi e demoni si riversarono nella corte dal pavimento, dal soffitto, dalle fognature e dalle pareti, sciamando tra le botteghe.
Lo Straniero annullò l’incantesimo d’invisibilità che lo teneva nascosto e passeggiò tra le botteghe dell’Altro Mercato.
Dove prima c’era la bottega di Romualdo, adesso una vecchia megera vendeva liquori di karma negativo per spiriti maligni depressi.
La bottega dei prosciutti e dei salami toscani era diventata la rosticceria Cibo Pesante – per spettri che non vogliono essere evocati nelle messe nere, gestita da una ragazza-gatto.
Nella bottega dei dolci, cinque gnomi operosi vendevano limonate restringenti per fantasmi dell’armadio troppo ingombranti.
Era tutto un gran vociare, tra sfrigolii appetitosi e odori stuzzicanti.
“Ravioli al ripieno d’anima in salsa di fenice!”
“Frullati di energia negativa, proveniente dalle peggiori giornate andate storte!”
“Decisioni! Addii! Rinsavimenti! Tutti i cibi per potenziare l’influenza sui vostri protetti e convincerli a cambiare vita!”
Lo Straniero rimase per qualche minuto ad ammirare le botteghe, poi si concentrò sul lavoro.
Raggiunse la bottega di Pancino, Sapori Post Mortem, sul lato est della corte. Lesse le insegne piazzate sul bancone. “Buono come quando avevi le papille gustative”, “Gourmet post-mortem”, “Riscopri i sapori di quando eri vivo!”.
Sorrise. Era proprio come gli avevano detto.
Pancino era un bestione dall’aspetto simpatico, una creatura metà orso e metà formichiere nato e cresciuto nei boschi dell’alta Garfagnana. Lo Straniero doveva ammettere che, quando gli avevano parlato di lui, era rimasto colpito dall’idea che aveva avuto per il suo business. Un’attività del genere richiedeva una quantità enorme di tempo passato a sperimentare, mescolare e rielaborare cose del mondo soprannaturale per farle sembrare cibo del mondo dei vivi. Certo, non si poteva dire che la cosa non pagasse, vista la folla di spettri radunata davanti a Sapori Post Mortem: quella degli spiriti era un’esistenza grama già di per sé, se ci si metteva anche che il cibo che avevano amato in vita diventava completamente insapore, la cosa diventava insostenibile.
“Ecco qui la sua fettunta, signore!” Disse Pancino, poggiando un vassoio con una bruschetta al cavolo nero davanti a un vecchio fantasma. “Il pane è un impasto di uova di uroboro e il cavolo nero è una crema di geco a due teste della Grotta del Vento.” Spiegò.
“Mmmh, che buona! È proprio come… come la fettunta!”
“Appunto, signore. È per quello che mi chiamo Sapori Post Mortem.”
“Mi viene da ululare per l’emozione! Come hai fatto a riprodurla così bene?”
“Glielo racconto un’altra volta, va bene? Ora devo portare queste cavalcature di folletto al signor Karakasa. Ecco qua le sue chiocciole al sugo, signor Karakasa! Certo che sfortuna, eh, venire in vacanza a Firenze dal Giappone e trovare questo brutto tempo. Beh, non si può certo dire che le manchi l’ombrello…”
Lo Straniero vide che dietro Pancino saltellava un esserino vestito di rosso e con un cappello a punta. Dalle maniche spuntavano due braccia di legno che scattavano da un pentolone all’altro, riempiendo piatti e scodelle. Lo Straniero corrugò la fronte. L’aveva riconosciuto, ma non capiva cosa ci facesse lì.
“Ehi, lei laggiù, è proibito far salire i linchetti sui banconi! Tenga a freno il suo linchetto!” Urlò Pancino.
Un fantasma dall’accento lucchese assunse un’espressione ferita. “Incubus non stava facendo niente di male!”
“Sì sì, intanto lei lo rimetta in borsa. Guardi che glielo impano e glielo friggo, eh? Ehi, ragazzo, arriva o no quella ribollita?”
L’esserino di legno consegnò una scodella piena di zuppa a Pancino, ricevendo per ringraziamento una botta in testa. “Te l’ho chiesta mezz’ora fa! Guarda che ti rimando dal giocattolaio, eh?”
Lo Straniero decise che era il momento di intervenire.
“Vorrei degli spaghetti al ragù.” Disse.
Pancino si voltò verso lo Straniero.
“Le porto il menù, ci sono tanti piatti appetitosi che…”
“Ho già scelto. Voglio gli spaghetti al ragù.”
Pancino servì due scodelle di pici al formaggio a due spiritelli cinesi e si avvicinò allo Straniero.
“E se invece le facessi degli spaghetti al pomodoro fresco? Mi creda, sembrano davvero…”
“No. Ragù.”
Pancino sospirò. “Casca male, allora. Il ragù non lo facciamo, purtroppo. Sono anni che ci provo, ma ancora non ho trovato niente per riprodurlo. Con gli spaghetti ce l’ho fatta, uso i serpentelli maligni dell’Arno, ma con il ragù ancora non ci sono riuscito…. non trovo niente che abbia quel sapore. Ma è solo questione di tempo, sa? Prima o poi il modo lo trovo.”
“E se ti dicessi” disse lo Straniero, abbassando la voce. “Che conosco un modo per riprodurre il ragù alla perfezione?”
“Avresti fatto bingo.” Rise Pancino.
“Ti dico come fare per cinquanta monete d’oro.”
Pancino fischiò. “Per quella cifra dovrebbe essere un ragù che fa resuscitare i morti!” Rise, ma subito si pentì perché alcuni fantasmi si girarono a guardarlo male.
“Andiamo” Lo incalzò lo Straniero, “tu non sei come gli altri chef dell’Altro Mercato. Non offri del semplice nutrimento come quelli che vendono i frappè di tristezza, tu sei qui per far ricordare ai morti come ci si sente da vivi. Il ragù è il grande assente nel tuo menù da sempre. Non vuoi colmare questa lacuna?”
“Vedo che ti sei preparato bene.” Disse Pancino, guardando lo Straniero con sospetto. “Chi sei?”
“Sono solo uno che ha le informazioni giuste. Tieni, fa’ assaggiare questo ai tuoi ospiti.”
Pancino prese il barattolo che lo Straniero gli offriva e lo guardò: dall’aspetto sembrava proprio ragù. Ne prese un cucchiaino e lo assaggiò: doveva ammettere che era squisito, ma non era a lui che doveva piacere. Lo diede a una coppia di vecchi coniugi, servendoglielo sui crostini: si leccarono anche le dita e ne chiesero ancora.
Pancino non credette ai propri occhi.
“Aspetta qui.” Disse allo Straniero.
Lo Straniero aspettò che Pancino terminasse di servire i clienti. Col passare delle ore gli spiriti iniziarono a diminuire, scomparendo attraverso le pareti per tornare alle loro case, nelle tombe, negli armadi e nei pozzi.
A un’ora dall’alba Pancino raccolse i suoi strumenti e il cibo avanzato in una grande sacca, mentre il ragazzo con il cappello a punta strofinava ogni superficie della bottega per non lasciare traccia del loro passaggio.
“Allora? Quale sarebbe questo grande segreto?”
“Dammi cinquanta monete d’oro e lo saprai.”
Pancino sbuffò e contò cinquanta monete. Era una follia, lo sapeva. Ma erano troppi anni che cercava di cucinare del ragù per spettri, non poteva lasciarsi scappare un’occasione così. Diede le monete allo Straniero, che le fece sparire sotto la veste.
“Fate carnaiole.”
“Che?”
“Fate carnaiole. Sono un tipo di fata che si nutre solo di carne. Una manciata di quelle, e farai un ragù da leccarsi i baffi.”
“Non ho mai sentito di queste fate.”
“Non sono originarie di questa regione, ma negli ultimi anni hanno preso a spostarsi, sa il cielo perché. Di solito infestano i giardini per rubare il cibo dalle ciotole dei cani.”
“E dove le trovo queste fate carnaiole?”
“C’è una piccola comunità all’estremo nord del quartiere di Novoli. Escono fra le due e le quattro del mattino. Non sono difficili da riconoscere, emanano un bagliore blu e hanno un aspetto molto… caratteristico.”
Lo Straniero mostrò a Pancino il disegno di una fata carnaiola. Due ali da mosca spuntavano sulle spalle di un corpicino a malapena antropomorfo, sovrastato da una testa calva con due occhi da insetto e una bocca irta di zanne. Sembrava un pesce abissale.
“Ah, beh… carine.”
Lo Straniero sorrise. “Sono anche piuttosto feroci, perciò stai attento.”
“E con quelle si può fare il ragù come quello che mi hai dato?”
“Ci puoi giurare.” Disse lo Straniero, alzandosi. “Ora devo andare. È stato un piacere fare affari con te.”
“Spero proprio che funzioni.”
“Funzionerà. Senti, mi togli una curiosità?”
“Uh, certo.”
“Si può sapere che ci fa Pinocchio nella tua bottega?”
Pancino si voltò a guardare il suo assistente, ancora intento a pulire. “È scappato da un negozio di giocattoli. Non lo comprava nessuno, era lì da quasi trent’anni, ormai i proprietari lo tenevano perché c’erano affezionati.”
“Capisco.” Disse lo Straniero. “Buona fortuna per la caccia.”
“Grazie. Ne avrò bisogno, con quelle cose lì…”
Ma lo Straniero era già scomparso.
“Ti sei ricordato il retino di capelli di dea?” Chiese Pancino a Pinocchio.
“Sì, Pancino, eccolo.”
“Bene. Ecco il piano: tu ti avvicini alle fate senza farti vedere, gli lanci un pezzo di carne, aspetti che si fermino a mangiare e poi le acciuffi con il retino. Poi arrivo io e le metto qui dentro.”
Pancino tirò fuori dallo zaino un’enorme giara e ci sbatté sopra la mano.
Pinocchio sospirò. “A me piacciono le fate, Pancino. Mi dispiace ucciderle…”
“Vedrai che queste non ti piacciono, sono brutte come gli esorcismi. Dai, andiamo.”
Si mossero tra le strade buie di Novoli. Pancino si era messo addosso un pastrano nero, con un ampio bavero e grossi bottoni d’osso, che gli ricopriva per intero il corpo peloso e gli nascondevano il naso da formichiere. Pinocchio, invece, indossava un cappottino nero e si muoveva a fatica sotto il peso dell’enorme retino.
Perlustrarono diversi isolati, muovendosi furtivamente e tenendosi lontani dalla luce dei lampioni. Sbirciarono in tutti i giardini, trovandoli vuoti e silenziosi. Delle fate carnaiole non sembrava esserci traccia.
“Accidenti a questa nebbia, non si vede niente…” borbottava Pancino.
Continuarono a cercare, ma tutto ciò che trovarono furono folletti girovaghi e gatti randagi che gli indirizzarono miagolii minacciosi.
“Lo sapevo, quel tizio mi ha truffato!” Sbottò Pancino a un certo punto. “Accidenti a me, ho buttato via cinquanta monete d’oro!”
“Guarda, Pancino.” Disse Pinocchio, indicando dall’altra parte della strada.
Pancino strizzò gli occhi. Al di là del cancello di una villetta a schiera gli sembrò d’intravedere un bagliore bluastro.
“Bravo, ragazzo.” Mormorò. “Aspetta, mi avvicino…”
Pancino si mosse in punta di piedi lungo la strada. A vedere quel gigante muoversi in quel modo, a Pinocchio venne da ridere. Si mise una mano davanti alla bocca, ma fu inutile: scoppiò a ridere così forte che Pancino sussultò per lo spavento.
“Cos’hai da ri… Guarda!”
Un lumino azzurrognolo guizzò via rapido davanti ai loro occhi, tracciando una parabola nell’aria e scomparendo sul retro della villetta.
“L’hai fatta scappare! Forza ragazzo, vieni!”
Pancino raggiunse di corsa il cancello ed entrò nel giardino dell’abitazione. Pinocchio lo seguì. Si portò al fianco del suo capo, che lo spinse in avanti.
“Guarda, eccola là!” Gli sussurrò Pancino. “Vicino all’altalena.”
Pinocchio individuò la fata carnaiola, deglutì e si mosse piano, stringendo il retino. Si avvicinò alla creatura trattenendo il respiro e allungò il braccio per gettarle la carne. Sentì che la fata faceva strani rumori con il naso, come se stesse aspirando con forza. Capì troppo tardi cosa stava succedendo: nel momento in cui si rese conto che la fata aveva fiutato il cibo, stava già divorando la striscia di carne nella sua mano. Quando ebbe finito la carne, la fata affondò i denti nella mano del burattino.
Pinocchio cacciò un urlo così acuto che a Pancino si gelò il sangue nelle vene, certo che avrebbero svegliato chiunque nel raggio di tre chilometri. Uscì dal suo nascondiglio dietro ai bidoni della differenziata e corse ad aiutare il suo assistente. Afferrò la fata e la tirò via con forza dal legno. Fu anche peggio: quella si rigirò e morse lui, riuscendo ad affondare i denti nella carne nonostante l’ampio strato di pelliccia di Pancino. Il cuoco gridò di dolore e prese ad agitare freneticamente la mano nell’aria.
“Il retino! Stordiscila con il manico del retino!” Urlò.
Pinocchio calò il retino sul braccio di Pancino, prendendolo in pieno e strappandogli un ulteriore grido di dolore.
“Ahia! Devi prendere la fata, non il mio gomito!”
“Scusa, Pancino! Non è mica semplice, sai? È troppo piccola!”
“Che male! Prendi la giara! La giara, ragazzo!”
Pinocchio si precipitò a prendere la giara e la portò a Pancino.
“Aprila e tieniti pronto!”
Pancino afferrò la fata con l’altra mano, con un ruggito se la strappò via dalla carne e la scagliò dentro alla giara. Rapido, Pinocchio ci rimise il tappo sopra.
Pancino cadde a terra, stringendosi la mano dolorante e ansimando.
“Accidenti se sono toste, queste fate!”
Era sgomento all’idea di dover dare la caccia a quelle creature orribili. Per una pentola di ragù ne sarebbero servite almeno venti, e la prospettiva di avere a che fare altre venti volte con quei mostri lo terrorizzava. Quanto lavoro gli sarebbe occorso per procurarsi quelle cose? Forse era meglio lasciar perdere.
Eppure riuscire nell’impresa avrebbe significato realizzare il sogno che inseguiva da anni. Quanto tempo aveva passato a provare, sperimentare, mescolare sapori per cercare di riprodurre quel piatto tanto amato?
L’incontro con lo Straniero non poteva essere stato un caso: ne era sicuro, il destino gli stava dando una mano. Immaginò le facce dei suoi clienti quando gli avrebbe offerto il suo ragù post-mortem: una specialità dello chef Pancino, l’unico al mondo in grado di offrire i sapori del mondo dei vivi. Avrebbero parlato di lui in tutta la Toscana, anzi, in tutt’Italia, e forse anche più in là. Sarebbe diventato il primo chef al mondo a compiere l’impresa.
Sì, pensò. Vale la pena lottare per catturare queste fate. La vedranno!
“Pancino, che succede?”
Una crepa si era aperta nella giara. Da dentro arrivava il rumore di colpi regolari, come di un martello sull’acciaio.
“Non è possibile. Sta…”
La crepa cedette e dalla giara spuntò la testa della fata carnaiola, la luce blu attraversata da scosse elettriche. Pancino strabuzzò gli occhi.
“Come diavolo ha fatto?”
La fata spiccò il volo, prendendo a vorticare furiosamente intorno ai suoi assalitori.
“È-è furibonda!” Balbettò Pancino. “E mi sa che dà anche la scossa. Scappa, ragazzo!”
Si diedero alla fuga, lasciando giara e retino. Corsero a perdifiato, senza guardarsi indietro, e non si fermarono finché non furono certi che la fata fosse ormai a parecchi chilometri di distanza. Stremato, Pancino si appoggiò le mani sulle ginocchia. Forse sarebbe stata più dura del previsto.
“Oh, al diavolo. Catturerò quelle maledette fate, fosse l’ultima cosa che faccio!” Ruggì. “Ascolta le mie parole, ragazzo: cucinerò il ragù per spettri più buono che sia mai esistito. Sarà più buono perfino di quello dei vivi!”
“Ma…”
“Torneremo domani” tagliò corto lui, ignorando lo sguardo sgomento del suo assistente. “E giuro che stavolta porto una scatola di titanio!”
Erano le prime luci dell’alba quando nella strada risuonarono i passi strascicati di un ammaccato, infreddolito, deluso, ma nondimeno speranzoso, Pancino della bottega Sapori Post Mortem.
In un piccolo parco di Novoli, al sorgere del sole, lo Straniero tolse il tappo a un grosso vaso di porcellana e fischiò un motivetto. Uno sciame di fate carnaiole sbucò dai cespugli e si riversò docilmente dentro al vaso. Smise di fischiare solo dopo che fu rientrata l’ultima, dopodiché rimise il tappo sul vaso.
“Anche stavolta è andata bene. Con la musica diventate sempre docili…”
Sentì dei passi dietro di sé e si voltò di scatto.
“Chi è?”
Un essere tarchiato, ricoperto da una veste scura simile alla sua, si portò sotto la luce di un lampione.
“Ah, sei tu, vecchio mio” disse lo Straniero. “Com’è andata all’Altro Mercato di Pisa?”
“Molto bene, compare. La strega si è bevuta la storia dei sorbetti di cimice per sonni eterni indisturbati. E con le fate del Kenya com’è andata?”
“Alla grande. Pancino ha passato l’intera nottata a dar loro la caccia. Domani ci riproverà, ma non ne troverà più nemmeno una. E non sospetterà minimamente che si è trattato di una truffa.” Ridacchiò lo Straniero.
“Ottimo, compare! Questo contrabbando di insetti magici sta andando meglio del previsto. Continuando così diventeremo ricchi sfondati!”
“Ci conto, mio caro amico. È stata una fortuna scoprire che queste fate, cucinate a dovere, sono una delizia per il palato degli spettri. E non solo il loro: anche a me sta venendo voglia di mangiarle!”
“Quando avremo abbastanza soldi, lo faremo.”
“Giusto. Ehi, sai chi ho incontrato alla bottega di Pancino?”
“Chi, compare?”
“Un nostro vecchissimo amico. Quel manigoldo d’un burattino di legno.”
“Lui? E che ci faceva lì?”
“Non ne ho idea. Pancino dice che è scappato da un negozio di giocattoli.”
“Così quel maledetto ciocco di legno è ancora in giro. Non mi è mai andata giù che, tra tutte le creature magiche della Toscana, lui sia diventato il più famoso. Tutta colpa di quello scrittore...”
“Già. Ma se può consolarti, non fa una bella vita. Sgobba come un matto. Pensa che non mi ha nemmeno riconosciuto.”
“Questo mi rende felice. Ma d’altronde non mi stupisco, a furia di viaggiare non sembriamo più noi.”
“È vero. Nessuno sospetterebbe mai la nostra identità, e nemmeno che siamo toscani. Temo che i tanti viaggi ci abbiano molto cambiato, amico mio.”
“La cosa più importante è che gli affari vadano bene.”
“È vero. E, devo dirlo, stavolta è stata una truffa davvero ben riuscita.”
“Sei sempre la solita vecchia Volpe!”
“E tu, amico mio, sei il solito vecchio Gatto. Coraggio, avanti con il prossimo lavoro!”
Passò all’hamburger di chianina: gli diede un morso e il sapore della carne tenerissima lo riempì di delizia. Nonostante avesse viaggiato in lungo e in largo e assaggiato la cucina di ogni angolo del mondo, quello era ancora uno dei sapori che preferiva.
La ragazza seduta accanto a lui lo urtò leggermente con il gomito.
“Sorry!” Gli disse.
Guardò incuriosita la veste scura che lo ricopriva quasi per intero. Lo Straniero fece un cenno con la testa e la ragazza riprese a chiacchierare con l’amica che era con lei.
Sbirciò nei loro piatti: avevano preso la pizza margherita da Romualdo, come faceva la gran parte dei turisti al Mercato Centrale di Firenze. Romualdo faceva la pizza “alla napoletana” (che per gli stranieri era sinonimo di “originale italiana”), con la mozzarella che si scioglieva in bocca.
Guardò l’orologio: erano le 22.30 e il Mercato Centrale era in piena attività. Le code davanti alle botteghe erano ancora lunghe e dietro ai banconi i bottegai affettavano, arrostivano, friggevano, spadellavano, impiattavano e auguravano buon appetito.
Ci sarebbero volute ancora un paio d’ore prima che il caos iniziasse a scemare, i tavoli si svuotassero e gli avanzi delle specialità artigianali finissero nel cestino.
Lo Straniero attendeva il momento in cui i bottegai, spenti i fornelli e puliti i banconi, se ne fossero andati a dormire.
Attendeva il momento in cui l’Altro Mercato Centrale avrebbe aperto l’attività.
Il custode abbassò le luci e chiuse la porta, poi abbassò le saracinesche e si avviò fischiettando lungo via dell’Ariento.
Sulla corte interna del Mercato Centrale calò il silenzio.
Per qualche minuto non accadde niente. Poi la quiete fu attraversata da un rumore. In un angolo della corte una mattonella si mosse e si sollevò come una botola.
Una testa sporse dal pavimento: apparteneva a uomo con una folta barba rossa e due grosse corna ritorte.
L’uomo si guardò in giro, e, quando fu certo che tutto fosse tranquillo, uscì dal buco, saltellando su due gambe da capra. Raggiunse il centro della corte e suonò il corno.
Altre botole si aprirono e nel Mercato Centrale entrarono gargoyle, streghe, nani, gnomi, gatti mammoni, folletti, orchi e ogni genere di creatura magica.
Ciascuno prese il proprio posto nelle botteghe, che si rianimarono immediatamente: grosse lanterne di carta si accesero, i fuochi riavvamparono, le pietanze furono risistemate sui banconi, nelle pentole ricominciarono a sfrigolare i cibi e in breve tempo l’intero mercato si riempì nuovamente di profumi deliziosi.
Di lì a poco arrivarono anche i clienti: spiriti, fantasmi e demoni si riversarono nella corte dal pavimento, dal soffitto, dalle fognature e dalle pareti, sciamando tra le botteghe.
Lo Straniero annullò l’incantesimo d’invisibilità che lo teneva nascosto e passeggiò tra le botteghe dell’Altro Mercato.
Dove prima c’era la bottega di Romualdo, adesso una vecchia megera vendeva liquori di karma negativo per spiriti maligni depressi.
La bottega dei prosciutti e dei salami toscani era diventata la rosticceria Cibo Pesante – per spettri che non vogliono essere evocati nelle messe nere, gestita da una ragazza-gatto.
Nella bottega dei dolci, cinque gnomi operosi vendevano limonate restringenti per fantasmi dell’armadio troppo ingombranti.
Era tutto un gran vociare, tra sfrigolii appetitosi e odori stuzzicanti.
“Ravioli al ripieno d’anima in salsa di fenice!”
“Frullati di energia negativa, proveniente dalle peggiori giornate andate storte!”
“Decisioni! Addii! Rinsavimenti! Tutti i cibi per potenziare l’influenza sui vostri protetti e convincerli a cambiare vita!”
Lo Straniero rimase per qualche minuto ad ammirare le botteghe, poi si concentrò sul lavoro.
Raggiunse la bottega di Pancino, Sapori Post Mortem, sul lato est della corte. Lesse le insegne piazzate sul bancone. “Buono come quando avevi le papille gustative”, “Gourmet post-mortem”, “Riscopri i sapori di quando eri vivo!”.
Sorrise. Era proprio come gli avevano detto.
Pancino era un bestione dall’aspetto simpatico, una creatura metà orso e metà formichiere nato e cresciuto nei boschi dell’alta Garfagnana. Lo Straniero doveva ammettere che, quando gli avevano parlato di lui, era rimasto colpito dall’idea che aveva avuto per il suo business. Un’attività del genere richiedeva una quantità enorme di tempo passato a sperimentare, mescolare e rielaborare cose del mondo soprannaturale per farle sembrare cibo del mondo dei vivi. Certo, non si poteva dire che la cosa non pagasse, vista la folla di spettri radunata davanti a Sapori Post Mortem: quella degli spiriti era un’esistenza grama già di per sé, se ci si metteva anche che il cibo che avevano amato in vita diventava completamente insapore, la cosa diventava insostenibile.
“Ecco qui la sua fettunta, signore!” Disse Pancino, poggiando un vassoio con una bruschetta al cavolo nero davanti a un vecchio fantasma. “Il pane è un impasto di uova di uroboro e il cavolo nero è una crema di geco a due teste della Grotta del Vento.” Spiegò.
“Mmmh, che buona! È proprio come… come la fettunta!”
“Appunto, signore. È per quello che mi chiamo Sapori Post Mortem.”
“Mi viene da ululare per l’emozione! Come hai fatto a riprodurla così bene?”
“Glielo racconto un’altra volta, va bene? Ora devo portare queste cavalcature di folletto al signor Karakasa. Ecco qua le sue chiocciole al sugo, signor Karakasa! Certo che sfortuna, eh, venire in vacanza a Firenze dal Giappone e trovare questo brutto tempo. Beh, non si può certo dire che le manchi l’ombrello…”
Lo Straniero vide che dietro Pancino saltellava un esserino vestito di rosso e con un cappello a punta. Dalle maniche spuntavano due braccia di legno che scattavano da un pentolone all’altro, riempiendo piatti e scodelle. Lo Straniero corrugò la fronte. L’aveva riconosciuto, ma non capiva cosa ci facesse lì.
“Ehi, lei laggiù, è proibito far salire i linchetti sui banconi! Tenga a freno il suo linchetto!” Urlò Pancino.
Un fantasma dall’accento lucchese assunse un’espressione ferita. “Incubus non stava facendo niente di male!”
“Sì sì, intanto lei lo rimetta in borsa. Guardi che glielo impano e glielo friggo, eh? Ehi, ragazzo, arriva o no quella ribollita?”
L’esserino di legno consegnò una scodella piena di zuppa a Pancino, ricevendo per ringraziamento una botta in testa. “Te l’ho chiesta mezz’ora fa! Guarda che ti rimando dal giocattolaio, eh?”
Lo Straniero decise che era il momento di intervenire.
“Vorrei degli spaghetti al ragù.” Disse.
Pancino si voltò verso lo Straniero.
“Le porto il menù, ci sono tanti piatti appetitosi che…”
“Ho già scelto. Voglio gli spaghetti al ragù.”
Pancino servì due scodelle di pici al formaggio a due spiritelli cinesi e si avvicinò allo Straniero.
“E se invece le facessi degli spaghetti al pomodoro fresco? Mi creda, sembrano davvero…”
“No. Ragù.”
Pancino sospirò. “Casca male, allora. Il ragù non lo facciamo, purtroppo. Sono anni che ci provo, ma ancora non ho trovato niente per riprodurlo. Con gli spaghetti ce l’ho fatta, uso i serpentelli maligni dell’Arno, ma con il ragù ancora non ci sono riuscito…. non trovo niente che abbia quel sapore. Ma è solo questione di tempo, sa? Prima o poi il modo lo trovo.”
“E se ti dicessi” disse lo Straniero, abbassando la voce. “Che conosco un modo per riprodurre il ragù alla perfezione?”
“Avresti fatto bingo.” Rise Pancino.
“Ti dico come fare per cinquanta monete d’oro.”
Pancino fischiò. “Per quella cifra dovrebbe essere un ragù che fa resuscitare i morti!” Rise, ma subito si pentì perché alcuni fantasmi si girarono a guardarlo male.
“Andiamo” Lo incalzò lo Straniero, “tu non sei come gli altri chef dell’Altro Mercato. Non offri del semplice nutrimento come quelli che vendono i frappè di tristezza, tu sei qui per far ricordare ai morti come ci si sente da vivi. Il ragù è il grande assente nel tuo menù da sempre. Non vuoi colmare questa lacuna?”
“Vedo che ti sei preparato bene.” Disse Pancino, guardando lo Straniero con sospetto. “Chi sei?”
“Sono solo uno che ha le informazioni giuste. Tieni, fa’ assaggiare questo ai tuoi ospiti.”
Pancino prese il barattolo che lo Straniero gli offriva e lo guardò: dall’aspetto sembrava proprio ragù. Ne prese un cucchiaino e lo assaggiò: doveva ammettere che era squisito, ma non era a lui che doveva piacere. Lo diede a una coppia di vecchi coniugi, servendoglielo sui crostini: si leccarono anche le dita e ne chiesero ancora.
Pancino non credette ai propri occhi.
“Aspetta qui.” Disse allo Straniero.
Lo Straniero aspettò che Pancino terminasse di servire i clienti. Col passare delle ore gli spiriti iniziarono a diminuire, scomparendo attraverso le pareti per tornare alle loro case, nelle tombe, negli armadi e nei pozzi.
A un’ora dall’alba Pancino raccolse i suoi strumenti e il cibo avanzato in una grande sacca, mentre il ragazzo con il cappello a punta strofinava ogni superficie della bottega per non lasciare traccia del loro passaggio.
“Allora? Quale sarebbe questo grande segreto?”
“Dammi cinquanta monete d’oro e lo saprai.”
Pancino sbuffò e contò cinquanta monete. Era una follia, lo sapeva. Ma erano troppi anni che cercava di cucinare del ragù per spettri, non poteva lasciarsi scappare un’occasione così. Diede le monete allo Straniero, che le fece sparire sotto la veste.
“Fate carnaiole.”
“Che?”
“Fate carnaiole. Sono un tipo di fata che si nutre solo di carne. Una manciata di quelle, e farai un ragù da leccarsi i baffi.”
“Non ho mai sentito di queste fate.”
“Non sono originarie di questa regione, ma negli ultimi anni hanno preso a spostarsi, sa il cielo perché. Di solito infestano i giardini per rubare il cibo dalle ciotole dei cani.”
“E dove le trovo queste fate carnaiole?”
“C’è una piccola comunità all’estremo nord del quartiere di Novoli. Escono fra le due e le quattro del mattino. Non sono difficili da riconoscere, emanano un bagliore blu e hanno un aspetto molto… caratteristico.”
Lo Straniero mostrò a Pancino il disegno di una fata carnaiola. Due ali da mosca spuntavano sulle spalle di un corpicino a malapena antropomorfo, sovrastato da una testa calva con due occhi da insetto e una bocca irta di zanne. Sembrava un pesce abissale.
“Ah, beh… carine.”
Lo Straniero sorrise. “Sono anche piuttosto feroci, perciò stai attento.”
“E con quelle si può fare il ragù come quello che mi hai dato?”
“Ci puoi giurare.” Disse lo Straniero, alzandosi. “Ora devo andare. È stato un piacere fare affari con te.”
“Spero proprio che funzioni.”
“Funzionerà. Senti, mi togli una curiosità?”
“Uh, certo.”
“Si può sapere che ci fa Pinocchio nella tua bottega?”
Pancino si voltò a guardare il suo assistente, ancora intento a pulire. “È scappato da un negozio di giocattoli. Non lo comprava nessuno, era lì da quasi trent’anni, ormai i proprietari lo tenevano perché c’erano affezionati.”
“Capisco.” Disse lo Straniero. “Buona fortuna per la caccia.”
“Grazie. Ne avrò bisogno, con quelle cose lì…”
Ma lo Straniero era già scomparso.
“Ti sei ricordato il retino di capelli di dea?” Chiese Pancino a Pinocchio.
“Sì, Pancino, eccolo.”
“Bene. Ecco il piano: tu ti avvicini alle fate senza farti vedere, gli lanci un pezzo di carne, aspetti che si fermino a mangiare e poi le acciuffi con il retino. Poi arrivo io e le metto qui dentro.”
Pancino tirò fuori dallo zaino un’enorme giara e ci sbatté sopra la mano.
Pinocchio sospirò. “A me piacciono le fate, Pancino. Mi dispiace ucciderle…”
“Vedrai che queste non ti piacciono, sono brutte come gli esorcismi. Dai, andiamo.”
Si mossero tra le strade buie di Novoli. Pancino si era messo addosso un pastrano nero, con un ampio bavero e grossi bottoni d’osso, che gli ricopriva per intero il corpo peloso e gli nascondevano il naso da formichiere. Pinocchio, invece, indossava un cappottino nero e si muoveva a fatica sotto il peso dell’enorme retino.
Perlustrarono diversi isolati, muovendosi furtivamente e tenendosi lontani dalla luce dei lampioni. Sbirciarono in tutti i giardini, trovandoli vuoti e silenziosi. Delle fate carnaiole non sembrava esserci traccia.
“Accidenti a questa nebbia, non si vede niente…” borbottava Pancino.
Continuarono a cercare, ma tutto ciò che trovarono furono folletti girovaghi e gatti randagi che gli indirizzarono miagolii minacciosi.
“Lo sapevo, quel tizio mi ha truffato!” Sbottò Pancino a un certo punto. “Accidenti a me, ho buttato via cinquanta monete d’oro!”
“Guarda, Pancino.” Disse Pinocchio, indicando dall’altra parte della strada.
Pancino strizzò gli occhi. Al di là del cancello di una villetta a schiera gli sembrò d’intravedere un bagliore bluastro.
“Bravo, ragazzo.” Mormorò. “Aspetta, mi avvicino…”
Pancino si mosse in punta di piedi lungo la strada. A vedere quel gigante muoversi in quel modo, a Pinocchio venne da ridere. Si mise una mano davanti alla bocca, ma fu inutile: scoppiò a ridere così forte che Pancino sussultò per lo spavento.
“Cos’hai da ri… Guarda!”
Un lumino azzurrognolo guizzò via rapido davanti ai loro occhi, tracciando una parabola nell’aria e scomparendo sul retro della villetta.
“L’hai fatta scappare! Forza ragazzo, vieni!”
Pancino raggiunse di corsa il cancello ed entrò nel giardino dell’abitazione. Pinocchio lo seguì. Si portò al fianco del suo capo, che lo spinse in avanti.
“Guarda, eccola là!” Gli sussurrò Pancino. “Vicino all’altalena.”
Pinocchio individuò la fata carnaiola, deglutì e si mosse piano, stringendo il retino. Si avvicinò alla creatura trattenendo il respiro e allungò il braccio per gettarle la carne. Sentì che la fata faceva strani rumori con il naso, come se stesse aspirando con forza. Capì troppo tardi cosa stava succedendo: nel momento in cui si rese conto che la fata aveva fiutato il cibo, stava già divorando la striscia di carne nella sua mano. Quando ebbe finito la carne, la fata affondò i denti nella mano del burattino.
Pinocchio cacciò un urlo così acuto che a Pancino si gelò il sangue nelle vene, certo che avrebbero svegliato chiunque nel raggio di tre chilometri. Uscì dal suo nascondiglio dietro ai bidoni della differenziata e corse ad aiutare il suo assistente. Afferrò la fata e la tirò via con forza dal legno. Fu anche peggio: quella si rigirò e morse lui, riuscendo ad affondare i denti nella carne nonostante l’ampio strato di pelliccia di Pancino. Il cuoco gridò di dolore e prese ad agitare freneticamente la mano nell’aria.
“Il retino! Stordiscila con il manico del retino!” Urlò.
Pinocchio calò il retino sul braccio di Pancino, prendendolo in pieno e strappandogli un ulteriore grido di dolore.
“Ahia! Devi prendere la fata, non il mio gomito!”
“Scusa, Pancino! Non è mica semplice, sai? È troppo piccola!”
“Che male! Prendi la giara! La giara, ragazzo!”
Pinocchio si precipitò a prendere la giara e la portò a Pancino.
“Aprila e tieniti pronto!”
Pancino afferrò la fata con l’altra mano, con un ruggito se la strappò via dalla carne e la scagliò dentro alla giara. Rapido, Pinocchio ci rimise il tappo sopra.
Pancino cadde a terra, stringendosi la mano dolorante e ansimando.
“Accidenti se sono toste, queste fate!”
Era sgomento all’idea di dover dare la caccia a quelle creature orribili. Per una pentola di ragù ne sarebbero servite almeno venti, e la prospettiva di avere a che fare altre venti volte con quei mostri lo terrorizzava. Quanto lavoro gli sarebbe occorso per procurarsi quelle cose? Forse era meglio lasciar perdere.
Eppure riuscire nell’impresa avrebbe significato realizzare il sogno che inseguiva da anni. Quanto tempo aveva passato a provare, sperimentare, mescolare sapori per cercare di riprodurre quel piatto tanto amato?
L’incontro con lo Straniero non poteva essere stato un caso: ne era sicuro, il destino gli stava dando una mano. Immaginò le facce dei suoi clienti quando gli avrebbe offerto il suo ragù post-mortem: una specialità dello chef Pancino, l’unico al mondo in grado di offrire i sapori del mondo dei vivi. Avrebbero parlato di lui in tutta la Toscana, anzi, in tutt’Italia, e forse anche più in là. Sarebbe diventato il primo chef al mondo a compiere l’impresa.
Sì, pensò. Vale la pena lottare per catturare queste fate. La vedranno!
“Pancino, che succede?”
Una crepa si era aperta nella giara. Da dentro arrivava il rumore di colpi regolari, come di un martello sull’acciaio.
“Non è possibile. Sta…”
La crepa cedette e dalla giara spuntò la testa della fata carnaiola, la luce blu attraversata da scosse elettriche. Pancino strabuzzò gli occhi.
“Come diavolo ha fatto?”
La fata spiccò il volo, prendendo a vorticare furiosamente intorno ai suoi assalitori.
“È-è furibonda!” Balbettò Pancino. “E mi sa che dà anche la scossa. Scappa, ragazzo!”
Si diedero alla fuga, lasciando giara e retino. Corsero a perdifiato, senza guardarsi indietro, e non si fermarono finché non furono certi che la fata fosse ormai a parecchi chilometri di distanza. Stremato, Pancino si appoggiò le mani sulle ginocchia. Forse sarebbe stata più dura del previsto.
“Oh, al diavolo. Catturerò quelle maledette fate, fosse l’ultima cosa che faccio!” Ruggì. “Ascolta le mie parole, ragazzo: cucinerò il ragù per spettri più buono che sia mai esistito. Sarà più buono perfino di quello dei vivi!”
“Ma…”
“Torneremo domani” tagliò corto lui, ignorando lo sguardo sgomento del suo assistente. “E giuro che stavolta porto una scatola di titanio!”
Erano le prime luci dell’alba quando nella strada risuonarono i passi strascicati di un ammaccato, infreddolito, deluso, ma nondimeno speranzoso, Pancino della bottega Sapori Post Mortem.
In un piccolo parco di Novoli, al sorgere del sole, lo Straniero tolse il tappo a un grosso vaso di porcellana e fischiò un motivetto. Uno sciame di fate carnaiole sbucò dai cespugli e si riversò docilmente dentro al vaso. Smise di fischiare solo dopo che fu rientrata l’ultima, dopodiché rimise il tappo sul vaso.
“Anche stavolta è andata bene. Con la musica diventate sempre docili…”
Sentì dei passi dietro di sé e si voltò di scatto.
“Chi è?”
Un essere tarchiato, ricoperto da una veste scura simile alla sua, si portò sotto la luce di un lampione.
“Ah, sei tu, vecchio mio” disse lo Straniero. “Com’è andata all’Altro Mercato di Pisa?”
“Molto bene, compare. La strega si è bevuta la storia dei sorbetti di cimice per sonni eterni indisturbati. E con le fate del Kenya com’è andata?”
“Alla grande. Pancino ha passato l’intera nottata a dar loro la caccia. Domani ci riproverà, ma non ne troverà più nemmeno una. E non sospetterà minimamente che si è trattato di una truffa.” Ridacchiò lo Straniero.
“Ottimo, compare! Questo contrabbando di insetti magici sta andando meglio del previsto. Continuando così diventeremo ricchi sfondati!”
“Ci conto, mio caro amico. È stata una fortuna scoprire che queste fate, cucinate a dovere, sono una delizia per il palato degli spettri. E non solo il loro: anche a me sta venendo voglia di mangiarle!”
“Quando avremo abbastanza soldi, lo faremo.”
“Giusto. Ehi, sai chi ho incontrato alla bottega di Pancino?”
“Chi, compare?”
“Un nostro vecchissimo amico. Quel manigoldo d’un burattino di legno.”
“Lui? E che ci faceva lì?”
“Non ne ho idea. Pancino dice che è scappato da un negozio di giocattoli.”
“Così quel maledetto ciocco di legno è ancora in giro. Non mi è mai andata giù che, tra tutte le creature magiche della Toscana, lui sia diventato il più famoso. Tutta colpa di quello scrittore...”
“Già. Ma se può consolarti, non fa una bella vita. Sgobba come un matto. Pensa che non mi ha nemmeno riconosciuto.”
“Questo mi rende felice. Ma d’altronde non mi stupisco, a furia di viaggiare non sembriamo più noi.”
“È vero. Nessuno sospetterebbe mai la nostra identità, e nemmeno che siamo toscani. Temo che i tanti viaggi ci abbiano molto cambiato, amico mio.”
“La cosa più importante è che gli affari vadano bene.”
“È vero. E, devo dirlo, stavolta è stata una truffa davvero ben riuscita.”
“Sei sempre la solita vecchia Volpe!”
“E tu, amico mio, sei il solito vecchio Gatto. Coraggio, avanti con il prossimo lavoro!”