Semifinale gruppo Tarenzi

La Sfida a Italian Way of Cooking è un Super Speciale di MC finalizzato al componimento di un e-book prodotto da Minuti Contati!
L'evento è aperto a un limite massimo di 39 partecipanti che dovranno preventivamente iscriversi tramite il forum.
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Spartaco
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Semifinale gruppo Tarenzi

Messaggio#1 » martedì 28 giugno 2016, 23:47

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Eccoci alla novità de La Sfida.
In risposta a questa discussione, gli autori semifinalisti del girone Tarenzi, hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR del loro girone un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi, Valter Carignano e Diego Ducoli, possono sfruttare i tre giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: giovedì 30 giugno alle 23:59
Limite battute: 21.313

Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 30 giugno. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione, state sicuri che il vostro avversario starà già pensando a come migliorarsi!



diego.ducoli
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Re: Semifinale gruppo Tarenzi

Messaggio#2 » giovedì 30 giugno 2016, 23:46

Ren il cuciniere -

Siamo alle soglie del ventiduesimo secolo, grazie a dei stupidi reality di cucina, il mondo si era convinto che tutti potessero diventare grandi chef. La terra venne sfruttata per produrre quantità sempre più ingenti di cibo, causandone una quasi totale desertificazione.
Nonostante tutto, qualche cuoco era sopravvissuto.

Il sole del deserto picchiava sulle teste dei due uomini. Erano ormai giorni che camminavano, e il caldo faceva da contrappunto al gelo delle notti.
“Maestro. Maestro ho sete.”
Ren si riscosse dalla trance nella quale era sprofondato, nonostante le sue innumerevoli risorse era molto provato.
“Garzone,siamo quasi arrivati, tra poche ore potrai dissetarti”
Garzone scosse la testa per schiarirsi la vista, il caldo gli offuscava i sensi e più di una volta si era illuso di vedere un pozza d'acqua.
“Non credo di farcela.”
“Potevi bere all'oasi un'ora fa” rispose Ren.
“Ma, ma non era un miraggio?”
“Certo che no.”
“Non poteva dirmelo? O almeno fermarci qualche minuto?”
Ren scrutò l'orizzonte, assumendo un'espressione arcigna.
“No! La meta è vicina. Non voglio perdere tempo.”
“Potrei morire se non bevo un goccio d'acqua. Non potrei prenderla dallo zaino?” replicò, indicando con la testa il voluminoso carico che portava sulle spalle.
“Quelli sono i miei sacri ingredienti. Hanno uno scopo più nobile che dissetare un assistente.
Comunque prendi questa” disse lanciandogli una pallina candida.
“Mangiala, ti aiuterà.”
Garzone si ficcò in bocca la piccola sfera, strabuzzò gli occhi e prese a tossire violentemente.
“Cosa mi ha dato?” bofonchiò senza fiato.
“Sale. Sale concentrato.”
“Ma è pazzo.”
“Questa è la differenza tra un maestro e il suo allievo. Ogni cosa che mangiamo influenza il nostro corpo. Il sale aumenterà il richiamo dei liquidi a livello renale e intestinale. Se non subentra un'insufficienza renale dovresti sentire meno sete, oppure potresti morire. Sei giovane dovresti farcela.”
“Grazie maestro, perdona il tuo stupido discepolo.”
“Basta così. Andiamo.”
“Fottiti bastardo” sussurrò Garzone.
“Hai detto qualcosa?”
“Stavo lodando la sua benevolenza” replicò incamminandosi.

“Maestro, ci siamo!”
I palazzi si stagliavano all'orizzonte, grigi e decadenti, le uniche note di colore erano i giganteschi schermi che vi erano affissi sopra.
Dagli altoparlanti tuonava la voce della presentatrice.
“Ecco, questa è la ricetta di Mariella. Topo muschiato marinato con legna secca. Il costo? Nullo se riuscite ad acchiappare la bestiola.”
Un'imprecazione uscì dalle labbra di Ren e andò a perdersi nel vento. Strinse le mani sui manici dei coltelli, che gli pendevano dalla cintura, contenendo a stento la sua rabbia.
Senza proferir parola entrarono in città.
Una fila di persone li attendeva. Profughi, famiglie e morti di fame che cercavano un posto dove sopravvivere.
Un drappello di uomini si trovava in testa a quel serpente umano. Ren contò sei persone.
“Cosa? Per solo quattro uova dovremmo concederti il lasciapassare? Odio gli spilorci. Punizione!” tuonò uno di loro, vestito con un grembiule bisunto e un toque blanche lurido sul capo, con la mano indicò la folla davanti a se.
“Spero che questo vi serva da lezione. Non vogliamo pezzenti in città!”
Due energumeni afferrarono il vecchio e gli spinsero la mano in un miscuglio giallastro e poi nella farina.
“Nooo. Lasciate stare mio nonno” strepitò una vocina acuta.
“Vattene Cecilia!” ma la piccola era impietrita dal terrore, si chiudeva gli occhi con le mani e scuoteva il capo cercando di ignorare quell'orrore.
“Aiutatelo vi prego, aiutatelo” urlò tra le lacrime, che cominciarono a scendere come piccole gocce di rugiada.
Gli sgherri si scambiarono un sorriso maligno e infilarono la mano dentro la friggitrice. Le urla dell'anziano e l'odore di fritto si diffusero nel aria.
“Questo è quello che vi succederà se non saremo compiaciuti.”
Gli energumeni sollevarono il vecchio mostrando a tutti un orribile nugget a forma di mano.
“Questo è il regno dei cuochi di King! Noi decidiamo il vostro destino, chi mangia e chi no, chi vive e chi muore” e alzando la testa al cielo scoppiò in una risata sguaiata.
Ren esplose.
“Ora basta” urlò mentre con lunghe falcate si avvicinava agli aguzzini.
“Come osate definirvi cuochi? Invece di sfamare opprimete la gente, il cibo è gioia, non sofferenza. Ora assaggerete la cucina di un vero chef.”
Ren contrasse i muscoli, la maglietta esplose lasciandolo coperto solo dal grembiule che vi nascondeva sotto.
“E tu chi sei?” chiese il capo cuoco.
“Sono colui che porrà fine a questo scempio” rispose Ren afferrando un Boucher dalla cintura.
“Uomini, friggete quell'idiota”
Gli sgherri non se lo fecero ripetere due volte, impugnarono un'accozzaglia di utensili da cucina e gli si avventarono contro.
Ren passò in mezzo a loro con velocità sovrumana, come un cameriere esperto costretto a farsi strada tra i tavoli, mulinando la piccola lama.
Sangue e brandelli di carne volarono in ogni dove, la lama cantava la sua sete di sangue.
Al termine della corsa i volti degli avversari erano ridotti a dei teschi.
Ren non si voltò neanche per osservare i corpi che crollavano a terra senza vita.
“Preparazione completata” dichiarò pulendo accuratamente il Boucher.
Il capo cuoco strabuzzò gli occhi, gli sfinteri si rilassarono inondandolo di urina.
“Chi sei?” domandò per la seconda volta.
“Il mio nome è Ren. Renato della sacra scuola di cucina di O'strutto.”
“Non esistono più gli O'strutto, King li ha uccisi tutti.”
“Si sbagliava.” replicò afferrando un piccolo coltello da burro e facendo un guizzo con l'attrezzo.
“Ora vattene! Dì al tuo padrone che Ren sta arrivando.”
Gli voltò le spalle e si diresse verso “mano fritta” e sua nipote.
“Sei un idiota a voltarmi le spalle” da sotto la giacca estrasse un Hamburger.
“Ho fatto quest'impasto con carne macinata e polvere da sparo, ha la forza esplosiva di una granata.”
Portò il braccio dietro la spalla e caricò il lancio.
“Stolto. Sei già morto. Quando ho estratto il secondo coltello ti ho lanciato un pezzo di guanciale, la piccola lacerazione che hai sul volto non ti dice niente?”
“No. Muori!”
“Il grasso contenuto nel guanciale si è diffuso nel tuo corpo, ha raggiunto il cuore, tra pochi secondi le tue coronarie saranno bloccate dal colesterolo. Tre. Due. Uno.”
L'uomo si strinse le mani al petto, il volto distorto dal dolore e stramazzò a terra.
La folla lanciò un ovazione.
Ren non fece caso alla canzone che cominciarono a cantare in suo onore:
“Ren, sei tu.
Il nostro cuciniere.
Sceso come fulmine dal cielo...”
Gettò uno sguardo a Garzone che lo guardava ammirato e cantava con tutti gli altri quella stupida canzoncina. Sospirò e si inginocchiò accanto al vecchio.
La piccola Cecilia lo guardò con occhi adoranti.
“Puoi fare qualcosa”chiese con voce flebile.
“Deve metterci qualcosa sopra.”
“Cosa?” domandò il vecchio.
“Beh, direi della maionese, con i nuggets è quello che ci vuole.”
“Ma sei pazzo!”
Ren non perse tempo a spiegare le proprietà idratanti dell'uovo e antisettiche del limone.
“Garzone, lo zaino.”
L'apprendista lasciò perdere i bagordi e appoggiò il carico accanto al maestro.
Con abilità afferrò un barattolo giallognolo e lo consegnò alla bambina.
“Credi in me, mettigliela per una settimana e guarirà.”
“Andiamo. King ci sta aspettando.”


Ren e Garzone percorsero le vie della città seguiti dalla piccola folla. La voce della loro vittoria si era sparsa in fretta e dalle finestre diroccate la gente li spiava sperando nel nuovo liberatore.
Le case divennero più fitte, i palazzi sembravano incombere malevoli, ma nessuno li disturbò.
Una piazza si aprì davanti a loro, due fila di colonne segnavano la strada verso una costruzione gigantesca. L'antica cattedrale era solo l'ombra del maestoso edificio di un tempo: la maggior parte dei doccioni erano distrutti, le piogge e il maltempo avevano tolto lucentezza ai marmi, il rosone centrale non esisteva più ed era stato sostituito con un cartello: “Qui si mangia da dio”.
Ren si voltò verso la folla che lo seguiva.
“Questa è la nostra missione, potremmo non uscirne vivi. Aspettate qui. Andiamo Garzone.”
“Come sono fortunato”replicò il giovane.
“Non ho capito.”
“Nulla maestro, sono onorato nel poterla seguire in questo compito suicida.”
Ren annuì solenne, avanzò verso il gigantesco portone che si spalanco davanti a lui.
“Ho il vago sospetto che sia una trappola.”
“Certo che lo è. Andiamo!”
“Sti cazzi. Ehm volevo dire come razzi”
I due entrarono nella cattedrale, i loro passi rimbombavano nella navata oscura.
Le luci si accesero improvvisamente abbagliandoli, un boato di mille voci li tramortì.
“Ed ecco che è arrivato il nostro sfidante, Renato della sacra scuola di O'strutto. Questo straniero è venuto a sfidare il nostro signore e padrone, il quasi divino Kiiiing. Ma prima di entrare nel vivo di questa puntata di 'Dominion Chef' lasciamo la parola ai concorrenti.”
La vista di Ren e Garzone si schiarì, nelle navate laterali erano posizionate delle immense gradinate gremite di spettatori che urlavano un solo nome: KING KING KING.
Un rumore assordante coprì le urla, il pavimento si spalancò e davanti a loro emerse una cucina perfettamente attrezzata.
“Ed eccolo, l'idolo di tutti noi, il desiderio di tutte le donne, l'eroe dei bambini: King!”
Una torre luminosa di erse di fronte a loro, su di essa un uomo emaciato vestito di bianco alzò le mani al cielo per ricevere l'ovazione che si scatenò.
“Ti aspettavo ultimo discendente della scuola di O'strutto, il tuo nome sparirà da tutti i ricettari, proprio come tuo padre.”
“Bene. Vedo che vuoi una sfida regolare. Ti umilierò e vendicherò mio padre. Vedremo chi sarà cancellato.”
I fischi del pubblico coprirono le ultime parole, ma Ren non diede peso alla cosa.
“Bene bene bene” tuonò il presentatore invisibile “gli sfidanti sono caldi, ricapitoliamo le regole.
Avete quindici minuti per preparare i vostri piatti e servirli, non sono ammessi edulcoranti artificiali e conservanti. I vostri assistenti potranno aiutarvi a recuperare gli ingredienti necessari”
Un gruppo di camerieri uscì dagli spalti spingendo una serie di pesanti frigoriferi posizionandoli alle spalle di Ren.
Il muro dietro King si aprì, mostrando a tutti una dispensa colma di prelibatezze.
“CHE LA SFIDA ABBIA INIZIO!”
Le grida del pubblico fecero tremare i vetri della chiesa.
“Garzone” urlò Ren “Ricetta n°666. SUBITO!”
“Maestro sei sicuro?”
“Muoviti, il tempo è tiranno” rispose, mentre estraeva dalla credenza un enorme pentola a pressione.
Garzone si mise alla ricerca forsennata degli ingredienti, aprì i frigoriferi rovistando furiosamente. Frutta, formaggi e innumerevoli cibi volarono in ogni dove, ma in pochi secondi Ren ebbe il necessario.
La pentola a pressione era già sul fuoco, il maestro di O'strutto tritò verdure, sezionò carni ad una velocità inaudita, i coltelli erano lampi di luce, le sue mani ombre oscure che li guidavano.
Ren afferrò gli ingredienti e li gettò nella pentola rovente,serrò il coperchio e attese il fischio dell'ebollizione.
“Tecnica della cottura accelerata di O'strutto” urlò.
Si infilò una presina con dei simpatici motivi floreali e si mise ad agitare in maniera forsennata la pignatta. I muscoli si tesero allo spasimo, grosse gocce di sudore gli ricoprirono la fronte, il volto era contratto per lo sforzo immane a cui si stava sottoponendo.
“Ma cosa combina il nostro sfidante, forse il suo assistente potrà delucidarci.”
Garzone ricevette un microfono da una ragazza vestita da cameriera.
“Pronto pronto, prova prova” balbettò e rimase stupito del sentire la sua voce amplificata da giganteschi altoparlanti.
“Beh, la scuola di O'strutto ha sviluppato una tecnica speciale per accelerare la cottura dei cibi.
Lo scuotimento continuo aumenta la velocità delle molecole all'interno della pentola diminuendo il tempo di preparazione in maniera esponenziale, inoltre eseguita nella maniera corretta amalgama gli ingredienti, lasciando inalterate le proprietà organolettiche degli stessi.”
“Grazie, ora è tutto chiaro. Lasciamo lo sfidante al suo preannuciato fallimento e osserviamo il nostro campione”
Sul piano di lavoro di King tutto si muoveva a un ritmo molto più lento. Il quasi dio incideva con cura chirurgica, gli assistenti preparavano intanto un grosso vascone fumante.
“Osservate la grazia e la tecnica sopraffina di King, ma non voglio rovinare con le parole questo momento magico. Contempliamo e aspettiamo.”
Lo squillo del timer segnò la fine della preparazione.
“Sei pronto Ren?”strepitò King “Assaggia questo:Sorbetto al limone molecolare.”
Dalle mani del re si staccò una sfera bianca immersa in un vapore gelido, l'aria intorno alla sfera si cristallizzò e la temperatura nella navata scese di diversi gradi.
Con una velocità al limite dell'assurdo, Ren infilò le mani nella sua pentola e agitandole a cerchio creò un ovale di un indefinibile color marrone.
“CASEULA PROTETTIVA!”
Le due vivande impattarono a mezz'aria, l'onda d'urto fece cadere le prime file degli spalti.
Il sorbetto di King congelò lo strato esterno della Casoula, la potenza del colpo creò una cupola di ghiaccio che avvolse Ren.
“RIPROPONI!” urlò.
Ren contrasse i muscoli possenti e spinse con tutte le sue forze. La sfera di sorbetto fermò la sua rotazione, per poi acquistarne una contraria e ripartire a velocità supersonica verso il campione.
“NOOOO” ma l'urlo venne troncato dall'esplosione gelida che deflagrò, distruggendo la cucina di King.
Il silenzio che ne seguì era quasi assordante. Ren crollò a terra esausto, ansimando vistosamente.
“Il piatto è servito”sussurrò prima di svenire.
“Ma che è successo?”domandò il presentatore.
Garzone con ancora il microfono in mano non fece tardare la risposta.
“La Caseula è un piatto a base di verza e carne di maiale. Il grasso che vi è contenuto è un ottimo isolante e la verza è una verdura capace di resistere alle gelate. L'unione di questi ingredienti crea uno scudo impenetrabile dalle basse temperature. Ren aveva intuito l'attacco di King e ha risposto di conseguenza.”
“Ma com'è possibile che abbia riflesso il sorbetto molecolare.”
“È un piatto molto pesante, la Caseula si ripropone sempre, in qualche modo.”
La folla che prima osannava il quasi dio chiamò Ren a gran voce.
Garzone intonò la canzone di Ren e il pubblico lo seguì.
Sollevarono il corpo esausto del nuovo campione e lo portano in trionfo, ringraziando per la nuova era di splendore che stava per sopraggiungere.

Tra le mura della cattedrale, riecheggiò una risata, “Tornerò Ren, tornerò.”

TO BE CONTINUED...

valter_carignano
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Re: Semifinale gruppo Tarenzi

Messaggio#3 » giovedì 30 giugno 2016, 23:57

L'Arte di Mangiar Bene
di Valter Carignano

Forlimpopoli, 25 gennaio 1851
Si apre il sipario.
Nello stanzone che fa da camerino all’orchestra, il direttore smette di pulirsi gli occhiali e guarda il primo violino. Possibile che in questi teatrini ne deve sempre capitare una, pensa. Leva gli occhi al cielo, sbuffa.
Il violinista sorride e continua a mettere in ordine lo spartito. Oboe e flauto fanno cenno di entrare a quelli che sono fuori a fumare. Qualcuno butta la cicca, qualcun altro se ne frega.
Massì, hanno ragione loro. Luci in sala ancora accese, non ci dicono niente e già stanno aprendo il sipario. Almeno darci i cinque minuti… basta, è l’ultima volta che faccio ‘ste recite in provincia.
Due coristi incuriositi fanno capolino da una quinta, arriva anche Figaro con in mano un panino mezzo mangiato. Il suggeritore si affaccia dalla sua buca, li guarda e allarga le braccia. In platea, qualcuno del pubblico ha visto che il sipario è aperto ma non vi bada, si continua a chiacchierare, seduti o in piedi. Una donna ride forte alla battuta di un suo pretendente, lui coglie l’occasione per avvicinarsi un po’ di più e sfiorarle la mano, lei si ritrae ma continua a ridere, ammiccando da dietro il ventaglio.
Il tuono di uno sparo e un urlo di dolore squarciano l'aria.
Dal foyer irrompono in sala una decina di briganti, schioppo spianato e faccia coperta. Stanno lì, fermi davanti alle porte.
– Ma cosa…? – Pellegrino, un giovane sui trent’anni, il volto severo e regolare, si alza e si guarda intorno.
– Fermo, l’è ‘l Stuvané! – gli sussurra il padre, tenendolo per un braccio. Alcuni ripetono quel nome a bassa voce, spaventati. Una signora si fa il segno della croce.
– Signore e signori, questa sera niente Barbiere di Siviglia! – Il Passatore è al centro del palco, la faccia bene in vista e sbarbata di fresco. Non è imponente, ma tiene la scena come un grande attore. – Adesso gli uomini mi fanno il piacere di dare orologi e portafogli ai miei amici che sono lì sotto con voi, e le donne tutti i gioielli, poi vedremo. – Intanto, altri cinque uomini mascherati spingono come bestiame la piccola orchestra, i cantanti e i macchinisti sul palco. Non appena vede il Passatore, Rosina perde i sensi. Bartolo e il Conte la sorreggono, anche loro bianchi come fazzoletti.
– Non vi preoccupate, voi. Si sa che non sono contro la povera gente, no? – Il bandito sorride agli artisti, gli occhi cattivi gli tirano il sorriso in un ghigno. – A meno che qualcuno non faccia il furbo… Portatelo dentro!
Sotto, due uomini buttano a terra in mezzo alla platea il cassiere, una gamba squarciata dai pallettoni.
– Come questo qua. Ci ha visto e ha tentato di portarsi via la cassa, invece che dividerla da buon compagno. – Il Passatore scende dal palco e gli si avvicina. – È proprio una brutta cosa, amico mio. Adesso sono arrabbiato. E guardami negli occhi, quando ti parlo! – ringhia.
Un cenno e due uomini tirano su il ferito. Il ghigno del Passatore si fa più ampio, la lama della sua saracca si apre con un richiamo di morte. Socchiude gli occhi, accarezza assorto il manico di corno biondo del serramanico, la mano scatta e mozza l’orecchio sinistro del cassiere. L’uomo urla, con uno spasmo si libera ma subito cade, si contorce a terra, il sangue sprizza intorno lordando marsine e vestiti. Alcune donne gridano e svengono.
– E quando sono arrabbiato, divento cattivo. Capita a tutti, non è vero, signori? – Con un calcio, fa girare l’uomo a terra a pancia in su e gli mette lo schioppo a pochi centimetri dalla faccia. Spara. Carne e cervello si spargono attorno. Nessuno ha più il coraggio di fiatare.
Il Passatore riattraversa la platea e va a sedersi sulla sedia del primo violino, sotto il palco.
– Gnéro, quanto abbiamo fatto?
Un omaccione, rosso di capelli e con la barba che spunta da sotto il drappo sul volto, rovescia una borsa in terra. Il capo allarga il bottino con un piede, prende una collana e un orologio con la catena d’oro, ne saggia la consistenza coi denti. – Mmh, questo è oro buono. Ma non è molto. Dove la tenete, la roba, dentro il materasso? Cosa volete, farmi arrabbiare di nuovo? – alza la voce, si gira verso il palco. – E voi, siete davvero così poveri o nascondete i soldi? Maledetti bastardi!
Il direttore si fa piccolo, e con un filo di voce – Signor Stuvané – dice, – ci creda, chi lavora in questi teatri così piccoli fa la fame…
– Chi ti ha detto di parlare? – Il Passatore è paonazzo, urla, agita la saracca ancora sporca di sangue. – Diobòia, adesso basta! Tutti giù!
Vengono ammassati a spintoni e calci in platea, musicisti e pubblico. I briganti si schierano come un plotone d’esecuzione. – Non va bene, signori – sibila. – Pregate qualche vostro dio inutile, perché se i miei non mi portano buone notizie in fretta…
Si sente una voce nel foyer: – Chép, siamo qui! – E subito un’altra decina di banditi entra in sala. Ognuno lascia un sacco ai piedi del Passatore, poi saluta i compagni e si mette in attesa. Il capo dà un’occhiata alla roba dentro ai sacchi, il ghigno riappare e si fa più largo.
– Bel colpo, bravi. Fagòt, problemi?
– Tutto liscio, chép. Anzi, il Mérico si è anche divertito! – Ripete due o tre volte un gesto verso il basso col pugno chiuso e il braccio teso. I briganti sogghignano e spintonano il Mérico, un ragazzo sui vent’anni con la faccia ebete e lunga, da cavallo.
– Ah, sì? E come? – Anche il Passatore è pronto alla risata.
– Sopra il droghiere c’era una bella ragazza, una brunetta, il Mérico l’ha vista e non ha capito più niente. Mi sa che non è più ‘signorino’, adesso! – Il ragazzo arrossisce, ride, tutti sghignazzano e gli battono sulle spalle. – Bravo! Era ora! – gridano. Lui alza le mani in segno di vittoria, goffo e sgraziato.
Bastérd! – urla Pellegrino da in mezzo alla gente ammucchiata addosso al muro. Si fa largo e si butta addosso al Mérico. Ruzzolano a terra, il brigante è più veloce, gli molla un pugno in faccia, ma Pellegrino resiste e lo prende per il collo. Gnéro fa un passo avanti e solleva il giovane con una mano sola, poi lo abbraccia nella stretta dell’orso. – Lo ammazzo? Eh, lo ammazzo?
Il Passatore si avvicina. – No, prima ci divertiamo. – Già la lama della saracca si avvicina al naso di Pellegrino. I briganti assaporano altro sangue, la gente sta a testa bassa, non vede e non sente.
– Per pietà, no! – grida il padre, facendosi largo. – Sono Agostino Artusi, il droghiere. Quella ragazza che avete trovato è… – deglutisce, stringe le labbra. – È una mia serva e mio figlio, qui, se n’è innamorato, allora quando ha sentito che il vostro uomo… ma non voleva mancarvi di rispetto, Stuvané. È scattato senza pensare. È… è giovane.
– Ah. Quindi sarebbe una questione d’onore? – Il Passatore ripiega la la lama nel manico di corno, fissa negli occhi il giovane ancora nella stretta del Gnéro. Acconsente fra sé. – Hai fegato. Per oggi, non muori. Uomini, è ora di andare!
Il Gnéro lascia Pellegrino, Mérico sogghigna e gli abbatte il calcio dello schioppo sulla testa. Pochi istanti e i briganti sono tutti fuori, inghiottiti dalla nebbia fredda di gennaio.

Sgnör, l’è dést! – chiama la domestica. Agostino Artusi lascia i conti e corre su.
– Pellegrino, come stai? Sei rimasto svenuto quasi dodici ore…
– Io… bene, credo. Mi fa male la testa. – La destra va alla fasciatura sul capo. Si mette a sedere di scatto. – Geltrude!
– Stai tranquillo, è di là con la mamma. Ora sta meglio. – Agostino si passa la mano sul volto, sulla barba non rasata. – Stanotte, quando siamo arrivati, lei era raggomitolata sul tetto, fradicia. Non ci riconosceva, gridava, abbiamo avuto paura che si buttasse giù. Il dottore… – la voce è di colpo più bassa, poco più di un sussurro. – Il dottore è un amico. Non dirà nulla, nemmeno al giudice. Una ragazza spaventata, tutto qui. – L’uomo mette la testa fra le mani, esausto. – Povera figlia mia.
Pellegrino si alza dal letto, barcolla, si regge alla parete per non cadere. Sbatte gli occhi umidi. – E io… – Nasconde il volto nel gomito, al muro.
Il padre solleva lento la testa, lo guarda con occhi smarriti. – Tu cosa? Che potevi fare? – Lo sguardo si perde lontano. – Sai, l’avevo sentito dire, che il Stuvané era fissato per certe cose. L’onore, le donne… mi sono inventato quella storia della cameriera per salvarti. Era di buon umore, siamo stati fortunati.
Pellegrino stringe le labbra. Fortunati? pensa. Si stacca dalla parete, sente il sangue salirgli al viso. Stringe i pugni, il respiro è un sibilo che gli esce attraverso i denti digrignati. Sta per gridare ma vede suo padre abbandonato sulla poltrona, la testa china, le mani intrecciate come in preghiera.
Poveraccio. Che colpa ne ha, lui? Gli mette una mano sulla spalla, dolcemente.
– Mi accompagni da lei, papà?
L’uomo si riscuote, tenta un sorriso. Si alza.
Vanno nella stanza di Geltrude. Pellegrino prende la mano della sorella ancora prima di sedersi al fondo del suo letto. Lei non reagisce, le sue pupille vagano intorno come cieche, poi si fermano e fissano il nulla. Pellegrino sbarra gli occhi. Non c’è, lei non c’è più.
– Fortunati... – mormora.

Eccolo!
Pellegrino si alza di scatto, quasi butta a terra la sedia, scruta febbrile nella notte. Un uomo con un tabarro nero ha appena bussato al portone del Ricci.
Ci siamo.
Ormai ogni notte, Pellegrino dalla sua stanza spia quel portone, al buio, attraverso le persiane chiuse. Ogni notte dal giorno dell’inchiesta.
In quell’occasione, davanti al giudice incaricato venuto da Cesena per raccogliere le testimonianze, Pellegrino non ha detto nulla di Geltrude, e così tutta la famiglia e l’amico medico. Almeno il suo onore di ragazza è salvo. Ma da certe mezze parole, da un certo tono usato in qualche risposta da persone che lui conosce da sempre, si è convinto che i briganti sapessero le case in cui andare. Indicate da qualcuno del paese.
Qualcuno che viene al negozio, che magari saluto ogni giorno. È sua la colpa.
Il più strano gli era sembrato il Ricci. Tutti sapevano che lui era avvocato, però a casa sua i briganti non erano andati. – Sono stato fortunato – aveva detto il Ricci al giudice.
Pellegrino non crede più alla fortuna, né alla legge. Il suo pensiero fisso è farla pagare a quelli che hanno rovinato Geltrude, un pensiero che non gli fa chiudere occhio.
E allora di giorno, durante le sue visite ai clienti nei paesi vicini, si ferma come sempre a mangiare nelle osterie e annota sul suo taccuino nuove ricette, o variazioni di quelle che già conosce. È la sua passione, forse perché è cresciuto fra spezie, caffè, alimentari, e da bambino inventava dolci immangiabili con ogni cosa che trovava. Ma adesso è diventato anche un pretesto, una lenza per fare amicizia e buttare lì qualche osservazione innocua sul Passatore, i briganti, la polizia del Papa Re. Nessun risultato, per ora.
E invece di notte sorveglia il portone del Ricci. E stanotte qualcosa è successo.
Là sotto, nella strada, l’uomo col tabarro attende. Si apre una finestrella al piano terreno, l’uomo tira fuori un pacchetto e qualcuno lo prende, poi dice qualcosa che Pellegrino non riesce a sentire e se ne va.
E così Ricci è stato pagato, bastardo di un Giuda.
Pellegrino mette cappello e mantello, scende più veloce che può senza svegliare tutti. Corre, attraversa la strada, vede un’ombra che gira per il sentiero dietro la chiesa. La segue. Il campanile batte le due.
L’ombra va con passo sicuro nella nebbia. Pellegrino accelera, non deve perderlo. Mi porterà nella loro tana. Mette un piede in fallo, cade, l’ombra si ferma, in ascolto. Pellegrino sta immobile, non osa respirare. Una civetta stride, l’ombra riprende a camminare.
Dopo un’ora, l'ombra arriva a una cascina. Un cane abbaia. – Sta zet, Bacòc! – dice l’ombra, ed entra nel cortile. Pellegrino si guarda intorno, deve essere sicuro di riconoscere il posto all’alba, quando verrà coi gendarmi.
La nebbia si è un poco alzata, la luna crescente illumina pallida i campi, la cascina, tutta la borgata. Pellegrino la riconosce. Ci è passato tante volte, conosce anche qualcuno, lì. Tutto inutile, non c’è nessun covo di briganti. E anche se l’ombra che ha seguito fosse uno della banda, che valore può avere la parola del figlio del droghiere contro quella del Ricci?
Si volta e torna a casa. La civetta stride ancora.

Pellegrino mette le ultime cose nella piccola valigia.
Prima di scendere in negozio, passa nella stanza di Geltrude. Negli ultimi giorni, qualche volta la sorella ha dato segni di miglioramento. Oggi le sue membra sono di nuovo abbandonate come delle cose morte, gli occhi vuoti e spenti. Lui le sfiora la fronte con un bacio e le sussurra: – Torno presto, mia cara. E forse ti porterò buone notizie.
I genitori sono di sotto, ma in quel momento la bottega è vuota. – Io vado, allora – dice, posando a terra la valigia. – Ho preso le lettere per i fornitori, quelle per i clienti… mi sembra sia tutto.
Il padre si toglie gli occhiali. – Io comunque preferirei Bologna.
– Sì, lo so. Per le lasagne – scherza Pellegrino, e dopo quasi due mesi finalmente vede almeno il fantasma di un sorriso sul volto della madre. – A me invece piacerebbe di più Firenze, o forse anche Milano.
– Così lontano! – esclama la madre. – Con gli austriaci, poi.
Pellegrino sorride. – Mamma, se è vero quello che si sente, fra un po’ non ci saranno più né gli austriaci né i francesi. Chissà, staremo a vedere. Comunque, l’importante è che troviamo una bella casa. – Guarda l'orologio. – È tardi, meglio che vada. Arrivederci mamma, papà, torno presto, appena finito. – Si abbracciano ed esce.
Una carrozza lo aspetta. Mentre si lascia Forlimpopoli alle spalle, pensa che potrebbe essere una delle ultime volte che la vede. Ormai la decisione è presa, devono andarsene, il paese è troppo denso di ricordi tremendi e di sospetti per continuare a viverci.
Pellegrino non ha parlato a nessuno, di quella notte. Continua a stare all’erta, cerca di cogliere ogni minimo accenno nelle campagne e nei paesi vicini, ma si è dovuto rendere conto che è stato un povero pazzo a credere di riuscire dove le polizie di tre Stati non avevano cavato un ragno dal buco.
Ha un’ultima speranza, il suo amico Felice Orsini. Lo incontrerà il ventitré di marzo, a Firenze, e forse lui gli darà una mano, con i suoi contatti nella carboneria, fra i patrioti e fra coloro che vivono ai confini della legge.
La carrozza sale verso l’Appennino, comincia a vedersi la neve. Fra qualche ora saranno in quella locanda dove lui trascrisse una delle sue prime ricette, il Bue alla California. Sembra essere passata una vita. Si stringe nel cappotto, ma il freddo che ha dentro non riesce a scacciarlo.

– Pellegrino! – grida Felice Orsini dall’altra parte del corso. Attraversa e gli stringe la mano con forza. – Allora, come stai? Sei dimagrito.
– Felice, che piacere! – Pellegrino sorride. – Mah, dimagrito non so, forse. Tu stai bene? Come si sta a Nizza?
– Che vuoi, si lavora. Sono finiti i bei tempi di Bologna… Ah! E la servetta dei Tre Re che ti faceva gli occhi dolci? L’hai più rivista? – Ridono.
– Ma cosa vai a ricordare? Andiamo a pranzo, piuttosto?
– Come no! È da ieri sera che non mangio.
Entrano in un’osteria e si mettono a un tavolo discosto dagli altri. Felice si guarda intorno, ordina due bianchi. Scambia qualche parola con l’oste e con uno sguardo controlla che nessuno sia entrato subito dopo di loro.
– Sempre all’erta, eh? – gli sussurra Pellegrino, quando lui torna a sedersi.
– Mah, qui nel Granducato per ora si dovrebbe stare tranquilli, però le spie sono ovunque.
Ammicca all’oste che porta i bianchi e un piatto di crostini con fegatini di pollo e acciughe. – Ah, che profumino! Cosa c’è di buono, oggi?
– Abbiamo zuppa di farro e stufato di montone, e per dolce frittelle all’uvetta e vin santo.
– Che bontà! Facciamo così, portaci tutto quanto con una bella bottiglia di Chianti. Va bene, Pellegrino?
– Sì, certo. – Tira fuori il taccuino e si rivolge all’oste: – Mi scusi, sa, ma potrei sapere la ricetta delle frittelle? – L’oste aggrotta le ciglia. – Pagando, s’intende – precisa Pellegrino. Il viso dell’oste s’illumina. – Ah, se è così, dopo le mando mia moglie. Buon appetito, signori.
Un’ora e mezza dopo sono sul Lungarno. È un marzo freddo, i passanti sono pochi.
– E così, ti trasferisci? – chiede Felice.
– Sì, magari qui a Firenze, se si trova l'occasione buona. Dopo quello che è successo...
– Mi dispiace molto, sai, per tua sorella. Capisco la tua sofferenza nel parlarne e sono lusingato che me ne hai messo a parte. – Lo guarda negli occhi. – Ma perché me l’hai raccontato? Siamo amici, certo, però…
Pellegrino lo interrompe. – Voglio trovare il Passatore. Voglio vendicarla.
– Cosa?
– Tu puoi farlo. Conosci informatori, spie, magari anche qualcuno vicino a loro. Ti prego.
Felice esita, poi gli mette una mano sulla spalla. – Povero Pellegrino. Ti capisco, perché se un uomo rinuncia all’onore, cosa gli rimane? – Si appoggia al parapetto sul fiume. – Ma pensaci: se io avessi potuto sapere dov’è, non sarei andato a denunciarlo e non avrei usato quella taglia enorme che ha sulla testa per finanziare la liberazione? Abbiamo bisogno di armi, e poi soldi per pagare le spie, gli avvocati, i viaggi all’estero per prendere contatti e accordi… l’avrei fatto mille volte. Mi dispiace, Pellegrino. Né io, né tu possiamo fare niente.
Pellegrino guarda l’Arno portarsi via le sue ultime speranze, quelle che non aveva voluto abbandonare anche se sapeva non essere altro che il desiderio di un uomo che non vuole ammettere la propria impotenza.
In quelle ore, nelle campagne di Faenza, la Polizia Pontificia scova e uccide il Passatore.

Livorno, 2 luglio 1855
Pellegrino vaga fra le banchine, il respiro mozzato e una fitta alla bocca dello stomaco. Il silenzio della notte è rotto soltanto dallo sciabordio del mare e dal berciare di qualche ubriaco.
L’ha visto. Lui è lì, a Livorno.
Il Mérico.
L’ha incontrato qualche ora prima, in una locanda. Stava per riportare sul taccuino la ricetta di un certo minestrone di cui gli avevano parlato, e che era venuto appositamente per assaggiare, quando si era trovato davanti il Mérico che sparecchiava i tavoli. Per l'emozione, Pellegrino aveva spezzato la matita che teneva in mano e poi era rimasto immobile, incapace di qualsiasi reazione. Il Mérico se n’era andato, senza dare segno di averlo riconosciuto.
– Chi è quell’uomo? – aveva chiesto all’oste, cercando di mantenere il controllo di sé. – Mi sembra di averlo già visto ma non ricordo dove.
– Eh, sono arrivati qualche anno fa, tre fratelli – aveva risposto l’uomo, versandogli un amaro. – Poi due si sono imbarcati e lui è rimasto qui. È un buon lavoratore, anche se ha la testa di un bambino. Pensi, alla sera non ricorda nemmeno quello che ha mangiato a pranzo. –
– Allora forse mi sono sbagliato. Buonanotte. – Ed era uscito.
Ora Pellegrino è preda di una folle agitazione, vaga senza meta sulle banchine ormai deserte. I suoi passi lo riportano sempre vicino alla locanda ormai chiusa, come una falena che non può fare a meno di gettarsi nel fuoco. Il sangue gli pulsa alle tempie, non riesce a fermare i pensieri.
Denunciare il Mérico, ora che nessuno pensa più al Passatore? Il nome di Geltrude verrebbe fuori, sarebbe gettato nel fango… No. Non posso dirlo a nessuno. Diomio, diomio cosa faccio?
Una voce lo blocca. – Signore… aiuto.
Una figura accasciata a terra. Un uomo, dall’odore sembra abbia appena vomitato. – Signore… aiuto. Sto male…
È lui.
Improvvisamente, ha la mente lucida. Sa cosa deve fare, con una chiarezza mai provata. Si guarda intorno: nessuno. Si china verso il Mérico, lo fissa negli occhi ebeti. – Sai chi sono? – gli chiede.
– Il signore dell’osteria. Mi aiuti. – biascica. Pellegrino insiste. – Guardami bene. Chi sono? – Lo prende per il bavero, lo solleva appena. – A Forlimpopoli. Ti ricordi?
– Aiuto, signore. Il colera...
Pellegrino lo fa rotolare giù dalla banchina. L’acqua nera del porto si chiude sul Mérico per sempre.

Firenze, 31 marzo 1911
– Marietta… sei tu? – sussurra Pellegrino. Marietta, che si era addormentata al suo capezzale, si riscuote. – Sì, signore. Come sta?
Pellegrino parla a scatti, con un filo di voce e lunghe pause: – Credo che il mio tempo sia venuto.
Marietta vorrebbe trattenere le lacrime. Non ci riesce.
– Non piangere, amica mia. Sono vecchio, ma ho vissuto bene e abbastanza da vedere quel mio taccuino, nato quando l’Italia non esisteva, nella dispensa di tutte le massaie del Paese. Sono contento.
– Signore, vedrà che domani andrà meglio – dice, ma le sue stesse lacrime la smentiscono.
– No… ascolta. Le mie memorie, quelle che tu hai letto, con dentro la mia povera sorella, Livorno, il Mérico… fanne ciò che vuoi. Mi fido di te.
Marietta prova a parlare, un groppo in gola glielo impedisce. Riprova. – Sì, signore.
– Geltrude mi aspetta. La incontrerò fra poco, non c’è cosa che io desideri di più…
Marietta attende altre parole, ma Pellegrino Artusi non parlerà mai più.
Lei si asciuga gli occhi, si alza e prende il quaderno con le sue memorie dal cassetto dello scrittoio. Strappa molte pagine, e tutte quelle del delitto di Livorno.
– Certe cose è meglio dimenticarle, signore. Non me ne voglia. –
Gli sfiora la fronte con un bacio. – Buonanotte, signore.

valter_carignano
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Re: Semifinale gruppo Tarenzi

Messaggio#4 » venerdì 1 luglio 2016, 0:03

come al solito ho fatto un casino... il primo racconto sfora, ho sbagliato a copia/incollarlo. L'ho ripostato in tempo ma non ho potuto cancellare il primo.

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Re: Semifinale gruppo Tarenzi

Messaggio#5 » venerdì 1 luglio 2016, 0:27

Noto con piacere che i racconti sono stati modificati, quindi questi tre giorni vi sono serviti. Ora la palla è in mano allo SPONSOR del vostro girone.

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Re: Semifinale gruppo Tarenzi

Messaggio#6 » sabato 9 luglio 2016, 21:33

Prima di tutto vorrei complimentarmi con entrambi perché Luca Tarenzi è rimasto colpito positivamente dalla qualità di entrambi i racconti e per noi di Minuti Contati questo è un gran risultato.

Ecco i suoi commenti e la micro classifica:

1. REN IL CUCINIERE
Sarà perché io sono del 1976 e con Ken ci sono cresciuto, sarà perché il racconto è scritto con una impeccabile padronanza dei tempi comici, sarà per le azzeccatissime citazioni, ma questa storiella mi ha fatto davvero rotolare sulla sedia. Qualche frase qua e là avrebbe bisogno di un po' di editing, ma non è nulla di tragico, e in ogni caso passa ampiamente in secondo piano rispetto sia all'idea di base che al simpaticissimo modo in cui è sviluppata. Sul serio, un raccontino quasi geniale.


2. L'ARTE DI MANGIAR BENE
È senz'altro un racconto molto ben scritto, e l'idea di usare Artusi come protagonista mi ha davvero colpito. Non conscevo l'episodio storico in questione (ora mi sono documentato), ma l'atmosfera dell'epoca è resa in maniera efficace. Non ho nulla da obiettare alla stesura del racconto in sé, ma nel complesso mi è sembrata una storia un po' fredda, priva di colpi di scena o anche solo di un crescendo narrativo in vista del finale.

valter_carignano
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Re: Semifinale gruppo Tarenzi

Messaggio#7 » sabato 9 luglio 2016, 21:43

Grazie alla guest e onore al vincitore! :-)

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