Della vita e della morte (ex novo) -2862-
Inviato: venerdì 1 luglio 2016, 12:14
Il sole è alto nel cielo, i raggi mi colpiscono il viso. Una brezza che porta con sé l’odore salmastro del mare, mi accarezza le guance.
Mi sporgo dal parapetto della terrazza, il vicolo qui sotto è deserto.
Le lacrime si raccolgono sul mento, una goccia cade sul pavimento di cemento e si mescola a una macchia di unto.
Ho toccato il fondo, non ne posso più di tutta questa sofferenza: sono solo.
Dopo la tua morte, mamma, quel bastardo di mio padre ha pensato bene di andarsene via di casa, con una nuova donna; ci ha abbandonato. Lo so che l’avresti perdonato ma io, no, non ci riesco.
Asciugo una lacrima col dorso della mano, alzo la gamba e la faccio passare oltre l’inferriata del parapetto.
Il corpo è scosso da un tremore, le mani stringono il metallo gelido del corrimano. Sollevo l’altra gamba e l’appoggio sull’orlo del balcone.
Solo il vuoto mi separa dal marciapiede, su cui sono disposti dei bidoni, colmi fino all’orlo di immondizia. Dal basso sale un olezzo di marciume.
Voglio liberarmi di tutti questi problemi, non riesco più a reggere il peso di questa vita così monotona. Non importa a nessuno dei miei sentimenti.
Sono sempre stato lo sfigato della scuola, non cambierà mai.
Come quel dannato pomeriggio d’inverno di cinque mesi fa: non voleva smetterla di nevicare e un vento gelido faceva tremare i vetri delle finestre della palestra.
Avevo corso molto e mi ero davvero impegnato, ma non ero riuscito a salvare neanche una palla.
“Ehi verme! “ Manuel troneggiava su di me con un ghigno stampato in volto. “Abbiamo perso a causa tua, non la passerai liscia, questa volta la paghi!”
A capo chino, mi sono trascinato fino allo spogliatoio ma i miei vestiti non c’erano, spariti. Manuel li aveva gettati dalla finestra.
Ho stretto i pugni e, in silenzio, ho attraversato il corridoio che mi separava dal cortile, sotto lo sguardo disgustato dei compagni di classe. Le loro risate riecheggiano ancora nella mia testa.
Scusa se non te l’ho raccontato ma, quando stavi venendo divorata dalla malattia, non volevo stessi in pena anche per me.
Da quando sei morta, non ho desiderato nient’altro che raggiungerti, niente mi trattiene più in questo mondo.
Devo farlo, devo trovare il coraggio.
Il cuore batte all’impazzata, lo stomaco è contratto in uno spasmo.
Allungo un piede oltre il bordo. Sto tremando.
Perché ho paura? Che cosa ho da perdere? Ora potrò raggiungerti, mamma, saremo di nuovo assieme.
Tre.. due.. uno.. chiudo gli occhi e spicco un salto nel vuoto.
Il corpo non risponde, il buio mi avvolge.
Spalanco gli occhi, la vista è annebbiata.
“Mamma? Dove mi trovo?” allungo la mano verso la luce di una lampada. La pelle è grigiastra e ci sono dei segni di sutura all’altezza delle nocche.
“Eri un vero disastro, ho fatto una fatica a rattopparti.” un uomo dai capelli neri si china su di me, con una lente mi osserva la pupilla. I suoi capelli sudici mi sfiorano il viso.
“Cosa è successo?” poggio i gomiti contro il tavolo su cui sono sdraiato e faccio forza per alzarmi, ma le membra sono rattrappite.
“Ti ho salvato.” alza le spalle.
“Non voglio essere salvato!” sbatto il pugno contro il legno del tavolo. “Lasciami morire in pace!”
“Mi spiace.” si gratta la barbetta che gli ricopre il mento. “Ma, tecnicamente, tu sei già morto.”
“Cosa?” sgrano gli occhi. “Sono all’inferno?”
Scuote la testa e arriccia l’angolo della bocca in un sorriso sbilenco. “Mi spiace davvero, ma il tuo suicidio non è andato a buon fine.” i suoi occhi neri luccicano. “Ho riportato il tuo corpo in vita. Ora sei un fottuto zombie, al mio servizio.” scoppia in una risata che riecheggia nella stanza.
E così, non sono nemmeno libero di crepare in pace. Se la vita non è appartenuta, speravo lo fosse almeno la morte, ma ora? Cosa mi rimane?
Mi sporgo dal parapetto della terrazza, il vicolo qui sotto è deserto.
Le lacrime si raccolgono sul mento, una goccia cade sul pavimento di cemento e si mescola a una macchia di unto.
Ho toccato il fondo, non ne posso più di tutta questa sofferenza: sono solo.
Dopo la tua morte, mamma, quel bastardo di mio padre ha pensato bene di andarsene via di casa, con una nuova donna; ci ha abbandonato. Lo so che l’avresti perdonato ma io, no, non ci riesco.
Asciugo una lacrima col dorso della mano, alzo la gamba e la faccio passare oltre l’inferriata del parapetto.
Il corpo è scosso da un tremore, le mani stringono il metallo gelido del corrimano. Sollevo l’altra gamba e l’appoggio sull’orlo del balcone.
Solo il vuoto mi separa dal marciapiede, su cui sono disposti dei bidoni, colmi fino all’orlo di immondizia. Dal basso sale un olezzo di marciume.
Voglio liberarmi di tutti questi problemi, non riesco più a reggere il peso di questa vita così monotona. Non importa a nessuno dei miei sentimenti.
Sono sempre stato lo sfigato della scuola, non cambierà mai.
Come quel dannato pomeriggio d’inverno di cinque mesi fa: non voleva smetterla di nevicare e un vento gelido faceva tremare i vetri delle finestre della palestra.
Avevo corso molto e mi ero davvero impegnato, ma non ero riuscito a salvare neanche una palla.
“Ehi verme! “ Manuel troneggiava su di me con un ghigno stampato in volto. “Abbiamo perso a causa tua, non la passerai liscia, questa volta la paghi!”
A capo chino, mi sono trascinato fino allo spogliatoio ma i miei vestiti non c’erano, spariti. Manuel li aveva gettati dalla finestra.
Ho stretto i pugni e, in silenzio, ho attraversato il corridoio che mi separava dal cortile, sotto lo sguardo disgustato dei compagni di classe. Le loro risate riecheggiano ancora nella mia testa.
Scusa se non te l’ho raccontato ma, quando stavi venendo divorata dalla malattia, non volevo stessi in pena anche per me.
Da quando sei morta, non ho desiderato nient’altro che raggiungerti, niente mi trattiene più in questo mondo.
Devo farlo, devo trovare il coraggio.
Il cuore batte all’impazzata, lo stomaco è contratto in uno spasmo.
Allungo un piede oltre il bordo. Sto tremando.
Perché ho paura? Che cosa ho da perdere? Ora potrò raggiungerti, mamma, saremo di nuovo assieme.
Tre.. due.. uno.. chiudo gli occhi e spicco un salto nel vuoto.
Il corpo non risponde, il buio mi avvolge.
Spalanco gli occhi, la vista è annebbiata.
“Mamma? Dove mi trovo?” allungo la mano verso la luce di una lampada. La pelle è grigiastra e ci sono dei segni di sutura all’altezza delle nocche.
“Eri un vero disastro, ho fatto una fatica a rattopparti.” un uomo dai capelli neri si china su di me, con una lente mi osserva la pupilla. I suoi capelli sudici mi sfiorano il viso.
“Cosa è successo?” poggio i gomiti contro il tavolo su cui sono sdraiato e faccio forza per alzarmi, ma le membra sono rattrappite.
“Ti ho salvato.” alza le spalle.
“Non voglio essere salvato!” sbatto il pugno contro il legno del tavolo. “Lasciami morire in pace!”
“Mi spiace.” si gratta la barbetta che gli ricopre il mento. “Ma, tecnicamente, tu sei già morto.”
“Cosa?” sgrano gli occhi. “Sono all’inferno?”
Scuote la testa e arriccia l’angolo della bocca in un sorriso sbilenco. “Mi spiace davvero, ma il tuo suicidio non è andato a buon fine.” i suoi occhi neri luccicano. “Ho riportato il tuo corpo in vita. Ora sei un fottuto zombie, al mio servizio.” scoppia in una risata che riecheggia nella stanza.
E così, non sono nemmeno libero di crepare in pace. Se la vita non è appartenuta, speravo lo fosse almeno la morte, ma ora? Cosa mi rimane?