Il mondo che cresce [ex novo] di Jacopo Berti (4600)
Inviato: lunedì 8 agosto 2016, 12:11
Il mondo che cresce
Conoscere i nomi di tutte quelle piante, le loro flessibili o inflessibili geometrie, le loro sfumature di colori e odori gli dava un senso di pace e di sicurezza. Erano nomi che nessun altro sapeva: lui stesso li aveva stabiliti, adeguandoli per quanto possibile alla variegata vita vegetale che prosperava su Dawkins. Aveva la sensazione di averli appiccicati come post-it su una superficie troppo ruvida: presto se ne sarebbe andato, ed essi sarebbero caduti uno ad uno, senza rumore, prima ancora che il mite inverno afelico strappasse via le foglie decidue.
Dawkins era uno dei rari casi di “pianeta botanico”. Non c’erano animali superiori veri e propri, autonomi. Tutte le forme di vita che si erano evolute lo avevano fatto all’ombra della vita vegetale: tutte erano ibridi o simbionti, spesso specie-specifici. C’era il Pinoides arborescens e l’Apis pinicola var. arborescens. C’era la Ledeburia megalocristata e il suo specifico verme. Il Platanus nucifera var. tarsiis e il relativo tarsio che ne portava lontano le grosse capsule e le rompeva per suggerne il succo, liberandone così i semi.
Per tutti questi animali, gli alberi e le piante erano cibo, rifugio, alcova.
E un po’, Enrico, botanico lui stesso, riusciva a immaginare questa vita botanica, a trovarla sensata.
Il tempo che si trascorre colle piante è fatto di silenzi corrisposti, di cure amorevoli e secrete cure, di disperata vulnerabilità. Voluttà d’acqua e di sole, bellezza estatica, immobile o ghermita dal vento, modellata da milioni di primavere estati autunni inverni.
In effetti, Enrico, viveva perpetuamente uno strano rapimento, come quello che si prova quando ci si risveglia nel pomeriggio, si respira una volta, si guarda il cielo, le case, gli alberi color pastello e si pensa “c’è il sole”. Prima di rendersi conto di chi si è, di cosa si debba fare e che in fondo si è soli a questo mondo.
Quale mondo? Ormai il suo mondo era questo, Dawkins. Della sua vita precedente – poteva chiamarla così? – ricordava sempre meno. La sua memoria era sbiadita; era come se appartenesse a qualcun altro. Persino i ricordi più recenti erano stranianti e confusi. Aveva provato la solitudine, l’ingombrante angosciosa presenza di noi stessi aggravata dall’assenza degli altri: com’era stato possibile? Poco a poco si era avvicinato a Clarissa, la genetista della squadra: il suo compito era modificare le specie che si fossero rivelate utili – utili? – dotandole di una variabilità che consentisse loro di essere portate su un altro pianeta con un minimo di accorgimenti, di quelli soliti: resistenza al caldo o al freddo, alle radiazioni, alla stasi temporale necessaria al viaggio iper-luce. Il lavoro congiunto di evoluzione casuale e di finalità umana era il binomio perfetto. La progettazione di una specie ex novo non era ancora nelle possibilità degli esseri umani perché richiedeva una capacità di calcolo ancora ineguagliata: erano necessari un pianeta e un ecosistema; e le centinaia di migliaia, se non i milioni di anni erano le unità di computazione minime per produrre da zero una forma di vita, per affinarne la morfologia e i meccanismi regolatori. L’uomo, però, era in grado di cogliere queste potenzialità, di sfruttarle appieno, di forzare la sopravvivenza anziché di conseguirla attraverso innumerevoli tentativi.
A tutto ciò Enrico non pensava quando aveva preso Clarissa per mano e insieme erano corsi a piedi nudi sul muschio, inseguendo un vento ebbro, fino ad arrivare ad una Quercus nutrix, la più grande che avessero mai visto. Nei recessi delle sue radici, in un talamo naturale, la tiepida carne dell’albero aveva avvolto i loro corpi intrecciati e frementi, aveva accolto i loro pensieri, serbandoli come il più grande dei tesori.
Ricordi: erano suoi? Perché ricordava Clarissa ora come amante ora come madre? Se voleva rimanere su Dawkins, cosa lo spingeva invece ad andarsene in tutta fretta, ad accorrere all’astronave che si stava preparando a partire? Nudo, con una manciata di semi stretti nel pugno, Enrico si precipitava al portellone che aveva cominciato a chiudersi. Altri lo seguivano. E un altro Enrico, da dentro, lo guardava incredulo. Enrico capiva e non capiva quella paura, così come capiva e non capiva il senso delle sue parole.
«Ce ne sono a decine, simili a me o a Clarissa, o a McGregor o alla Dimitrova. Vengono verso di noi, vogliono appropriarsi della nave. Tentiamo un decollo di emergenza, ma non so per quanto ancora riusciremo a respingerli».
Sì, la descrizione corrispondeva al vero. Ma cosa c’era di male? Per quale assurda ragione stavano ostacolando il mondo che cresce?
Conoscere i nomi di tutte quelle piante, le loro flessibili o inflessibili geometrie, le loro sfumature di colori e odori gli dava un senso di pace e di sicurezza. Erano nomi che nessun altro sapeva: lui stesso li aveva stabiliti, adeguandoli per quanto possibile alla variegata vita vegetale che prosperava su Dawkins. Aveva la sensazione di averli appiccicati come post-it su una superficie troppo ruvida: presto se ne sarebbe andato, ed essi sarebbero caduti uno ad uno, senza rumore, prima ancora che il mite inverno afelico strappasse via le foglie decidue.
Dawkins era uno dei rari casi di “pianeta botanico”. Non c’erano animali superiori veri e propri, autonomi. Tutte le forme di vita che si erano evolute lo avevano fatto all’ombra della vita vegetale: tutte erano ibridi o simbionti, spesso specie-specifici. C’era il Pinoides arborescens e l’Apis pinicola var. arborescens. C’era la Ledeburia megalocristata e il suo specifico verme. Il Platanus nucifera var. tarsiis e il relativo tarsio che ne portava lontano le grosse capsule e le rompeva per suggerne il succo, liberandone così i semi.
Per tutti questi animali, gli alberi e le piante erano cibo, rifugio, alcova.
E un po’, Enrico, botanico lui stesso, riusciva a immaginare questa vita botanica, a trovarla sensata.
Il tempo che si trascorre colle piante è fatto di silenzi corrisposti, di cure amorevoli e secrete cure, di disperata vulnerabilità. Voluttà d’acqua e di sole, bellezza estatica, immobile o ghermita dal vento, modellata da milioni di primavere estati autunni inverni.
In effetti, Enrico, viveva perpetuamente uno strano rapimento, come quello che si prova quando ci si risveglia nel pomeriggio, si respira una volta, si guarda il cielo, le case, gli alberi color pastello e si pensa “c’è il sole”. Prima di rendersi conto di chi si è, di cosa si debba fare e che in fondo si è soli a questo mondo.
Quale mondo? Ormai il suo mondo era questo, Dawkins. Della sua vita precedente – poteva chiamarla così? – ricordava sempre meno. La sua memoria era sbiadita; era come se appartenesse a qualcun altro. Persino i ricordi più recenti erano stranianti e confusi. Aveva provato la solitudine, l’ingombrante angosciosa presenza di noi stessi aggravata dall’assenza degli altri: com’era stato possibile? Poco a poco si era avvicinato a Clarissa, la genetista della squadra: il suo compito era modificare le specie che si fossero rivelate utili – utili? – dotandole di una variabilità che consentisse loro di essere portate su un altro pianeta con un minimo di accorgimenti, di quelli soliti: resistenza al caldo o al freddo, alle radiazioni, alla stasi temporale necessaria al viaggio iper-luce. Il lavoro congiunto di evoluzione casuale e di finalità umana era il binomio perfetto. La progettazione di una specie ex novo non era ancora nelle possibilità degli esseri umani perché richiedeva una capacità di calcolo ancora ineguagliata: erano necessari un pianeta e un ecosistema; e le centinaia di migliaia, se non i milioni di anni erano le unità di computazione minime per produrre da zero una forma di vita, per affinarne la morfologia e i meccanismi regolatori. L’uomo, però, era in grado di cogliere queste potenzialità, di sfruttarle appieno, di forzare la sopravvivenza anziché di conseguirla attraverso innumerevoli tentativi.
A tutto ciò Enrico non pensava quando aveva preso Clarissa per mano e insieme erano corsi a piedi nudi sul muschio, inseguendo un vento ebbro, fino ad arrivare ad una Quercus nutrix, la più grande che avessero mai visto. Nei recessi delle sue radici, in un talamo naturale, la tiepida carne dell’albero aveva avvolto i loro corpi intrecciati e frementi, aveva accolto i loro pensieri, serbandoli come il più grande dei tesori.
Ricordi: erano suoi? Perché ricordava Clarissa ora come amante ora come madre? Se voleva rimanere su Dawkins, cosa lo spingeva invece ad andarsene in tutta fretta, ad accorrere all’astronave che si stava preparando a partire? Nudo, con una manciata di semi stretti nel pugno, Enrico si precipitava al portellone che aveva cominciato a chiudersi. Altri lo seguivano. E un altro Enrico, da dentro, lo guardava incredulo. Enrico capiva e non capiva quella paura, così come capiva e non capiva il senso delle sue parole.
«Ce ne sono a decine, simili a me o a Clarissa, o a McGregor o alla Dimitrova. Vengono verso di noi, vogliono appropriarsi della nave. Tentiamo un decollo di emergenza, ma non so per quanto ancora riusciremo a respingerli».
Sì, la descrizione corrispondeva al vero. Ma cosa c’era di male? Per quale assurda ragione stavano ostacolando il mondo che cresce?