Il fantastico mondo del Molise, di Francesco Nucera
Inviato: mercoledì 15 giugno 2016, 23:51
Il fantastico mondo del Molise
«E lei dove sta andando?» La voce dell'uomo seduto accanto a lui era insopportabile. Era salito ad Ancona e non era stato zitto un secondo. Fino a poco prima aveva parlato al cellulare, ma adesso sembrava avercela con lui. Davide sollevò gli occhi dal libro di ricette, che teneva in mano, e li rivolse a lui. «Isernia» rispose, lapidario.
«Isernia…» ripeté tra i denti l'uomo. «Non credo d'esserci mai stato. Dov'è?»
«In Molise.» Davide ricominciò a leggere. La sua parte di conversazione era finita.
«È per quello che non la conosco. Il Molise è la regione che fattura meno e nessuna la vuole. Figuriamoci se me la prendevo io, lì ci sbattiamo un ragazzo che c'ha i parenti a Campobasso. Anche quella è in Molise, vero?»
«Già.»
«Quindi anche tu sei di lì?»
«Ci sono nato.»
«Quindi è vero che è abitato. Pensavo fosse una leggenda.» Lo scocciatore scoppiò a ridere, piegò i braccio e diede una gomitata a Davide che si ritrasse.
«Perché ridi?» Gli chiese, cercando in se lo sguardo più asettico di cui fosse capace.
«Perché è divertente; è un po' come parlare dei funerali dei cinesi.»
«Cosa c'è di divertente nei funerali dei cinesi?»
«Hai mai visto un loro funerale?»
«No.»
«Appunto.» L'uomo scoppiò nuovamente a ridere e gli tirò un pugno sulla spalla.
Davide sbuffò e si massaggiò. Non lo sopportava proprio. Recuperò il libro e si mise a cercare il punto a cui era arrivato.
«E dove vivi di solito?»
«Pavia.»
«In Lombardia!»
«Bravo.»
«Hai visto che le altre regioni le conosco.»
Un colpo al gomito fece cadere il libro dalle mani di Davide. «Conosci la geografia, però ora vorrei leggere» sibilò, serrando le mascelle e chinandosi.
«Strano però, non hai l'accento molisano» riprese subito a dire lo scocciatore.
Davide sbuffò, chiuse il libro, se lo appoggiò sulle ginocchia e tornò a guardare l'uomo. «Perché, come sarebbe l'accento molisano.»
L'uomo sorrise, corrugò la fronte e si leccò il labbro superiore. «Hai ragione, non ne ho la più pallida idea. Marco non parla quasi mai e quando lo fa non ha nessun accento. Come te.»
«Okay.» Davide riprese in mano il libro, deciso a finire il capitolo che stava leggendo.
«Se ci pensi è strano…»
«Cosa?» Sollevò gli occhi al cielo.
«Perché nessuno sa nulla del Molise?»
«Perché siamo persone che non amano chiacchierare!»
«Può essere, ma non mi convince.»
«Okay. È un mistero!»
«Già…» L'uomo sembrò riflettere, ma la pausa durò poco. «E cosa fai nella vita?» chiese.
«Il cuoco.»
«Bello! Quante stelle hai?»
«Nessuna.»
«Peccato, avrei voluto farmi una foto con un chef stellato. Ormai rimorchiate più dei calciatori.»
«Magari gli altri.» Davide sbuffò.
«Quindi che vai a fare in Molise?»
Una vampata di calore attraversò Davide, doveva chiudere la conversazione e finalmente aveva l'arma buona per sedarlo per sempre. Si abbassò, aprì la cerniera dello zaino ed estrasse una busta bianca che gli passò. «Ieri ho ricevuto questa.»
Lo scocciatore si strofinò le mani e l'aprì. I suoi piccoli occhi andarono da sinistra a destra e l'espressione arzilla perse di vivacità. Sollevò lo sguardo su Davide e deglutì. «Mi dispiace» sussurrò, ridandogli la busta.
Finalmente tornò il silenzio. Davide poggiò la testa sul finestrino e guardò comparire dalle sue spalle la stazione di Pescara. Poco dopo sarebbe dovuto scendere per prendere il pullman che l'avrebbe portato in quel posto in cui aveva passato solo pochi giorni della sua vita e in cui era nascosto il segreto della sua nascita.
La testa poggiata sul finestrino, Davide teneva gli occhi chiusi. La voce dello scocciatore non c'era più e neppure il moto perpetuo del treno… aprì gli occhi e cercò di capire dove si trovasse. Le poltrone blu e il grosso finestrino, su cui era rimasta l'impronta della sua fronte, gli dissero che era su un pullman. Si abbassò di colpo e allungò la mano; il contatto con lo zaino gli fecero tirare un sospiro di sollievo: la lettera era al sicuro.
Strizzò gli occhi e cercò di ricordare come ci fosse finito sul pullman. Ricordava gli occhi pesanti all'altezza di Pescara, il rumore del treno, il suo corpo che oscillava ritmicamente e poi più nulla.
Sospirò e si guardò attorno. La luce si spense per un istante e subito tornò a illuminare i sedili vuoti. Era l'unico passeggero. Tossì e si alzò. Guardò fuori dal finestrino, ma l'unica cosa che riuscì a scorgere fu il riflesso del suo trench grigio.
«Ma che cazzo!» imprecò. Si sentiva in un film horror, nemmeno troppo originale.
Raccolse lo zaino, se lo mise in spalla e avanzò verso il conducente. Attraverso lo specchio, con cui l'uomo controllava i passeggeri, intravide il cappello abbassato sugli occhi e la giacca blu.
«Scusi?» disse, avanzando. «Dove siamo?»
Il conducente sembrò non ascoltarlo. Con gesti ampi, girò il volante per fare un'ampia curva. Davide si sbilanciò e cadde in mezzo a un'altra fila di sedili.
«Cazzo!» imprecò. «Faccia più attenzione, non si è accorto che ero in piedi?»
Com'era prevedibile non ricevette alcuna risposta.
Imprecò, si alzò e lo raggiunse a lunghe falcate. «Manca molto a Isernia?» chiese, picchiettandogli l'indice sulla spalla.
Un forte fischio mise in allerta Davide che si protese nel tentativo di aggrapparsi a qualcosa, ma la frenata fu troppo brusca: impattò con la testa contro un palo e per poco non cadde a terra.
«Nu standand a Isernia.»
Frastornato, Davide cercò di dare un senso alla risposta del conducente ma, fatta eccezione per il nome della città, il resto era stato detto in una lingua sconosciuta. Si voltò verso di lui, convinto di riprovarci, ma rimase a bocca aperta. Al volante c'era un uomo con il muso oblungo, occhi rotondi poco espressivi e due grosse orecchie marroni che sbucavano dal capello. Sembrava un asino.
Davide boccheggiò, fece due passi all'indietro e si aggrappò a una sbarra per non cadere per l'ennesima volta.
«Co-co-cosa sei?» balbettò.
«Bremesso che mango tu mi sembri un figurino, penzo che tu sctia a esaggerà. Mango avessi viscto nu mostro!» Il volto dell'autista era tornato umano, magari in una versione brutta, ma pur sempre umana. Aveva zigomi scavati, occhiaie profonde e un lungo naso a punta. Si portò la mano al mento e si grattò la barba ispida. «Te senti bene?» chiese.
«Certo, è che tu…» Davide si interruppe e si massaggiò gli occhi. «Scusa, ma credevo che tu…»
«Mo lasciamo perde. Gomungue staremo a Isernia dra un'ora.» L'uomo sbuffò dal naso e si concentrò sulla strada.
Davide continuò a fissarlo, convinto che da un momento all'altro si potesse ritrasformare. Quella situazione era strana; si era addormentato sul treno per poi risvegliarsi su un pullman. L'unica nota comune era il personaggio improponibile con cui era.
«Nun te vo sedere? Se me gontinui a guardà me sciupi il faccino. Dorme se te riesce che t'ascpetta na bella sorpresa.» L'uomo serrò gli occhi e si mordicchiò il labbro.
«Chi mi aspetta?»
«E ghe ne so io, se tu che stai ad annà a Isernia ge l'avrai pure nu motivo.»
Davide socchiuse le palpebre e osservò l conducente, aveva capito bene le sue parole e quell'uomo gli stava nascondendo qualcosa. «Come mai non c'è nessun altro sul pullman?» chiese, avvicinandosi a piccoli passi.
«E ghe ne so, faccio il gocchiere miga l'indovino.»
«Ha ragione, mi scusi. Comunque io mi chiamo ANDREA.» Allungò la mano e sorrise.
Il conducente strabuzzò gli occhi, si voltò di scatto e spalancò la bocca. «Che vor dì che te ghiami Andrea? Nun zei Davide, lu nupoti de Teresa “la Stracciara”?»
«Fregato!» esultò Davide. Serrò i pugni e li allungò in avanti; con quello di sinistra colpì il mento del conducente che si sbilanciò verso sinistra. Nel movimento portò con se anche il volante, il pullman si girò su se stesso, andò fuori strada e si fermò contro il costone della montagna su cui si stavano inerpicando.
«N'gulo a te me stavi a sfonnà la faccia.»
Davide, rannicchiato a terra dov'era stato proiettato dall'incidente, si girò mortificato. «Scu…» balbettò.
Il conducente era si stava massaggiando il muso con lo zoccolo di una delle zampe superiori. «Scta mbo attendo. Ce potevamo ammazzà!» Gli porse l'altra zampa e sorrise. «Me chiamo Venturino, ma da 'ste parti me conoscono come “Cocchio”.»
Davide indietreggiò, spalancò la bocca e la richiuse un paio di volte, ma non riuscì a dire nulla.
«Ghe, non hai mai visto un molisano?» chiese Venturino.
La testa di Davide cominciò a girare, gli mancò il fiato e tutto divenne nero.
«Non t'avevo detto di non farti scoprire?»
«Marescià, guesto sta furbo guando “il Faina”. Giuro che non gli ho detto nulla.»
«Guarda come l'hai conciato e guarda il pullman.»
«Che ve devo da dì, m'ha aggredito gon un basctone.»
«Tutte scuse Cocchio, e poi non c'è nessun bastone da queste parti.»
Ad occhi chiusi, Davide ascoltava la conversazione tra Venturino e quello che doveva essere il maresciallo di quel posto. Il ricordo dell'asino travestito da conducente gli diceva di non guardare, ma forse quel ricordo era frutto dell'incidente. Mosse le dita e sentì del terriccio sotto di lui, era a terra. Cauto, aprì uno spiraglio tra le palpebre e sbirciò i due che continuavano a discutere. Un nodo alla gola gli bloccò il respiro: l'asino stava parlando con un roano fulvo alto almeno tre spanne piùdi lui. Non poteva essere vero.
«Maresciallo, il figlio della Stracciara si è ripreso.»
Davide girò lo sguardo verso la terza voce, quella che si era accorta dei suoi movimenti. Un uomo falco lo guardava con il becco poggiato sulla spalla.
«Benissimo appuntato, per fortuna che uno sveglio c'è da queste parti.»
«Ghe vorrescte dì? Nun greda che perché tiene 'na divisa io non le infili uno zoccolo tra quei denti da sctallone.» Venturino sollevò la zampa e l'agitò in aria.
Il maresciallo socchiuse gli occhi, sbuffò e scosse la testa. La criniera ondeggiò leggera. «Appuntato, aiuti il ragazzo ad alzarsi. Abbiamo parecchie cose da dirgli.»
«E no, mo m'ingazzo. La stracciara ha detto a me di accompagnarlo.»
Mentre l'uomo falco lo aiutava ad alzarsi, Davide osservava stralunato gli altri due che discutevano. La botta in testa doveva essere stata più forte di quanto credesse, ora quei due parlavano di sua madre come se fosse ancora viva, ma il telegramma parlava chiaro: le era morta due giorni prima. Portò la mano ai capelli e li tastò alla ricerca del sangue. Ne era certo, doveva avere una frattura cranica.
«Allora faccia come vuole. Appuntato, gli presti la moto.»
«Maresciallo, ma io come torno a casa?»
«Ma è possibile che devo pensare a tutto io? Chiami qualcuno e si faccia venire a prendere, ma prima finisca i rilevamenti!» Il maresciallo portò una zampa alla fronte, batté gli zoccoli inferiori e piroettò su se stesso. Mentre si allontanava la coda gli si agitava nervosamente.
«Stai dutto indero?» chiese Venturino, prendendolo a braccetto. «M'hai fatto brendeteun golpo, penzavo che te fossi ammazzato co 'sto volo.»
Davide scosse la testa, non era una visione, ma un sogno. «Grazie, uomo asino. Non mi sono fatto male.» La voce gli uscì innaturale, quasi robotica.
«Nun me piace ghe me ghiami coscì. T'ho già detto ghe sono Venturino lo Cocchio»
«Bene Venturino lo Cocchio,posso farti una domanda?»
«Ge mangaria!»
«Perché sei l'unico a parlare così?»
«Coscì gome?»
«Hai un accento strano.»
«Nun tengo nessun aggendo.»
«Non è proprio così. Fatico a capirti.»
«Bellino, me sctai a infastidì. Se nun te sctai zitto te prendo a zoccolate sur muso!»
«Come lei comanda, Venturino il Cocchio. Dove dobbiamo andare ora?»
«Te sto a portà da nonna tua, te deve da dì na cosa mportante.»
«Pensavo di assistere al funerale di mia madre oggi.»
«Berché, nun se sente bene?»
«Il telegramma dice che è morta.»
«Se lo dige il delegramma te poi fidà. Sora Marmotta nun sbaglia un golpo.»
«Venturino, perché siete tutti animali?»
«Nun lo zo, tu non zei una besctia? Mo l'omo non è più n'animale?»
«Il suo discorso non fa una grinza. Mi dica cosa devo fare.»
Venturino abbassò il muso e lo guardò di sottecchi. «Sali sulla moto» intimò, indicando una vespa con i colori dei carabinieri.
Davide lo seguì, aspettò che Venturino montasse sulla sella e fece lo stesso.
«Me sctai a schiaccià la goda!» ragliò l'asino, scansando in avanti.
«Scusa, è la prima volta che salgo su uno scooter con un…» Davide, memore delle proteste precedenti si mordicchiò il labbro inferiore. «…con un estraneo.»
Venturino non gli rispose, accese la moto e partì sgommando.
Appena presero velocità, le orecchie de lo Cocchio, mosse dal vento, iniziarono a schioccare colpi secchi sul viso di Davide. Il ragazzo rimpianse di non aver messo il casco e pensò a quanto potessero essere vividi alcuni sogni.
La Vespa si fermò poco dopo essersi infilata in una stradina sterrata. L'aria era fresca e da lontano iniziavano a scorgersi i primi raggi di sole che illuminavano le cime degli alberi.
Venturino scese dallo scooter, si mise su quattro zampe e si piegò in avanti; gli zoccoli dietro sferrarono un paio di calci all'aria. «N'gulo che viaggio. Nun zono fatto pe le due ruote» disse, riguadagnando la posizione eretta.
Davide, ancora convinto di vivere in un sogno, si stiracchiò e mise un piede a terra. Le ginocchia gli tremarono e per un attimo sentì ancora le vibrazioni del sellino. «Siamo arrivati?» chiese.
«Nonneta sta in guella gatapecchia.» Venturino indicò una casa in legno con il tetto cadente.
«Quindi?»
«Guindi te sta ad ascpettà! Muoviti va. Nvedi un bo 'sti cittadni, nun gabiscono niende» si voltò imprecando.
Davide decise che sarebbe andato avanti senza il suo animale guida, il suo compito era finito. Doveva proseguire da solo verso il suo destino.
Si chiuse nelle spalle e camminò a testa bassa. Non credeva che l'annuncio della morte della madre avrebbe potuto ridurlo così. Non aveva l'aveva mai vista: finché era piccolo lei non si era mai fatta viva e una volta cresciuto era stato lui a non volerla vedere.
Arrivò alla baracca e spinse la porta di legno che cigolò sui cardini e si aprì. Una luce fiammeggiante illuminò le pareti spoglie. Al centro della stanza c'era un tavolo con poggiati sopra due piccoli bicchieri e una bottiglia contenente un liquido scuro. Il pavimento scricchiolò sotto il peso di Davide che entrò.
«Signora Stracciara» chiamò, timidamente.
Alla sua sinistra qualcosa cigolò. Si voltò e, su una sedia a dondolo, vide una vecchia imbacuccata sotto a una coperta. Aveva il muso dolce dei gatti Persiani, il pelo lucido e baffi completamente bianchi. «Benvenuto, Davide.» Sorrise. In piedi accanto a lei, c'era una gatta simile, ma decisamente più giovane.
Davide si chiuse la porta alle spalle e accennò un inchino, senza distogliere mai lo sguardo dalle due. «È lei la Stracciara.»
«Non chiamarmi così, io sono la tua nonna.»
Il cuore di Davide cominciò a battergli forte in petto. L bocca gli si asciugò e gli occhi gli si riempirono di lacrime. Un pensiero gli sfiorò la testa, ma lo rigettò immediatamente. L'altra gatta non poteva essere sua madre. «Ciao nonna!» disse, con la voce rotta dal pianto.
Lei sorrise e inclinò la testa. «Com'è andato il viaggio?»
Davide sorrise «Ho conosciuto dei tizi strani, ma è un sogno, quindi tutto è possibile» disse, più a sé stesso che alle altre.
La gatta accanto alla nonna lo fissò per n attimo, poi distolse lo sguardo.
«È un piacere vederti, sei diventato grande.»
Davide arrossì e andò a sedersi. Abbassò lo sguardo sulla bottiglia poggiata al centro del tavolo, allungò la mano e la impugno.
«Piaceva tanto anche a tuo padre.» Questa volta fu la gatta più giovane a parlare.
Davide la fulminò con lo sguardo. «Lei è?»
«Non importa.» La gatta abbassò lo sguardo.
«È vero, non importa» ripeté lui, che in cuor suo sapeva chi doveva rappresentare. «Perché sono qui?» chiese, con un filo di voce.
«Perché lo volevi.»
Le mani iniziarono a tremargli. «No, non l'ho mai voluto!»
«Invece sì, altrimenti sogneresti altro.»
«Quindi questo è veramente un sogno?»
«Lo è se lo vuoi, altrimenti questo è il fantastico mondo del Molise e noi siamo la tua famiglia.»
La faccia di Davide avvampò, le lacrime iniziarono a colargli sulle guance. «Sì, voglio che sia tutto vero. Poggiò la testa sul tavolo e iniziò a piangere.» In fondo, se quello era un sogno poteva essere sincero.
Le assi del pavimento cigolarono, due paia di zampe affossarono tra i suoi capelli. Alzò lo sguardo e incrociò quello felino della gatta più giovane. «Mamma» sussurrò.
Un abbraccio morbido gli scaldò le membra, la gatta iniziò a fare le fusa e lui si abbandonò al più bel sogno della sua vita.
La mattina dopo mi svegliai alla stazione di Bari. Appoggiato sulle mie ginocchia c'era un quadernetto con decine di ricette molisane scritte a mano. Mi sentivo bene, appagato. Non andai al funerale di mia madre; lei l'avevo già conosciuta.
Da quel giorno decisi che la vita andava vissuta con il sorriso sulle labbra. Così ho deciso di regalare anche a voi il mio sogno.
Buon appetito
Chef Davide della Stracciara.
La donna, seduta al tavolo del ristorante “Il fantastico mondo del Molise”, finì di leggere la storia scritta in fondo al menù. Sollevò un dito e scacciò una lacrima. Afferrò il quadernetto degli appunti, finì di masticare e scrisse il nome del ristorante. Portò la penna alle labbra, mordicchiò il tappino e sollevò gli occhi al soffitto. Inspirò e tracciò tre piccoli cappelli sulla pagina con sotto scritto Michelin.
«E lei dove sta andando?» La voce dell'uomo seduto accanto a lui era insopportabile. Era salito ad Ancona e non era stato zitto un secondo. Fino a poco prima aveva parlato al cellulare, ma adesso sembrava avercela con lui. Davide sollevò gli occhi dal libro di ricette, che teneva in mano, e li rivolse a lui. «Isernia» rispose, lapidario.
«Isernia…» ripeté tra i denti l'uomo. «Non credo d'esserci mai stato. Dov'è?»
«In Molise.» Davide ricominciò a leggere. La sua parte di conversazione era finita.
«È per quello che non la conosco. Il Molise è la regione che fattura meno e nessuna la vuole. Figuriamoci se me la prendevo io, lì ci sbattiamo un ragazzo che c'ha i parenti a Campobasso. Anche quella è in Molise, vero?»
«Già.»
«Quindi anche tu sei di lì?»
«Ci sono nato.»
«Quindi è vero che è abitato. Pensavo fosse una leggenda.» Lo scocciatore scoppiò a ridere, piegò i braccio e diede una gomitata a Davide che si ritrasse.
«Perché ridi?» Gli chiese, cercando in se lo sguardo più asettico di cui fosse capace.
«Perché è divertente; è un po' come parlare dei funerali dei cinesi.»
«Cosa c'è di divertente nei funerali dei cinesi?»
«Hai mai visto un loro funerale?»
«No.»
«Appunto.» L'uomo scoppiò nuovamente a ridere e gli tirò un pugno sulla spalla.
Davide sbuffò e si massaggiò. Non lo sopportava proprio. Recuperò il libro e si mise a cercare il punto a cui era arrivato.
«E dove vivi di solito?»
«Pavia.»
«In Lombardia!»
«Bravo.»
«Hai visto che le altre regioni le conosco.»
Un colpo al gomito fece cadere il libro dalle mani di Davide. «Conosci la geografia, però ora vorrei leggere» sibilò, serrando le mascelle e chinandosi.
«Strano però, non hai l'accento molisano» riprese subito a dire lo scocciatore.
Davide sbuffò, chiuse il libro, se lo appoggiò sulle ginocchia e tornò a guardare l'uomo. «Perché, come sarebbe l'accento molisano.»
L'uomo sorrise, corrugò la fronte e si leccò il labbro superiore. «Hai ragione, non ne ho la più pallida idea. Marco non parla quasi mai e quando lo fa non ha nessun accento. Come te.»
«Okay.» Davide riprese in mano il libro, deciso a finire il capitolo che stava leggendo.
«Se ci pensi è strano…»
«Cosa?» Sollevò gli occhi al cielo.
«Perché nessuno sa nulla del Molise?»
«Perché siamo persone che non amano chiacchierare!»
«Può essere, ma non mi convince.»
«Okay. È un mistero!»
«Già…» L'uomo sembrò riflettere, ma la pausa durò poco. «E cosa fai nella vita?» chiese.
«Il cuoco.»
«Bello! Quante stelle hai?»
«Nessuna.»
«Peccato, avrei voluto farmi una foto con un chef stellato. Ormai rimorchiate più dei calciatori.»
«Magari gli altri.» Davide sbuffò.
«Quindi che vai a fare in Molise?»
Una vampata di calore attraversò Davide, doveva chiudere la conversazione e finalmente aveva l'arma buona per sedarlo per sempre. Si abbassò, aprì la cerniera dello zaino ed estrasse una busta bianca che gli passò. «Ieri ho ricevuto questa.»
Lo scocciatore si strofinò le mani e l'aprì. I suoi piccoli occhi andarono da sinistra a destra e l'espressione arzilla perse di vivacità. Sollevò lo sguardo su Davide e deglutì. «Mi dispiace» sussurrò, ridandogli la busta.
Finalmente tornò il silenzio. Davide poggiò la testa sul finestrino e guardò comparire dalle sue spalle la stazione di Pescara. Poco dopo sarebbe dovuto scendere per prendere il pullman che l'avrebbe portato in quel posto in cui aveva passato solo pochi giorni della sua vita e in cui era nascosto il segreto della sua nascita.
La testa poggiata sul finestrino, Davide teneva gli occhi chiusi. La voce dello scocciatore non c'era più e neppure il moto perpetuo del treno… aprì gli occhi e cercò di capire dove si trovasse. Le poltrone blu e il grosso finestrino, su cui era rimasta l'impronta della sua fronte, gli dissero che era su un pullman. Si abbassò di colpo e allungò la mano; il contatto con lo zaino gli fecero tirare un sospiro di sollievo: la lettera era al sicuro.
Strizzò gli occhi e cercò di ricordare come ci fosse finito sul pullman. Ricordava gli occhi pesanti all'altezza di Pescara, il rumore del treno, il suo corpo che oscillava ritmicamente e poi più nulla.
Sospirò e si guardò attorno. La luce si spense per un istante e subito tornò a illuminare i sedili vuoti. Era l'unico passeggero. Tossì e si alzò. Guardò fuori dal finestrino, ma l'unica cosa che riuscì a scorgere fu il riflesso del suo trench grigio.
«Ma che cazzo!» imprecò. Si sentiva in un film horror, nemmeno troppo originale.
Raccolse lo zaino, se lo mise in spalla e avanzò verso il conducente. Attraverso lo specchio, con cui l'uomo controllava i passeggeri, intravide il cappello abbassato sugli occhi e la giacca blu.
«Scusi?» disse, avanzando. «Dove siamo?»
Il conducente sembrò non ascoltarlo. Con gesti ampi, girò il volante per fare un'ampia curva. Davide si sbilanciò e cadde in mezzo a un'altra fila di sedili.
«Cazzo!» imprecò. «Faccia più attenzione, non si è accorto che ero in piedi?»
Com'era prevedibile non ricevette alcuna risposta.
Imprecò, si alzò e lo raggiunse a lunghe falcate. «Manca molto a Isernia?» chiese, picchiettandogli l'indice sulla spalla.
Un forte fischio mise in allerta Davide che si protese nel tentativo di aggrapparsi a qualcosa, ma la frenata fu troppo brusca: impattò con la testa contro un palo e per poco non cadde a terra.
«Nu standand a Isernia.»
Frastornato, Davide cercò di dare un senso alla risposta del conducente ma, fatta eccezione per il nome della città, il resto era stato detto in una lingua sconosciuta. Si voltò verso di lui, convinto di riprovarci, ma rimase a bocca aperta. Al volante c'era un uomo con il muso oblungo, occhi rotondi poco espressivi e due grosse orecchie marroni che sbucavano dal capello. Sembrava un asino.
Davide boccheggiò, fece due passi all'indietro e si aggrappò a una sbarra per non cadere per l'ennesima volta.
«Co-co-cosa sei?» balbettò.
«Bremesso che mango tu mi sembri un figurino, penzo che tu sctia a esaggerà. Mango avessi viscto nu mostro!» Il volto dell'autista era tornato umano, magari in una versione brutta, ma pur sempre umana. Aveva zigomi scavati, occhiaie profonde e un lungo naso a punta. Si portò la mano al mento e si grattò la barba ispida. «Te senti bene?» chiese.
«Certo, è che tu…» Davide si interruppe e si massaggiò gli occhi. «Scusa, ma credevo che tu…»
«Mo lasciamo perde. Gomungue staremo a Isernia dra un'ora.» L'uomo sbuffò dal naso e si concentrò sulla strada.
Davide continuò a fissarlo, convinto che da un momento all'altro si potesse ritrasformare. Quella situazione era strana; si era addormentato sul treno per poi risvegliarsi su un pullman. L'unica nota comune era il personaggio improponibile con cui era.
«Nun te vo sedere? Se me gontinui a guardà me sciupi il faccino. Dorme se te riesce che t'ascpetta na bella sorpresa.» L'uomo serrò gli occhi e si mordicchiò il labbro.
«Chi mi aspetta?»
«E ghe ne so io, se tu che stai ad annà a Isernia ge l'avrai pure nu motivo.»
Davide socchiuse le palpebre e osservò l conducente, aveva capito bene le sue parole e quell'uomo gli stava nascondendo qualcosa. «Come mai non c'è nessun altro sul pullman?» chiese, avvicinandosi a piccoli passi.
«E ghe ne so, faccio il gocchiere miga l'indovino.»
«Ha ragione, mi scusi. Comunque io mi chiamo ANDREA.» Allungò la mano e sorrise.
Il conducente strabuzzò gli occhi, si voltò di scatto e spalancò la bocca. «Che vor dì che te ghiami Andrea? Nun zei Davide, lu nupoti de Teresa “la Stracciara”?»
«Fregato!» esultò Davide. Serrò i pugni e li allungò in avanti; con quello di sinistra colpì il mento del conducente che si sbilanciò verso sinistra. Nel movimento portò con se anche il volante, il pullman si girò su se stesso, andò fuori strada e si fermò contro il costone della montagna su cui si stavano inerpicando.
«N'gulo a te me stavi a sfonnà la faccia.»
Davide, rannicchiato a terra dov'era stato proiettato dall'incidente, si girò mortificato. «Scu…» balbettò.
Il conducente era si stava massaggiando il muso con lo zoccolo di una delle zampe superiori. «Scta mbo attendo. Ce potevamo ammazzà!» Gli porse l'altra zampa e sorrise. «Me chiamo Venturino, ma da 'ste parti me conoscono come “Cocchio”.»
Davide indietreggiò, spalancò la bocca e la richiuse un paio di volte, ma non riuscì a dire nulla.
«Ghe, non hai mai visto un molisano?» chiese Venturino.
La testa di Davide cominciò a girare, gli mancò il fiato e tutto divenne nero.
«Non t'avevo detto di non farti scoprire?»
«Marescià, guesto sta furbo guando “il Faina”. Giuro che non gli ho detto nulla.»
«Guarda come l'hai conciato e guarda il pullman.»
«Che ve devo da dì, m'ha aggredito gon un basctone.»
«Tutte scuse Cocchio, e poi non c'è nessun bastone da queste parti.»
Ad occhi chiusi, Davide ascoltava la conversazione tra Venturino e quello che doveva essere il maresciallo di quel posto. Il ricordo dell'asino travestito da conducente gli diceva di non guardare, ma forse quel ricordo era frutto dell'incidente. Mosse le dita e sentì del terriccio sotto di lui, era a terra. Cauto, aprì uno spiraglio tra le palpebre e sbirciò i due che continuavano a discutere. Un nodo alla gola gli bloccò il respiro: l'asino stava parlando con un roano fulvo alto almeno tre spanne piùdi lui. Non poteva essere vero.
«Maresciallo, il figlio della Stracciara si è ripreso.»
Davide girò lo sguardo verso la terza voce, quella che si era accorta dei suoi movimenti. Un uomo falco lo guardava con il becco poggiato sulla spalla.
«Benissimo appuntato, per fortuna che uno sveglio c'è da queste parti.»
«Ghe vorrescte dì? Nun greda che perché tiene 'na divisa io non le infili uno zoccolo tra quei denti da sctallone.» Venturino sollevò la zampa e l'agitò in aria.
Il maresciallo socchiuse gli occhi, sbuffò e scosse la testa. La criniera ondeggiò leggera. «Appuntato, aiuti il ragazzo ad alzarsi. Abbiamo parecchie cose da dirgli.»
«E no, mo m'ingazzo. La stracciara ha detto a me di accompagnarlo.»
Mentre l'uomo falco lo aiutava ad alzarsi, Davide osservava stralunato gli altri due che discutevano. La botta in testa doveva essere stata più forte di quanto credesse, ora quei due parlavano di sua madre come se fosse ancora viva, ma il telegramma parlava chiaro: le era morta due giorni prima. Portò la mano ai capelli e li tastò alla ricerca del sangue. Ne era certo, doveva avere una frattura cranica.
«Allora faccia come vuole. Appuntato, gli presti la moto.»
«Maresciallo, ma io come torno a casa?»
«Ma è possibile che devo pensare a tutto io? Chiami qualcuno e si faccia venire a prendere, ma prima finisca i rilevamenti!» Il maresciallo portò una zampa alla fronte, batté gli zoccoli inferiori e piroettò su se stesso. Mentre si allontanava la coda gli si agitava nervosamente.
«Stai dutto indero?» chiese Venturino, prendendolo a braccetto. «M'hai fatto brendeteun golpo, penzavo che te fossi ammazzato co 'sto volo.»
Davide scosse la testa, non era una visione, ma un sogno. «Grazie, uomo asino. Non mi sono fatto male.» La voce gli uscì innaturale, quasi robotica.
«Nun me piace ghe me ghiami coscì. T'ho già detto ghe sono Venturino lo Cocchio»
«Bene Venturino lo Cocchio,posso farti una domanda?»
«Ge mangaria!»
«Perché sei l'unico a parlare così?»
«Coscì gome?»
«Hai un accento strano.»
«Nun tengo nessun aggendo.»
«Non è proprio così. Fatico a capirti.»
«Bellino, me sctai a infastidì. Se nun te sctai zitto te prendo a zoccolate sur muso!»
«Come lei comanda, Venturino il Cocchio. Dove dobbiamo andare ora?»
«Te sto a portà da nonna tua, te deve da dì na cosa mportante.»
«Pensavo di assistere al funerale di mia madre oggi.»
«Berché, nun se sente bene?»
«Il telegramma dice che è morta.»
«Se lo dige il delegramma te poi fidà. Sora Marmotta nun sbaglia un golpo.»
«Venturino, perché siete tutti animali?»
«Nun lo zo, tu non zei una besctia? Mo l'omo non è più n'animale?»
«Il suo discorso non fa una grinza. Mi dica cosa devo fare.»
Venturino abbassò il muso e lo guardò di sottecchi. «Sali sulla moto» intimò, indicando una vespa con i colori dei carabinieri.
Davide lo seguì, aspettò che Venturino montasse sulla sella e fece lo stesso.
«Me sctai a schiaccià la goda!» ragliò l'asino, scansando in avanti.
«Scusa, è la prima volta che salgo su uno scooter con un…» Davide, memore delle proteste precedenti si mordicchiò il labbro inferiore. «…con un estraneo.»
Venturino non gli rispose, accese la moto e partì sgommando.
Appena presero velocità, le orecchie de lo Cocchio, mosse dal vento, iniziarono a schioccare colpi secchi sul viso di Davide. Il ragazzo rimpianse di non aver messo il casco e pensò a quanto potessero essere vividi alcuni sogni.
La Vespa si fermò poco dopo essersi infilata in una stradina sterrata. L'aria era fresca e da lontano iniziavano a scorgersi i primi raggi di sole che illuminavano le cime degli alberi.
Venturino scese dallo scooter, si mise su quattro zampe e si piegò in avanti; gli zoccoli dietro sferrarono un paio di calci all'aria. «N'gulo che viaggio. Nun zono fatto pe le due ruote» disse, riguadagnando la posizione eretta.
Davide, ancora convinto di vivere in un sogno, si stiracchiò e mise un piede a terra. Le ginocchia gli tremarono e per un attimo sentì ancora le vibrazioni del sellino. «Siamo arrivati?» chiese.
«Nonneta sta in guella gatapecchia.» Venturino indicò una casa in legno con il tetto cadente.
«Quindi?»
«Guindi te sta ad ascpettà! Muoviti va. Nvedi un bo 'sti cittadni, nun gabiscono niende» si voltò imprecando.
Davide decise che sarebbe andato avanti senza il suo animale guida, il suo compito era finito. Doveva proseguire da solo verso il suo destino.
Si chiuse nelle spalle e camminò a testa bassa. Non credeva che l'annuncio della morte della madre avrebbe potuto ridurlo così. Non aveva l'aveva mai vista: finché era piccolo lei non si era mai fatta viva e una volta cresciuto era stato lui a non volerla vedere.
Arrivò alla baracca e spinse la porta di legno che cigolò sui cardini e si aprì. Una luce fiammeggiante illuminò le pareti spoglie. Al centro della stanza c'era un tavolo con poggiati sopra due piccoli bicchieri e una bottiglia contenente un liquido scuro. Il pavimento scricchiolò sotto il peso di Davide che entrò.
«Signora Stracciara» chiamò, timidamente.
Alla sua sinistra qualcosa cigolò. Si voltò e, su una sedia a dondolo, vide una vecchia imbacuccata sotto a una coperta. Aveva il muso dolce dei gatti Persiani, il pelo lucido e baffi completamente bianchi. «Benvenuto, Davide.» Sorrise. In piedi accanto a lei, c'era una gatta simile, ma decisamente più giovane.
Davide si chiuse la porta alle spalle e accennò un inchino, senza distogliere mai lo sguardo dalle due. «È lei la Stracciara.»
«Non chiamarmi così, io sono la tua nonna.»
Il cuore di Davide cominciò a battergli forte in petto. L bocca gli si asciugò e gli occhi gli si riempirono di lacrime. Un pensiero gli sfiorò la testa, ma lo rigettò immediatamente. L'altra gatta non poteva essere sua madre. «Ciao nonna!» disse, con la voce rotta dal pianto.
Lei sorrise e inclinò la testa. «Com'è andato il viaggio?»
Davide sorrise «Ho conosciuto dei tizi strani, ma è un sogno, quindi tutto è possibile» disse, più a sé stesso che alle altre.
La gatta accanto alla nonna lo fissò per n attimo, poi distolse lo sguardo.
«È un piacere vederti, sei diventato grande.»
Davide arrossì e andò a sedersi. Abbassò lo sguardo sulla bottiglia poggiata al centro del tavolo, allungò la mano e la impugno.
«Piaceva tanto anche a tuo padre.» Questa volta fu la gatta più giovane a parlare.
Davide la fulminò con lo sguardo. «Lei è?»
«Non importa.» La gatta abbassò lo sguardo.
«È vero, non importa» ripeté lui, che in cuor suo sapeva chi doveva rappresentare. «Perché sono qui?» chiese, con un filo di voce.
«Perché lo volevi.»
Le mani iniziarono a tremargli. «No, non l'ho mai voluto!»
«Invece sì, altrimenti sogneresti altro.»
«Quindi questo è veramente un sogno?»
«Lo è se lo vuoi, altrimenti questo è il fantastico mondo del Molise e noi siamo la tua famiglia.»
La faccia di Davide avvampò, le lacrime iniziarono a colargli sulle guance. «Sì, voglio che sia tutto vero. Poggiò la testa sul tavolo e iniziò a piangere.» In fondo, se quello era un sogno poteva essere sincero.
Le assi del pavimento cigolarono, due paia di zampe affossarono tra i suoi capelli. Alzò lo sguardo e incrociò quello felino della gatta più giovane. «Mamma» sussurrò.
Un abbraccio morbido gli scaldò le membra, la gatta iniziò a fare le fusa e lui si abbandonò al più bel sogno della sua vita.
La mattina dopo mi svegliai alla stazione di Bari. Appoggiato sulle mie ginocchia c'era un quadernetto con decine di ricette molisane scritte a mano. Mi sentivo bene, appagato. Non andai al funerale di mia madre; lei l'avevo già conosciuta.
Da quel giorno decisi che la vita andava vissuta con il sorriso sulle labbra. Così ho deciso di regalare anche a voi il mio sogno.
Buon appetito
Chef Davide della Stracciara.
La donna, seduta al tavolo del ristorante “Il fantastico mondo del Molise”, finì di leggere la storia scritta in fondo al menù. Sollevò un dito e scacciò una lacrima. Afferrò il quadernetto degli appunti, finì di masticare e scrisse il nome del ristorante. Portò la penna alle labbra, mordicchiò il tappino e sollevò gli occhi al soffitto. Inspirò e tracciò tre piccoli cappelli sulla pagina con sotto scritto Michelin.