Monsieur Armand di Fernando Nappo
Inviato: martedì 21 giugno 2016, 21:49
Monsieur Armand
di Fernando Nappo
Sébastien si risvegliò infastidito da un insistente pizzicore alla pianta dei piedi. Se li strofinò per allontanare il prurito e si girò su un fianco, trascinandosi dietro le coperte.
Nel buio della stanza, un fruscio: spalancò gli occhi e drizzò le orecchie.
— Ben svegliato, mio giovane amico — disse una voce.
Sébastien sentì rizzarsi ogni pelo del corpo. Scattò a sedere e, spingendo mani e piedi, si raggomitolò in un angolo del letto, tirandosi le coperte fino al mento.
— Chi c’è? — chiese, gli occhi sgranati a scrutare il buio. Nessuna risposta. Forse, si disse, era solamente l’eco di un sogno troppo vivido. Circospetto, e oramai troppo sveglio per continuare a dormire, allungò una mano verso l’abat-jour e accese la luce.
Ai piedi del letto c’era un uomo. Era vestito in maniera distinta, elegante, benché il completo che indossava, Sébastien avrebbe giurato fosse un vecchio frac, aveva visto giorni migliori. Portava un cappello a cilindro e guanti bianchi. Avesse avuto monocolo e mantello sarebbe stato una buona copia dell’Arsenio Lupin impersonato da Georges Descrières. Appoggiato al bastone da passeggio, l’uomo lo fissava con occhi sereni e un sorriso discreto.
Sébastien cominciò a gridargli contro frasi come — Chi è lei? — e — Come ha fatto a entrare? — e — Cosa vuole da me?
— Una cosa alla volta, mio impaziente amico — rispose l’uomo. — Dalle mie parti, sono conosciuto come Monsieur Armand. E sono qui perché desidero che tu mi segua. Vorrei mostrarti alcune cose.
Ignorando la voce calda di Monsieur Armand e il suo eloquio affabile, Sébastien spense la luce, contò fino a dieci e la riaccese, convinto che l’uomo sarebbe svanito, riassorbito dalla sua mente con gli ultimi effluvi del sogno da cui certo proveniva; ma si sbagliava. Monsieur Armand era ancora lì, in piedi, e pareva piuttosto divertito.
— È ora di andare — disse Monsieur Armand.
— Io non la seguo in nessun posto — rispose Sébastien, risoluto. — Domani ho un importante appuntamento di lavoro, devo svegliarmi presto! Se ne deve andare!
— So di domani, dove andrai, chi incontrerai. Sono qui proprio per questo.
— Come può...
Monsieur Armand picchiettò un paio di volte il bastone da passeggio: l’aria tremò, i contorni delle cose si fecero prima incerti, poi sempre più labili, infine la camera di Sébastien svanì.
Sébastien si guardò attorno, frastornato. — Cosa è successo? Dove siamo?
— Ci siamo semplicemente spostati — rispose Monsieur Armand.
Erano seduti a un tavolino in un locale affollato. Attraverso una vetrata s’intravvedeva la sagoma della Tour Eiffel illuminata. Tutto però pareva leggermente fuori fuoco: i contorni degli oggetti, i volti delle persone, persino il fumo che aleggiava nel locale. Nulla di tutto questo può essere reale. Non ci si può spostare così, e nei locali è vietato fumare da anni. È di sicuro un sogno.
— Ehi! — disse Sébastien guardandosi. — Sono vestito!
Monsieur Armand lo guardò perplesso, un sopracciglio alzato. — È naturale. A meno che tu non preferisca andare in giro in pigiama.
— Allora, dove siamo, eh? Dove mi ha portato?
Monsieur Armand emise un sospiro che trasmetteva tutta la sua frustrazione. — Nessuno capisce mai al primo colpo. O, almeno, finora non è mai successo.
— Almeno può dirmi che ci siamo venuti a fare?
Monsieur Armand indicò col bastone un uomo al bancone del bar. Aveva circa quarant’anni ed era l’unica persona la cui immagine era perfettamente a fuoco in tutto il locale.
L’uomo tracannò d’un fiato un bicchiere di liquore e lo abbandonò di fianco a una pila di bicchieri vuoti. Appoggiò il capo sul bancone e rimase così per qualche istante. Poi si riprese e chiamò il cameriere per ordinare un altro giro.
— Lei sa perché beve così tanto? — chiese Sébastien. — Problemi di cuore? O forse gli è morto il gatto? — Ridacchiò.
— Problemi. Questo è certo — rispose Monsieur Armand.
— Potremmo fermarlo. Chiamare qualcuno che lo venga a prendere...
— Siamo semplici spettatori, qui — disse Monsieur Armand, scuotendo il capo. — Noi siamo invisibili a chi abita questa realtà. Loro non possono udire le nostre parole né percepire un nostro tocco.
— Proprio come in un sogno, vero? — chiese Sébastien, rendendosi immediatamente conto che stava chiedendo a quello che credeva un miraggio di confermare d’essere reale o meno.
— Nemmeno per... sogno, se mi concedi il calembour.
— Allora, cos’è davvero questo posto? Una visione? Uno squarcio sul futuro?
— Io non mostro né il futuro né il passato. Io mostro evenienze.
— Perciò questa è sempre la terra dei giorni nostri?
— Sì. E no. Questa è una terra eventuale, una delle infinite che esistono, come ogni altra legata a una decisione, una scelta di qualcuno o di qualcun altro. Niente più che una diramazione tra le innumerevoli che si possono percorrere. Una evenienza, appunto.
— Tutti questi discorsi mi fanno scoppiare la testa. Che cosa ne dice di una birrettina?
Monsieur Armand ridacchiò sommessamente. Picchiettò il bastone e di nuovo l’aria ebbe un fremito.
— Niente birra, quindi?
Il locale svanì.
Erano all’aperto, su un ponte e stava piovendo. Sébastien riconobbe il ponte ferroviario della metrò di Austerlitz.
Si toccò gli abiti. — Ehi! I vestiti non si bagnano!
— Come dicevo, non c’è interazione tra noi e le realtà eventuali — replicò Monsieur Armand.
I due camminarono per alcuni minuti sui binari, in silenzio. O perlomeno, Monsieur Armand desiderava stare in silenzio. Quanto a Sébastien avrebbe voluto tempestarlo di domande, ma quando aprì bocca il suo compagno gli fece cenno di tacere. — Parleremo a tempo debito.
A un certo punto, Sébastien vide qualcosa sui binari. Aguzzò la vista. — C’è un tipo laggiù, steso sui binari — disse, mascherando appena una certa apprensione.
— Hai visto di chi si tratta? — chiese Monsieur Armand.
Era l’uomo del locale.
— Ancora lui? Ma gli va sempre tutto storto?
— Al momento, amico mio, a quest’uomo sono preclusi i percorsi verso eventualità migliori, purtroppo per lui.
Il tremolio dei binari attirò l’attenzione di Sébastien. — Il treno! Dobbiamo fare qualcosa...
— Lo stiamo già facendo... — disse Monsieur Armand.
Ignorandolo, Sébastien si mise a correre verso l’uomo gridandogli di alzarsi, di togliersi di lì, di muoversi che non c’era tempo... L’uomo venne investito dal treno.
Sébastien si lasciò cadere sul camminamento di fianco ai binari, mentre il convoglio sfrecciava via.
Monsieur Armand lo raggiunse poco dopo e gli appoggiò una mano su una spalla. — Mi dispiace.
Sébastien si rialzò, scuro in volto. — Voglio tornare a casa.
Monsieur Armand prese un lungo respiro e, per quella volta, evitò l’espediente puramente scenografico col bastone da passeggio: l’aria intorno a loro tremò.
Si ritrovarono in una stanza d’ospedale.
— Ti chiedo solo un altro po’ di pazienza. Questa è la nostra ultima tappa — disse Monsieur Armand, indicando l’uomo disteso sul letto. Era intubato e un paio di flebo erano appese al suo capezzale.
— Sta morendo?
— Morirà domattina alle undici e ventidue precise.
Sébastien guardò Monsieur Armand. — Credevo non conoscesse il futuro.
— Nel caso specifico, ogni eventualità percorribile porta a questa triste soluzione.
— Sto iniziando a pensare di avere un ruolo in tutto questo.
— Vedo che cominci a capire.
Per l’ultima volta, quella sera, l’aria intorno a loro ebbe un fremito.
Sébastien entrò nella sala riunioni della Mercier-Laroux SAS alle nove e trenta in punto. Al tavolo erano seduti il Sig. Mercier in persona e un uomo sulla quarantina. Sébastien riconobbe immediatamente il disgraziato della notte passata. Era lui, ne era certo, ed era evidentemente a disagio, come se desiderasse essere altrove.
— Allora, Sig. Morel — lo apostrofò Mercier — possiamo cominciare o vuole rimanere in piedi a fissare il mio segretario?
Sébastien guardò il Sig. Mercier, poi, ignorando la sua richiesta, si rivolse all’uomo. — Mi scusi se mi permetto, ma... per caso suo padre è in ospedale?
L’uomo fissò Sébastien con evidente stupore. — Come fa a saperlo?
— Dovrebbe andare da lui — disse, guardando l’orologio.
— Sig. Morel, non spetta a lei preoccuparsi di questo genere di questioni. Questi sono affari che riguardano me e il mio personale.
Sébastien si voltò verso Mercier. — Non avrà alcuna delle informazioni per cui ha pagato se non lo lascerà andare al capezzale del padre. — Appoggiò la ventiquattrore e incrociò le braccia, in segno di sfida.
Sébastien era a letto da almeno un’ora, ma non faceva che rigirarsi, incapace di prendere sonno. Un fruscio nella stanza. — Monsieur Armand? — chiese.
— Hai fatto una gran cosa, oggi — disse Monsieur Armand. — Un vecchio è morto col conforto di suo figlio accanto. Un bene per entrambi.
Sébastien si allungò verso l’abat-jour e accese la luce. — Sarà, ma questa buona azione mi è costata il posto di lavoro. Anche se, per inciso, sono contento di averlo fatto. E poi, quel lavoro non faceva per me. Finanza, bleah!
Monsieur Armand rimase in silenzio.
— Davvero quell’uomo sarebbe arrivato a tanto per il rimorso di non aver assistito suo padre sino alla fine?
— Ci sono cose che possono risultare devastanti, per alcuni animi. Ne ho viste le conseguenze su mio figlio. Un progetto di lavoro, poi mai realizzato, l’ha allontanato da me proprio quando... — Tossicchiò, imbarazzato. — Comunque sia, da quando ne ho la facoltà, faccio di tutto per evitare che lo stesso accada ad altri.
Non sapendo come commentare, Sébastien si limitò a dire: — Grazie.
— Una spiegazione te la dovevo, per quanto mi è concesso dire.
— Posso fare una domanda? — chiese Sébastien. — Come può fare... quello che fa?
Ma l’aria intorno prese a vibrare mentre l’immagine di Monsieur Armand si faceva via via più evanescente. A Sébastien parve di sentirgli dire qualcosa come: — Quando sarà il momento, saprai.
Ma non avrebbe potuto giurarlo.
Addio, Monsieur Armand.
Spense la luce e si infilò sotto le coperte, nonostante fosse certo che quella notte, e forse qualcuna a seguire, non sarebbe riuscito a dormire granché.
di Fernando Nappo
Sébastien si risvegliò infastidito da un insistente pizzicore alla pianta dei piedi. Se li strofinò per allontanare il prurito e si girò su un fianco, trascinandosi dietro le coperte.
Nel buio della stanza, un fruscio: spalancò gli occhi e drizzò le orecchie.
— Ben svegliato, mio giovane amico — disse una voce.
Sébastien sentì rizzarsi ogni pelo del corpo. Scattò a sedere e, spingendo mani e piedi, si raggomitolò in un angolo del letto, tirandosi le coperte fino al mento.
— Chi c’è? — chiese, gli occhi sgranati a scrutare il buio. Nessuna risposta. Forse, si disse, era solamente l’eco di un sogno troppo vivido. Circospetto, e oramai troppo sveglio per continuare a dormire, allungò una mano verso l’abat-jour e accese la luce.
Ai piedi del letto c’era un uomo. Era vestito in maniera distinta, elegante, benché il completo che indossava, Sébastien avrebbe giurato fosse un vecchio frac, aveva visto giorni migliori. Portava un cappello a cilindro e guanti bianchi. Avesse avuto monocolo e mantello sarebbe stato una buona copia dell’Arsenio Lupin impersonato da Georges Descrières. Appoggiato al bastone da passeggio, l’uomo lo fissava con occhi sereni e un sorriso discreto.
Sébastien cominciò a gridargli contro frasi come — Chi è lei? — e — Come ha fatto a entrare? — e — Cosa vuole da me?
— Una cosa alla volta, mio impaziente amico — rispose l’uomo. — Dalle mie parti, sono conosciuto come Monsieur Armand. E sono qui perché desidero che tu mi segua. Vorrei mostrarti alcune cose.
Ignorando la voce calda di Monsieur Armand e il suo eloquio affabile, Sébastien spense la luce, contò fino a dieci e la riaccese, convinto che l’uomo sarebbe svanito, riassorbito dalla sua mente con gli ultimi effluvi del sogno da cui certo proveniva; ma si sbagliava. Monsieur Armand era ancora lì, in piedi, e pareva piuttosto divertito.
— È ora di andare — disse Monsieur Armand.
— Io non la seguo in nessun posto — rispose Sébastien, risoluto. — Domani ho un importante appuntamento di lavoro, devo svegliarmi presto! Se ne deve andare!
— So di domani, dove andrai, chi incontrerai. Sono qui proprio per questo.
— Come può...
Monsieur Armand picchiettò un paio di volte il bastone da passeggio: l’aria tremò, i contorni delle cose si fecero prima incerti, poi sempre più labili, infine la camera di Sébastien svanì.
Sébastien si guardò attorno, frastornato. — Cosa è successo? Dove siamo?
— Ci siamo semplicemente spostati — rispose Monsieur Armand.
Erano seduti a un tavolino in un locale affollato. Attraverso una vetrata s’intravvedeva la sagoma della Tour Eiffel illuminata. Tutto però pareva leggermente fuori fuoco: i contorni degli oggetti, i volti delle persone, persino il fumo che aleggiava nel locale. Nulla di tutto questo può essere reale. Non ci si può spostare così, e nei locali è vietato fumare da anni. È di sicuro un sogno.
— Ehi! — disse Sébastien guardandosi. — Sono vestito!
Monsieur Armand lo guardò perplesso, un sopracciglio alzato. — È naturale. A meno che tu non preferisca andare in giro in pigiama.
— Allora, dove siamo, eh? Dove mi ha portato?
Monsieur Armand emise un sospiro che trasmetteva tutta la sua frustrazione. — Nessuno capisce mai al primo colpo. O, almeno, finora non è mai successo.
— Almeno può dirmi che ci siamo venuti a fare?
Monsieur Armand indicò col bastone un uomo al bancone del bar. Aveva circa quarant’anni ed era l’unica persona la cui immagine era perfettamente a fuoco in tutto il locale.
L’uomo tracannò d’un fiato un bicchiere di liquore e lo abbandonò di fianco a una pila di bicchieri vuoti. Appoggiò il capo sul bancone e rimase così per qualche istante. Poi si riprese e chiamò il cameriere per ordinare un altro giro.
— Lei sa perché beve così tanto? — chiese Sébastien. — Problemi di cuore? O forse gli è morto il gatto? — Ridacchiò.
— Problemi. Questo è certo — rispose Monsieur Armand.
— Potremmo fermarlo. Chiamare qualcuno che lo venga a prendere...
— Siamo semplici spettatori, qui — disse Monsieur Armand, scuotendo il capo. — Noi siamo invisibili a chi abita questa realtà. Loro non possono udire le nostre parole né percepire un nostro tocco.
— Proprio come in un sogno, vero? — chiese Sébastien, rendendosi immediatamente conto che stava chiedendo a quello che credeva un miraggio di confermare d’essere reale o meno.
— Nemmeno per... sogno, se mi concedi il calembour.
— Allora, cos’è davvero questo posto? Una visione? Uno squarcio sul futuro?
— Io non mostro né il futuro né il passato. Io mostro evenienze.
— Perciò questa è sempre la terra dei giorni nostri?
— Sì. E no. Questa è una terra eventuale, una delle infinite che esistono, come ogni altra legata a una decisione, una scelta di qualcuno o di qualcun altro. Niente più che una diramazione tra le innumerevoli che si possono percorrere. Una evenienza, appunto.
— Tutti questi discorsi mi fanno scoppiare la testa. Che cosa ne dice di una birrettina?
Monsieur Armand ridacchiò sommessamente. Picchiettò il bastone e di nuovo l’aria ebbe un fremito.
— Niente birra, quindi?
Il locale svanì.
Erano all’aperto, su un ponte e stava piovendo. Sébastien riconobbe il ponte ferroviario della metrò di Austerlitz.
Si toccò gli abiti. — Ehi! I vestiti non si bagnano!
— Come dicevo, non c’è interazione tra noi e le realtà eventuali — replicò Monsieur Armand.
I due camminarono per alcuni minuti sui binari, in silenzio. O perlomeno, Monsieur Armand desiderava stare in silenzio. Quanto a Sébastien avrebbe voluto tempestarlo di domande, ma quando aprì bocca il suo compagno gli fece cenno di tacere. — Parleremo a tempo debito.
A un certo punto, Sébastien vide qualcosa sui binari. Aguzzò la vista. — C’è un tipo laggiù, steso sui binari — disse, mascherando appena una certa apprensione.
— Hai visto di chi si tratta? — chiese Monsieur Armand.
Era l’uomo del locale.
— Ancora lui? Ma gli va sempre tutto storto?
— Al momento, amico mio, a quest’uomo sono preclusi i percorsi verso eventualità migliori, purtroppo per lui.
Il tremolio dei binari attirò l’attenzione di Sébastien. — Il treno! Dobbiamo fare qualcosa...
— Lo stiamo già facendo... — disse Monsieur Armand.
Ignorandolo, Sébastien si mise a correre verso l’uomo gridandogli di alzarsi, di togliersi di lì, di muoversi che non c’era tempo... L’uomo venne investito dal treno.
Sébastien si lasciò cadere sul camminamento di fianco ai binari, mentre il convoglio sfrecciava via.
Monsieur Armand lo raggiunse poco dopo e gli appoggiò una mano su una spalla. — Mi dispiace.
Sébastien si rialzò, scuro in volto. — Voglio tornare a casa.
Monsieur Armand prese un lungo respiro e, per quella volta, evitò l’espediente puramente scenografico col bastone da passeggio: l’aria intorno a loro tremò.
Si ritrovarono in una stanza d’ospedale.
— Ti chiedo solo un altro po’ di pazienza. Questa è la nostra ultima tappa — disse Monsieur Armand, indicando l’uomo disteso sul letto. Era intubato e un paio di flebo erano appese al suo capezzale.
— Sta morendo?
— Morirà domattina alle undici e ventidue precise.
Sébastien guardò Monsieur Armand. — Credevo non conoscesse il futuro.
— Nel caso specifico, ogni eventualità percorribile porta a questa triste soluzione.
— Sto iniziando a pensare di avere un ruolo in tutto questo.
— Vedo che cominci a capire.
Per l’ultima volta, quella sera, l’aria intorno a loro ebbe un fremito.
Sébastien entrò nella sala riunioni della Mercier-Laroux SAS alle nove e trenta in punto. Al tavolo erano seduti il Sig. Mercier in persona e un uomo sulla quarantina. Sébastien riconobbe immediatamente il disgraziato della notte passata. Era lui, ne era certo, ed era evidentemente a disagio, come se desiderasse essere altrove.
— Allora, Sig. Morel — lo apostrofò Mercier — possiamo cominciare o vuole rimanere in piedi a fissare il mio segretario?
Sébastien guardò il Sig. Mercier, poi, ignorando la sua richiesta, si rivolse all’uomo. — Mi scusi se mi permetto, ma... per caso suo padre è in ospedale?
L’uomo fissò Sébastien con evidente stupore. — Come fa a saperlo?
— Dovrebbe andare da lui — disse, guardando l’orologio.
— Sig. Morel, non spetta a lei preoccuparsi di questo genere di questioni. Questi sono affari che riguardano me e il mio personale.
Sébastien si voltò verso Mercier. — Non avrà alcuna delle informazioni per cui ha pagato se non lo lascerà andare al capezzale del padre. — Appoggiò la ventiquattrore e incrociò le braccia, in segno di sfida.
Sébastien era a letto da almeno un’ora, ma non faceva che rigirarsi, incapace di prendere sonno. Un fruscio nella stanza. — Monsieur Armand? — chiese.
— Hai fatto una gran cosa, oggi — disse Monsieur Armand. — Un vecchio è morto col conforto di suo figlio accanto. Un bene per entrambi.
Sébastien si allungò verso l’abat-jour e accese la luce. — Sarà, ma questa buona azione mi è costata il posto di lavoro. Anche se, per inciso, sono contento di averlo fatto. E poi, quel lavoro non faceva per me. Finanza, bleah!
Monsieur Armand rimase in silenzio.
— Davvero quell’uomo sarebbe arrivato a tanto per il rimorso di non aver assistito suo padre sino alla fine?
— Ci sono cose che possono risultare devastanti, per alcuni animi. Ne ho viste le conseguenze su mio figlio. Un progetto di lavoro, poi mai realizzato, l’ha allontanato da me proprio quando... — Tossicchiò, imbarazzato. — Comunque sia, da quando ne ho la facoltà, faccio di tutto per evitare che lo stesso accada ad altri.
Non sapendo come commentare, Sébastien si limitò a dire: — Grazie.
— Una spiegazione te la dovevo, per quanto mi è concesso dire.
— Posso fare una domanda? — chiese Sébastien. — Come può fare... quello che fa?
Ma l’aria intorno prese a vibrare mentre l’immagine di Monsieur Armand si faceva via via più evanescente. A Sébastien parve di sentirgli dire qualcosa come: — Quando sarà il momento, saprai.
Ma non avrebbe potuto giurarlo.
Addio, Monsieur Armand.
Spense la luce e si infilò sotto le coperte, nonostante fosse certo che quella notte, e forse qualcuna a seguire, non sarebbe riuscito a dormire granché.