Piazza A. (4929)
Inviato: lunedì 11 luglio 2016, 23:55
Certo, camminare in una città che si conosce appena ha sempre un certo fascino, farlo di notte ancora di più.
Sono arrivato a Genova oggi pomeriggio, dopo un viaggio in treno in dodici stazioni, praticamente una Via Crucis.
Partenza all’una di notte con ricovero di fortuna in uno scompartimento che vita ne ha vista già troppa.
L’immagine che mi arriva dai miei compagni di viaggio è un collage sfocato, sembra la Guernica di Picasso, ma più confuso.
Sembra che ci siano troppi piedi rispetto alle teste che riesco a scorgere, l’aria è malata di fumo, di caldo e di qualche pietanza al sacco. Pane. Prosciutto. Sottiletta.
Rifletto sul fatto che in treno tutto pare abbia lo stesso sapore, tutto viene vestito dello stesso odore di pelle sintetica, di acqua sintetica, del ferro delle rotaie e del grasso che riveste i raccordi tra le carrozze.
Mentre un treno sfreccia accanto al mio in direzione opposta, mi faccio largo tra i corpi, sperando di non svegliarli troppo.
Mi inserisco nell’unico spazio libero dello scompartimento; mi sento un mattoncino del Tetris, tipo la “L”.
Sonno. Ho troppo sonno. Palpebre pesanti. Ossa rotte.
Game over. Magari.
Troppo sonno per dormire. E ancora nella testa l'eco del saluto della Bea
- Torni a Genova?
- Sì, devo. mi hanno chiamato per un colloquio
- E poi?
- E poi non lo so, quella città di piace... e la odio. Ho ancora gli incubi, sai?
- Anche io.
Cerco di muovermi in silenzio, apro il mio zainetto e cerco il mio walkman.
Se il sonno non arriva tanto vale ascoltare quel tanto di musica sufficiente per anestetizzare i pensieri.
Metto la cassetta – Tik. Tlank. – srotolo le cuffie e accendo.
Qualcuno dei miei nuovi compagni di viaggio non apprezza la mia idea e borbotta qualcosa che mi persuade a non fare altro rumore:
”Ebba-sta!! Vogliamo dormire”
Aggiungendo, con un accento che sa di sole, dove potrebbe infilarmi la mia radiolina.
Io comprendo. E spengo. Sono insonne, mica coglione.
Per addormentarmi, rassegnato al rinvio dell’ascolto del disco nuovo di Daniele Silvestri, passo all’auto suggestione tramite sillogismo: è notte, la gente di notte dorme, io sono gente, quindi devo dormire.
E dormo.
Non sogno. non riposo. Passa la notte ed un pezzo di giorno.
Il caldo entra dal finestrino. Qualche chiacchiera con i miei compagni di viaggio.
Stanno tornando a casa.
Arrivare a Genova il 14 agosto è un'esperienza simile a quella che hanno fatto gli astronauti all’arrivo “On the Moon”. Il 2002 come il 1969.
Caldo che l’asfalto sembra un cuscino, all’orizzonte non si vedono auto, solo qualche “Fata Morgana”. Promessa di acqua che resta troppo lontana.
Arrivo in ostello – non ho dimenticato dove fosse - butto via lo zaino.
Una doccia e mi butto sul letto, è caldo ed io leggo, scrivo qualcosa sulla mia Moleskine prima che mi assalgano i ricordi.
‘Certo, camminare in una città che non si conosce… no, che si conosce appena’
Girovagherò più tardi, complice la notte.
Il mio walkman, che grazie alla tempestività nel chiuderlo dimostrata in viaggio non è diventato membro aggiunto del mio apparato digerente, è pronto per tenermi compagna in questa esplorazione notturna.
Genova di notte è ancora più deserta che di giorno. Ancora più bella.
Le sole persone che la scorrono sono i timorati padri di famiglia che, con le mogli in vacanza, mantengono l’allenamento, confidando nei saldi da marciapiede.
A me basta Silvestri per tenermi compagnia, la musica, le parole, sono il mio mezzo di trasporto in questa città chiusa per ferie.
Genova. Libera.
Sapermi solo - nessuno per strada, solo lampioni e pipistrelli - mi fa agitare come il ballerino di “salirò”.
E canto, e rido.
Sono un tarantolato che passeggia alla ricerca di una pizza.
Salirò. Salirò.
Tra le rose di questo giardino.
Il silenzio tra una canzone e l’altra mi porta in un deja-vù.
La piazza dove sono è vuota, a riempirla ci pensa Il Mio Nemico, la canzone che le sembra cucita addosso.
Come un sudario.
Sono in Piazza Alimonda.
Il solo posto al mondo in cui non sarei mai tornato. Ci sono finito come fosse un buco nero.
Le immagini, i ricordi che mi investono mi strappano da qui e mi portano indietro, mi portano ad uno stupro trasmesso nei sedicinoni di un televisore, all’odore di sangue sulle strade.
Alla paura. Alla guerra.
Al rumore di quello sparo.
Finché sei in tempo tira
e non sbagliare mira
probabilmente il bersaglio che vedi
è solo l'abbaglio di chi da dietro spera
che tu ci provi ancora
perché poi gira e rigira gli serve solo una scusa
Ripenso a quei giorni.
All'illusione che, come diceva Keating?, parole ed idee possono cambiare il mondo.
I tamburi, la musica. Il caldo e la gente. Io e Beatrice. Il mio blocchetto, la sua macchina fotografica.
Tanta gente. Persone da tutto il mondo.
Poi fuoco, urla. Sangue.
E poi ancora e sangue e urla e paura.
Perdo Beatrice, era finita a Bolzaneto, all'inferno.
Io folle. Stordito dalle botte.
Grido.
STAMPA! STAMPA!
Non serve. Ancora botte. Sento gli spari.
Poi buio.
Il mio nemico mi somiglia è come me
Lui ama la famiglia
E per questo piglia più di ciò che da
E non sbaglierà
Ma se sbaglia un altro pagherà
E il potere non lo logora
Il potere non lo logora
Non distinguo sudore e lacrime e mi accorgo di essere lontano da quella piazza maledetta solo quando vedo il mare color mercurio in cui la luna fa il bagno.
Lascio le mie cose in spiaggia.
Mi tuffo e inizio a nuotare avanti e dietro come fuggissi dallo squalo di Spielberg.
Il mostro che ho alle spalle, nello stomaco. è molto peggio.
Nuoto.
Respira. Soffia. Respira. Soffia.
Ogni bracciata è uno schiaffo.
Gli occhi bruciano ma non è il sale.
Brucia la gola.
Bruciano i polmoni.
Bruciano i ricordi.
L’inferno è ancora nei ricordi di questa città.
Pazzo io a voler tornare.
Ci sono posti dove la Morte rimane a lungo, e dai quali non sei mai troppo lontano.
Ci sono posti che, quando pensi di aver chiuso con loro, ti accorgi che sono loro che non hanno ancora chiuso con te.
La "salvia splendens" luccica, copre un'aiuola triangolare,
viaggia il traffico solito scorrendo rapido e irregolare.
Dal bar caffè e grappini, verde un'edicola vende la vita.
Resta, amara e indelebile, la traccia aperta di una ferita.
Sono arrivato a Genova oggi pomeriggio, dopo un viaggio in treno in dodici stazioni, praticamente una Via Crucis.
Partenza all’una di notte con ricovero di fortuna in uno scompartimento che vita ne ha vista già troppa.
L’immagine che mi arriva dai miei compagni di viaggio è un collage sfocato, sembra la Guernica di Picasso, ma più confuso.
Sembra che ci siano troppi piedi rispetto alle teste che riesco a scorgere, l’aria è malata di fumo, di caldo e di qualche pietanza al sacco. Pane. Prosciutto. Sottiletta.
Rifletto sul fatto che in treno tutto pare abbia lo stesso sapore, tutto viene vestito dello stesso odore di pelle sintetica, di acqua sintetica, del ferro delle rotaie e del grasso che riveste i raccordi tra le carrozze.
Mentre un treno sfreccia accanto al mio in direzione opposta, mi faccio largo tra i corpi, sperando di non svegliarli troppo.
Mi inserisco nell’unico spazio libero dello scompartimento; mi sento un mattoncino del Tetris, tipo la “L”.
Sonno. Ho troppo sonno. Palpebre pesanti. Ossa rotte.
Game over. Magari.
Troppo sonno per dormire. E ancora nella testa l'eco del saluto della Bea
- Torni a Genova?
- Sì, devo. mi hanno chiamato per un colloquio
- E poi?
- E poi non lo so, quella città di piace... e la odio. Ho ancora gli incubi, sai?
- Anche io.
Cerco di muovermi in silenzio, apro il mio zainetto e cerco il mio walkman.
Se il sonno non arriva tanto vale ascoltare quel tanto di musica sufficiente per anestetizzare i pensieri.
Metto la cassetta – Tik. Tlank. – srotolo le cuffie e accendo.
Qualcuno dei miei nuovi compagni di viaggio non apprezza la mia idea e borbotta qualcosa che mi persuade a non fare altro rumore:
”Ebba-sta!! Vogliamo dormire”
Aggiungendo, con un accento che sa di sole, dove potrebbe infilarmi la mia radiolina.
Io comprendo. E spengo. Sono insonne, mica coglione.
Per addormentarmi, rassegnato al rinvio dell’ascolto del disco nuovo di Daniele Silvestri, passo all’auto suggestione tramite sillogismo: è notte, la gente di notte dorme, io sono gente, quindi devo dormire.
E dormo.
Non sogno. non riposo. Passa la notte ed un pezzo di giorno.
Il caldo entra dal finestrino. Qualche chiacchiera con i miei compagni di viaggio.
Stanno tornando a casa.
Arrivare a Genova il 14 agosto è un'esperienza simile a quella che hanno fatto gli astronauti all’arrivo “On the Moon”. Il 2002 come il 1969.
Caldo che l’asfalto sembra un cuscino, all’orizzonte non si vedono auto, solo qualche “Fata Morgana”. Promessa di acqua che resta troppo lontana.
Arrivo in ostello – non ho dimenticato dove fosse - butto via lo zaino.
Una doccia e mi butto sul letto, è caldo ed io leggo, scrivo qualcosa sulla mia Moleskine prima che mi assalgano i ricordi.
‘Certo, camminare in una città che non si conosce… no, che si conosce appena’
Girovagherò più tardi, complice la notte.
Il mio walkman, che grazie alla tempestività nel chiuderlo dimostrata in viaggio non è diventato membro aggiunto del mio apparato digerente, è pronto per tenermi compagna in questa esplorazione notturna.
Genova di notte è ancora più deserta che di giorno. Ancora più bella.
Le sole persone che la scorrono sono i timorati padri di famiglia che, con le mogli in vacanza, mantengono l’allenamento, confidando nei saldi da marciapiede.
A me basta Silvestri per tenermi compagnia, la musica, le parole, sono il mio mezzo di trasporto in questa città chiusa per ferie.
Genova. Libera.
Sapermi solo - nessuno per strada, solo lampioni e pipistrelli - mi fa agitare come il ballerino di “salirò”.
E canto, e rido.
Sono un tarantolato che passeggia alla ricerca di una pizza.
Salirò. Salirò.
Tra le rose di questo giardino.
Il silenzio tra una canzone e l’altra mi porta in un deja-vù.
La piazza dove sono è vuota, a riempirla ci pensa Il Mio Nemico, la canzone che le sembra cucita addosso.
Come un sudario.
Sono in Piazza Alimonda.
Il solo posto al mondo in cui non sarei mai tornato. Ci sono finito come fosse un buco nero.
Le immagini, i ricordi che mi investono mi strappano da qui e mi portano indietro, mi portano ad uno stupro trasmesso nei sedicinoni di un televisore, all’odore di sangue sulle strade.
Alla paura. Alla guerra.
Al rumore di quello sparo.
Finché sei in tempo tira
e non sbagliare mira
probabilmente il bersaglio che vedi
è solo l'abbaglio di chi da dietro spera
che tu ci provi ancora
perché poi gira e rigira gli serve solo una scusa
Ripenso a quei giorni.
All'illusione che, come diceva Keating?, parole ed idee possono cambiare il mondo.
I tamburi, la musica. Il caldo e la gente. Io e Beatrice. Il mio blocchetto, la sua macchina fotografica.
Tanta gente. Persone da tutto il mondo.
Poi fuoco, urla. Sangue.
E poi ancora e sangue e urla e paura.
Perdo Beatrice, era finita a Bolzaneto, all'inferno.
Io folle. Stordito dalle botte.
Grido.
STAMPA! STAMPA!
Non serve. Ancora botte. Sento gli spari.
Poi buio.
Il mio nemico mi somiglia è come me
Lui ama la famiglia
E per questo piglia più di ciò che da
E non sbaglierà
Ma se sbaglia un altro pagherà
E il potere non lo logora
Il potere non lo logora
Non distinguo sudore e lacrime e mi accorgo di essere lontano da quella piazza maledetta solo quando vedo il mare color mercurio in cui la luna fa il bagno.
Lascio le mie cose in spiaggia.
Mi tuffo e inizio a nuotare avanti e dietro come fuggissi dallo squalo di Spielberg.
Il mostro che ho alle spalle, nello stomaco. è molto peggio.
Nuoto.
Respira. Soffia. Respira. Soffia.
Ogni bracciata è uno schiaffo.
Gli occhi bruciano ma non è il sale.
Brucia la gola.
Bruciano i polmoni.
Bruciano i ricordi.
L’inferno è ancora nei ricordi di questa città.
Pazzo io a voler tornare.
Ci sono posti dove la Morte rimane a lungo, e dai quali non sei mai troppo lontano.
Ci sono posti che, quando pensi di aver chiuso con loro, ti accorgi che sono loro che non hanno ancora chiuso con te.
La "salvia splendens" luccica, copre un'aiuola triangolare,
viaggia il traffico solito scorrendo rapido e irregolare.
Dal bar caffè e grappini, verde un'edicola vende la vita.
Resta, amara e indelebile, la traccia aperta di una ferita.