Semifinale gruppo Laura Platamone

Scrivi un racconto sul Tema deciso dai BOSS Eleonora Rossetti e Luigi De Meo.
Sfida gli altri concorrenti e supera il giudizio degli SPONSOR Vincenzo Maisto e Laura Platamone.
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Spartaco
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Semifinale gruppo Laura Platamone

Messaggio#1 » mercoledì 2 novembre 2016, 21:42

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Eccoci alla seconda parte de La Sfida a Damnation.
In risposta a questa discussione, gli autori semifinalisti del girone Platamone, hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR del loro girone un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi, Francesco Nucera e Nicola Gambadoro, possono sfruttare i due giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: venerdì 4 novembre alle 23:59
Limite battute: 21.313

Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 4 novembre. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione, state sicuri che il vostro avversario starà già pensando a come migliorarsi!



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ceranu
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Re: Semifinale gruppo Laura Platamone

Messaggio#2 » giovedì 3 novembre 2016, 16:30

CSI all'italiana


«Miro, non ti ho portato qui per questo!» Giorgia afferrò la mano dell'amico e la spostò dal suo ginocchio.
«Dici di no da più di un anno, eppure negli ultimi mesi mi hai riempito di foto e ora eccomi con te per Natale. Senza contare che mi hai presentato a tuo padre come un: “amico speciale”.» Miro ammiccò e sporse in avanti le labbra. Sapeva da sempre che lei lo voleva con tutta sé stessa.
«Ho le mie ragioni, ma ti ho invitato perché mi hai detto che sei solo e che a Natale fai brutti pensieri.» La ragazza sbuffò e si alzò dal letto.
«Anche il gattino lo porti a casa per compassione, ma dopo poco non riesci a farne a meno!»
«Alle volte non so se lo fai o ci sei?»
«Irresistibile? Lo sono!»
«Lascia perdere… Piuttosto, come ti sei trovato?»
Miro si mise a sedere più comodo sul materasso e sollevò le spalle. «Non male, la servitù mi è sembrata competente e il cibo era buono…» Portò la mano alla tasca, estrasse il piccolo portachiavi luminol e lo puntò sulle lenzuola. «E anche la biancheria è pulita!» disse, annuendo.
«No, tu non sei vero… Non ti ho chiesto una recensione alla Trip Advisor. Io voglio sapere se hai avuto ancora i brutti pensieri. Sai, in università mi hai raccontato delle tue disgrazie natalizie e non vorrei…»
«Ah, quelle.» Miro si mordicchiò il labbro, imbarazzato. «Nooo, voi mi avete fatto sentire della famiglia; i tuoi genitori e tua nonna sono stati calorosi.» Pensò che forse ci aveva messo troppa enfasi, ma non era facile restare sempre nella parte del povero orfanello. Allungò ancora la mano libera e provò ad afferrare quella di lei che gli sfuggì.
«Sono contenta, anche se la mia famiglia è tutto tranne che calorosa. Ma capisco che per te possa essere già qualcosa.» Giorgia si abbassò, gli diede un bacio sulla fronte e fu lesta ad evitare il nuovo assalto di Miro che provò a intercettarle le labbra con le sue.
«È arrivato il momento di andare a dormire. Sarà l'alcool, ma sei più molesto del solito.»
«Sono astemio!»
«Peggio. Buona notte!» Questa volta Giorgia si limitò a dargli una pacca sulla spalla e a schivare la mano che voleva afferrarle il polso.
Contrariato, Miro la osservò andare verso la porta; sussultò quando la vide fermarsi.
«Ci hai ripensato, passi la notte con me?»
«No, volevo solo ricordarti che quella che chiami servitù ha smontato. In casa rimane solo Fatma, la cameriera, ma non disturbarla. Se hai bisogno di qualcosa puoi andare in cucina al piano di sotto.»
Miro sorrise e le mandò un bacio volante. «Sarai tu ad avere bisogno di ghiaccio per sbollire.» Afferrò l'orlo basso della maglietta e se la sfilò in un movimento dalle intenzioni sensuali. Con orgoglio, mostrò un ammasso di ossa coperto dalla pelle bianchiccia. Gonfiò la cassa toracica e sorrise; ne era certo, a quelle come Giorgia non piacevano i tipi muscolosi.
«Sei gentilissimo, ma l'unica voglia che mi è venuta ora è quella di andare a fare una donazione per i bambini del terzo mondo. Buonanotte!» Giorgia uscì sbattendo la porta.
Miro portò la mano al mento e lo strofinò: prima o poi lei avrebbe ceduto alle sue avance. Sbuffò e si gettò sul materasso. Afferrò lo smartphone e si mise a guardare una vecchia puntata di CSI.

Miro spalancò la bocca e sbadigliò, si stava annoiando. Nonostante fossero le tre del mattino non aveva sonno. Il cellulare emise un doppio beep e perse di luminosità.
Si alzò e andò a frugare nella borsa. Trovò calzini, mutande e i preservativi, ma non quello che cercava. Una morsa alla gola gli fece infiammare le guance: niente caricabatterie.
Inspirò fino a sentire i polmoni premere contro le costole, trattenne il fiato ed espirò lentamente. Non doveva farsi prendere dal panico.
«Tranquillo, Giorgia ne avrà uno.» si disse.
Uscì in corridoio e sbirciò in direzione della stanza di lei, ma non riuscì a vedere oltre il cono di luce che arrivava dalle sue spalle. La casa era immersa nel buio e nel silenzio. Sfiorò il muro con il palmo della mano e accese la luce. L'arredamento del primo piano della villa era essenziale: sui muri color mattone c'era solo una foto di Basty, il maltese del padre di Giorgia, e in fondo al corridoio un piccolo mobiletto su cui c'era appoggiato un router.
Avanzò piano e raggiunse la porta accanto alla sua. Poggiò l'orecchio sul legno e sentì il rumore delle molle del letto di Giorgia. La poveretta doveva essere in preda agli incubi, o più facilmente al rimorso per non essere rimasta in stanza con lui.
Afferrò la maniglia e l'abbassò piano, ma il cigolio che produsse echeggiò nella casa come fosse quello di un tram sui binari. Qualcosa all'interno della stanza piombò sul pavimento e dei passi si avvicinarono di corsa. Miro infilò la testa nello spiraglio che si era aperto, ma un ombra gli si parò davanti e lo spinse fuori. La porta si richiuse sbattendo.
«Giorgia…» chiamò, sottovoce. «Ho bisogno di te!»
L'amica riaprì e tirò fuori la testa. Era scompigliata e rossa in volto. Quella breve corsa doveva averla affaticata più del dovuto. «Che cavolo vuoi?» chiese, più scontrosa del solito.
«Hai mica un caricabatterie?»
«Ho quello dell'Iphon.»
«E che me ne faccio?»
«Oh cavolo, e che ne so io. Vai giù in cucina, Fatma, la cameriera, lì ne tiene uno di scorta.» Giorgia si ritirò e gli sbatté la porta in faccia.
Miro non aveva la minima idea di dove fosse la cucina. Del primo piano aveva visto solo l'ingresso e il salone in cui avevano cenato. Chiuse il pugno per bussare, ma il rumore della chiave che girava nella toppa gli fece capire che la discussione era finita.

La cucina era in fondo a un corridoio che partiva dal salone. Prima di trovarla era entrato in due bagni di servizio, una dispensa e uno sgabuzzino. Un tempo Giorgia gli aveva detto di essere ricca, ma lui non l'aveva presa così alla lettera; pensava che la ragazza si stesse pavoneggiando per fare colpo su di lui, invece diceva la verità.
Nonostante la cucina ricordasse quelle che aveva visto nei programmi in cui si sfidavano i cuochi, non ci mise tanto a trovare il caricabatterie. Lo afferrò e controllò lo spinotto, per fortuna era quello giusto. Lo infilò in tasca e allungò la mano per scostare la tendina di una finestra. Guardò fuori e vide grossi fiocchi di neve che scendevano leggeri e si poggiavano su uno strato bianco che aveva già coperto la ghiaia attorno alla villa. Sorrise allegro, si prospettava un bel Natale. Fece per ritirare la mano, ma con la coda dell'occhio percepì un movimento alla sua destra. Si sporse e intravide una figura maschile che si infilava sotto un portico. Corse alla porta che dava all'esterno e provò ad aprirla, ma era chiusa. Tornò alla finestra e l'aprì. Un beep l'avvisò che aveva innestato l'antifurto. Prontamente, la richiuse e schiacciò la faccia contro il vetro, ma non c'era più nessuno.
Si bloccò a riflettere, era quasi certo di aver visto un uomo vestito di nero. Si voltò e corse in direzione del salone. Se aveva visto bene, l'uomo stava andando verso l'ingresso principale.
Raggiunse la porta che dava sull'atrio e si bloccò di colpo: doveva fare attenzione, poteva esserci qualcuno. Mosse piano la maniglia e sbirciò attraverso lo spiraglio che si aprì. Illuminato dalla luce esterna, un uomo era in piedi davanti all'ingresso.
Miro si abbassò per vederlo in faccia. Purtroppo la luce spenta e un Ficus Benjamina gli permisero di distinguere solo il soprabito scuro.
Facendo attenzione a non far rumore, aprì la porta e sgattaiolò nell'atrio: la pianta non gli permetteva di vedere, ma almeno lo proteggeva.
Si schiacciò al suolo e gattonò fino al muro della scala che portava al piano di sopra. Si mise sulle ginocchia e, rasente alla parete, si avvicinò. Oltre all'uomo doveva esserci una donna, ne sentì la voce, ma i due erano troppo distanti per poter capire cosa si stessero dicendo.
La luce dell'atrio si accese. L'intruso corse dall'altra parte rispetto al salone.
«E poi non lamentarti se scelgo segretarie intraprendenti!» Il padre di Giorgia si era messo a gridare dalla cima delle scale.
«Certo che hai un bel coraggio, bussi alla mia porta una volta l'anno e pretendi da me i giochetti che fanno le tue troie!» Miro riconobbe la voce di Carla, la moglie.
«Saranno anche troie, ma mi costano meno di te!»
«Mi fai schifo!»
«Certo, ma spendere unmilionetrecentomila euro all'anno non ti fa schifo!»
«Sei una merda!» All'ultima affermazione seguì il rumore di uno schiaffo e quello di passi che scendevano di corsa le scale.
Miro si guardò attorno, doveva nascondersi, ma la porta più vicina era a una decina di metri. Camminò rapidamente verso un filodendro e strappò tre foglie. Se ne infilò una in bocca e con le altre due provò a nascondere il corpo; trattenne il respiro e attese.
Il papà di Giorgia arrivò in fondo alle scale e, per la gioia di Miro, girò dalla parte in cui era scomparso lo sconosciuto.
Miro, rimasto immobile per più di mezz'ora, si fece coraggio e, rasente al muro, raggiunse l'inizio delle scale, si appiattì sui gradini e salì usando gomiti e ginocchia. Non gli interessava più scoprire chi fosse l'intruso, doveva raggiungere il suo letto e concentrarsi su Giorgia. Ora lo sapeva: quella povera ragazza, così bella e dolce, gli stava resistendo solo perché non voleva soffrire come sua madre.

Miro portò la mano a protezione degli occhi, qualcuno doveva aver acceso la luce. Mugugnò e si girò nel letto. Le lenzuola erano più soffici di quelle che aveva a casa, gli carezzavano la pelle in un abbraccio profumato. Sprofondò nel cuscino e decise che non era ancora arrivato il momento di alzarsi. Lo smartphone sul comodino vibrò. Miro sbuffò infastidito, evidentemente il fato non era d'accordo con lui. Allungò la mano, afferrò il cellulare e fece scorrere il pollice sullo schermo. Digitò il pin e cercò di mettere a fuoco; le lettere si sovrapponevano formando un codice incomprensibile. L'unica certezza era che a scrivergli era stata la madre. Chiuse gli occhi, nel tentativo di recuperare la vista, ma le palpebre divennero pesanti. Le forze lo abbandonarono e l'idea di rimettersi a dormire tornò prepotentemente.
Un tonfo lo riscosse. Miro scattò in piedi e calpestò lo smartphone. Si era addormentato e quello gli era sfuggito dalle mani. Si chinò, lo raccolse, e controllò che non si fosse rotto. Sul monitor ricomparve il messaggio del buongiorno della madre, che si lamentava perché quell'anno non avrebbero passato il Natale insieme.
Digitò una risposta veloce e si mise a sedere sul letto. Gli dispiaceva trattare così i suoi genitori, ma ormai il danno l'aveva fatto: Giorgia era convinto che lui fosse orfano e la cosa sembrava giocare a suo favore.
Sbuffò e andò alla finestra, gli piaceva quando la neve diventava uno strato immacolato e il sole gli si rifletteva sopra. Lo spettacolo che vide non lo deluse: il bosco che circondava la casa, le auto nel parcheggio dell'aia davanti all'ingresso, l'unica strada che portava al cancello esterno, tutto riposava sotto uno strato di neve di trenta centimetri. Qua e là c'era il segno dello zampettare degli uccelli, ma non un'impronta umana.
Allegro, saltellò fino alla porta e la spalancò pronto a urlare il buongiorno ma, quando fu nel corridoio, il vociare sommesso e i singhiozzi che provenivano dal piano di sotto lo bloccarono. Era successo qualcosa.
Immediatamente, gli tornò alla mente lo sconosciuto che aveva intravisto. Corse fino alla camera di Giorgia, ma era vuota. Il cuore mancò un colpo, la gola si serrò e gli occhi si gonfiarono di lacrime. Se le fosse capitato qualcosa non se lo sarebbe mai perdonato.
A lunghe falcate, arrivò alla scala; dall'alto scorse Giorgia, sua madre e sua nonna in piedi davanti al corridoio in cui si doveva essere infilato il padre la notte. Miro sentì il cuore ripartire. La sua amica era in lacrime, ma stava bene.
Fece gli scalini due a due e raggiunse le donne di casa.
Giorgia lo guardò negli occhi, allargò le braccia e gli si gettò addosso. «Papà è morto…» piagnucolò.
Miro guardò in faccia le altre due donne, che annuirono e abbassarono lo sguardo a terra.
«Ma com'è possibile?»
«Il cuore… papà aveva problemi al cuore.»
Lasciò che Giorgia si sfogasse, ma la sua mente era già impegnata a elaborare gli indizi che aveva accumulato in meno di un giorno. Su due piedi, l'omicidio aveva almeno due sospettati.
Un fremito gli percorse il corpo, non era tristezza, ma eccitazione. Con quella neve la polizia ci avrebbe messo un'eternità a raggiungere la villa. Doveva muoversi a risolvere il caso.

Miro arrivò davanti alla porta dello studio dell'ingegner Bruni, il padre di Giorgia, e appoggiò a terra la borsa che si portava dietro ogni volta che lasciava la città. Se in quel momento ci fossero stati i suoi amici gli avrebbe fatto rimangiare tutti gli insulti che aveva dovuto ingoiare negli anni. Lo chiamavano stupido, e sostenevano che a nessuno serviva un kit simile a quello della scientifica, ma loro erano piccole persone che si sarebbero fatte trovare impreparate in una situazione simile.
Era emozionato, non aveva mai visto un cadavere dal vivo. Inspirò e poggiò la mano sulla maniglia.
Si morse il labbro ed entrò. Il cadavere era riverso a terra, i pantaloni alle ginocchia, il volto cianotico schiacciato contro il pavimento e un rivolo di vomito attorno alla bocca. Nella stanza c'era un odore acido che colpì Miro allo stomaco; dovette lottare per non rimettere.
Poggiò la valigia a terra, l'aprì, estrasse la torcia al luminol e l'accese. Per la camera aveva usato quella portatile che usava come portachiavi, ma in quel momento era sul luogo del delitto, doveva fare le cose bene.
Il fascio di luce divenne azzurro in corrispondenza della cena elaborata e rigettata dall'apparato digerente dell'ingegner Bruni. Non era un grande indizio, poteva starci che ci fosse del sangue nel vomito. Direzionò la torcia in corrispondenza del pene e rimase di sasso. L'unica traccia di liquido organico era una chiazza allungata formata da diverse linee parallele. Sembrava che qualcuno avesse cercato di cancellare le prove.
«Che ci fai qui?» una voce maschile lo colse di sorpresa. Si voltò nel momento in cui la stanza si illuminava. Un uomo, sul metro e novanta con indosso un soprabito nero, entrò.
Miro spense la torcia e barcollò all'indietro: sapeva chi era. «Sono un poliziotto!» mentì. Portò la mano al portafogli e lo estrasse mostrando un distintivo della Polizia di Stato. Era uno dei pochi lasciti di suo zio, ma l'uomo che aveva davanti non poteva saperlo.
«Bene, sei un collega.»
«Lo sarò quando mi farai vedere il tuo» rispose Miro, certo di smascherarlo. Il caso era già risolto. Quell'uomo aveva fatto irruzione nella notte e aveva ucciso l'ingegner Bruni.
«Hai ragione. In certi casi è meglio non fidarsi.»
Miro, vedendo comparire un distintivo simile al suo, strabuzzò gli occhi. Quello che aveva davanti era un poliziotto, o almeno, lo era quanto lui.
«Come avrai notato le cause della morte sembrano ovvie. Il soggetto è deceduto mentre si masturbava.»
Miro sorrise. «Sei nuovo? Perché anch'io avrei fatto il tuo stesso errore, ma vedi, caro collega, qualcuno ha cercato di cancellare le prove.» Riaccese la torcia e la puntò sulla macchia. «Magari qualcuno che mente sulla sua identità.»
L'uomo scosse la testa. «E sarei io?»
«Dimmelo tu, quando sei arrivato?»
«Un'oretta fa. La centrale ha mandato me perché abito qui vicino.»
«Quindi prima che io mi svegliassi. Strano, perché nel parcheggio non ci sono macchine arrivate da poco e nel vialetto non ci sono segni di scarpe. Sembra quasi che tu sia qui da prima di quanto sostieni.»
L'uomo sbiancò e allargò il colletto della camicia. «Diciamo che…»
«Diciamo che tu sei l'amante della signora Bruni e hai ucciso il marito!»
«Collega, con calma, stanotte io stavo facendo altro.»
«E certo, tu entri in casa loro in piena notte, ti intrufoli nel letto della moglie del morto e io dovrei pensare che sia tutta una coincidenza.»
«Un attimo, che hai capito. Io non ero con sua moglie.»
Improvvisamente la scena della notte tornò alla mente di Miro. Il poliziotto non poteva essere l'amante della mamma di Giorgia; lui era in compagnia di un'altra donna mentre i coniugi litigavano. Ma allora con chi era? Ricordò la sua amica che gli apriva affannata, non poteva essere vero, lei non poteva farsela con quel tipo. E in effetti non poteva; l'aveva incontrata prima dell'ingresso in casa del poliziotto. Quindi rimanevano solo la cameriera, che però difficilmente avrebbe ospitato un estraneo, e… La conclusione fu ancora più agghiacciante: «Te la fai con la vecchia?» esclamò, rimanendo bloccato sull'ultima vocale.
Il poliziotto annuì. «Io e Michela ci amiamo!»
«Ma potrebbe essere tua nonna!»
«Non puoi capire.»
«Finalmente hai detto una cosa intelligente.»
Miro tornò ad osservare la stanza. A parte la sedia ribaltata, era tutto in ordine. L'unico oggetto fuori luogo era il barattolo della Nutella.
Ripensò al litigio tra i coniugi, al riferimento a quel giochetto che l'uomo aveva chiesto alla moglie. Si chinò, raccolse dei guanti dalla valigia e li infilò. «Andiamo a smascherare il colpevole» disse al poliziotto.

Nel salone, in cui la sera prima si erano riuniti a cena, riunì quello che rimaneva della famiglia Bruni.
Michela Viani, la vecchia matriarca non che madre del defunto, era seduta su una vecchia poltrona e in grembo teneva il maltese di famiglia. Il cane, vedendo entrare Miro, iniziò a scodinzolare e cercò di liberarsi dalla presa della vecchia.
Su un divanetto alla sinistra della poltrona, sedute una accanto all'altra, Giorgia Bruni e la madre Carla si tenevano per mano. La sua amica piangeva a in maniera convulsa.
L'unico elemento estraneo alla famiglia era Fatma, la cameriera mulatta, che si era seduta in disparte.
Miro entrò con il poliziotto al suo fianco e il barattolo di Nutella in mano. «Scusate se vi disturbo,» esordì «Ma temo che l'ingegner Bruni non sia morto per cause naturali.» Gongolò pensando a quanto bene stesse facendo il poliziotto. A conti fatti era già meglio di quello che aveva affianco.
Giorgia divenne rossa in volto e si alzò di scatto. «Miro, che stai combinando?»
«Risolvo il caso!»
«Non c'è nessun caso e tu non sei nessuno per farlo!»
«Ma come, siamo quasi fidanzati…»
«Smettila con questa farsa. Ormai non c'è più nessuno per cui io debba mentire.»
A bocca spalancata, Miro osservò Giorgia allungare la mano verso la cameriera che si mosse verso di lei, la raggiunse e la baciò.
Più eccitato che deluso, Miro si leccò le labbra. «Di questo parleremo dopo.» Ammiccò. «Ora ho un caso da risolvere.»
«Smettila, tu non sei…» Le urla di Gorgia si placarono davanti all'invito della madre che le poggiò la mano sul ginocchio.
Paonazza in volto, la sua amica si sedette tenendo sempre per mano la cameriera che le stava in piedi accanto.
«Veniamo al dunque. Ieri sera la signora Carla e la vittima hanno avuto una discussione per via di questo…» Miro sollevò il barattolo della Nutella e lo mostrò alla donna.
«Veramente no, non era per la Nutella!»
La risposta immediata lo colse di sorpresa. Miro si sentì avvampare, quella era l'unica prova che credeva di avere. Però era troppo presto per gettare la spugna, non avrebbe demorso al primo intoppo. «Allora mi dica, quale sarebbe il giochetto che le aveva proposto suo marito?»
Giorgia scattò in piedi, ma la madre la bloccò. Con contegno, la donna si voltò verso la figlia e sorrise. «Non aver paura cara, nessuno è senza peccato.» Tornò a guardare Miro e indicò un treppiedi con in cima una piramide di legno sul cui vertice c'era quello che sembrava un canarino dalla testa gigante. «Anche mio marito aveva dei gusti particolari.»
Più che l'oggetto furono le parole della donna a fargli capire il concetto. Miro si sentì svuotato, non aveva nessun altro indizio. A quel punto poteva essere stato chiunque alto. Guardò il poliziotto e fece spallucce.
«Ci penseranno i colleghi» lo rincuorò l'uomo, andando incontro alla nonna.
Miro si sedette su una sedia, poggiò il vasetto di Nutella sul tavolo e lo svitò. Magari dentro c'era qualche indizio.
«Basty, dove vai?» Nonna Viani, richiamò il cane.
Miro si voltò e vide il batuffolo a quattro zampe corrergli incontro scodinzolando. Il maltese lo raggiunse e infilò il muso all'altezza dei suoi genitali. Lui si ritrasse, ma il cane iniziò a leccarlo. Imbarazzato, Miro si sporse in avanti per allontanarlo, ma il suo sguardo si concentrò sull'attaccatura della coda dell'animale, dove una macchia marrone scendeva fino all'ano.
Un brivido lo scosse; combatté contro l'urto di vomito. Si alzò di scatto e il cane gli si avvinghiò alla gamba. Senza pensarci, lo lanciò dall'altra parte della stanza.
«Va bene che nessuno è senza peccato, ma voi mi fate proprio schifo.» Si voltò e uscì dalla stanza.
Mentre saliva le scale pensò che, anche se le cause di morte erano state naturali, se l'era cavata in maniera egregia. Non era da tutti riconoscere con il luminol i segni lasciati dalla lingua di un cane e soprattutto, ora che Giorgia aveva una fidanzata poteva puntare a fare una cosa a tre con loro.

Niko G
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Il liberatore del Nuovo Tempio- di Nicola Gambadoro

Messaggio#3 » giovedì 3 novembre 2016, 21:36

L’Angelo varcò l’ingresso del Nuovo Tempio.
Si fermò poco dopo la grande porta a vetri osservando con i suoi nuovi divini occhi l’andirivieni dei farisei che lo popolavano. Contrattavano, chiacchieravano e ridevano, gli stolti, ignorando che egli era ormai evoluto e diventato strumento di Dio. Come potevano non notarlo? Come potevano non accorgersi della luce che emanava, della gioia, della grazia e della purezza? Come potevano continuare a insozzare il Tempio con il loro mercimonio pur di fronte a lui?
Tanti anni prima il Messia era entrato nel Vecchio Tempio, furente, e aveva gridato:

“Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti?
Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri!”


E li aveva cacciati via tutti, i farisei di allora, prendendo a calci i loro banchi carichi di merci e denari. Ma secoli e secoli dopo la sua crocefissione i loro discendenti perpetravano nuovamente quello stupro nella sua nuova Casa, pensando che ormai nessuno potesse più fermarli, poiché ormai l’unico uomo senza peccato mai nato era stato ucciso.
“Solo chi è senza peccato può insegnare la via”. Il Maestro l’aveva detto durante la sua vita terrena, tanti anni fa. Solo chi è senza peccato può scagliare una pietra verso il suo fratello, ma quei pagani? Quelle viscide e immonde gocce di liquame spurgante da Lucifero, che insozzavano la terra sulla quale camminavano? Erano forse loro senza peccato, lo erano?
No. Nel peccato essi vivevano, e in esso proliferavano come blatte nella sporcizia degli angoli, nella casa di Dio.
Ma Dio l’aveva scelto. L’aveva scelto per liberarlo e per dare inizio alla Nuova Era. L’aveva scelto tra tanti e gli aveva indicato la via per la purificazione, per la remissione di tutti i suoi peccati.
L’Angelo aveva meditato per un lungo anno, nella sua misera dimora terrena, osservando quella piccola goccia d’acqua limpida e pura che continuava a cadere giù dal soffitto, inarrestabile. Per ciascuna goccia aveva pregato “ascoltami, o Signore” e aveva atteso per giorni e giorni. Le aveva contate con pazienza, perché ogni goccia d’acqua era penitenza, purificazione, e lavava via un peccato dalla sua anima rendendolo più puro e pronto. Un milione e trecentomila gocce, tante ne vide cadere e tante volte pregò per il perdono, fin quando il Padre gli si palesò nella sua immensa bontà e grandezza confermandogli quello che lui sapeva da sempre…e assolvendolo dal peccato. La sua vita mortale, quando anch’egli lavorava nel Tempio e ivi faceva mercimonio, era ormai finita. Adesso era libero dal peccato e pronto per fare quello che il Messia aveva fatto secoli addietro al Tempio di Gerusalemme. Pronto per liberare il Nuovo Tempio.
Si fermò in mezzo alla sala. Sentiva La luce pervadere il suo corpo, poteva sentirla pompata dal suo cuore che si insinuava in ogni recondito punto del suo essere, battito dopo battito. La sua anima era pura come acqua di fonte, il suo spirito freddo come ghiaccio, il suo corpo infrangibile come acciaio.
Era giunto il momento di cominciare quello che il Padre aveva deciso per lui. Trasse un profondo respiro.
“Farisei!” Urlò con tutta l’aria che aveva nei polmoni.
Tutti si voltarono nei loro ricchi e sopraffini abiti intessuti di filigrane d’oro, e un inquietante silenzio scese sul Tempio mentre gli occhi si puntavano su di lui e sulla sua misera tunica di tela di sacco, unico indumento a proteggerlo dall’ impudicizia di quegli occhi corrotti.
Lui l’aveva detto. L’aveva detto, “Liberatevi dei vostri beni terreni!” Ma costoro ancora vestivano pregiate stoffe e ungevano i loro corpi di preziosi olii profumati come se fossero stati dei Profeti. Adesso avrebbero pagato con la vita, e quei preziosi tessuti sarebbero diventati i loro sudari.
“Avete profanato questo luogo! Lui vi aveva avvisato!” Puntò l’indice verso i farisei, guardandoli negli occhi uno per uno. Grande era la loro moltitudine, e i loro sguardi si riempivano di terrore man mano che si rendevano conto di essere di fronte alla Giustizia.
“Il momento è arrivato. Voi non avete ascoltato Suo figlio e avete profanato il suo Tempio. Ma adesso ascolterete me!”
Estrasse la Croce Tonante dalla tunica. Appena la videro, quelle creature immonde iniziarono a urlare, fuggire e disperdersi come vermi da un cadavere marcescente quando viene purificato dalla pioggia mandata dal Cielo.
L’Angelo si rinfrancò. Chi fugge dalla Croce altro non può essere che una creatura che vive nell’aberrazione.
Un gruppo di farisei urlanti cercò di guadagnare l’uscita dal tempio superando il suo corpo mortale. L’ Angelo puntò la Croce verso di essi e lesse il terrore nei loro occhi prima di scatenare la sua Potenza e vederli accasciarsi al suolo lacerati da orribili ferite apertesi all’istante, che vomitarono fiumi di sangue sul pavimento. Il boato fu assordante e risuonò all’interno del Tempio per secondi che gli sembrarono anni.
“Padre!” Urlò l’Angelo, mentre la puntava su un altro gruppo di peccatori. “Ecco che i loro spiriti volano a te. Redimili!”
Un altro boato accolse quelle misere anime mentre la potenza della Croce li rivoltava all’indietro ad annegare nel loro stesso sangue, tra tosse e conati di vomito. Contemplò la sua opera per qualche secondo e si diresse a passo spedito verso l’interno del Tempio dove la moltitudine di peccatori fuggiva cercando inutile salvezza dalla Luce.
Dietro uno dei banchi colmi di merci e denari vide un uomo nascosto, rannicchiato e tremante. L’Angelo gli si fermò di fronte.
“Ti prego… lasciami andare…”
Il fariseo singhiozzava. L’ Angelo sorrise riconoscendo il pentimento sul suo volto. Si chinò sulle gambe e avvicinò il suo viso a quello dell’uomo, poggiandogli una mano sul capo in sego di benevolenza. Poi si rialzò e poggiò con delicatezza la Croce sul suo capo. L’uomo dimostrò la sua vera natura di peccatore scostandosela dalla testa con mano tremante.
La sua paura della Luce l’aveva tradito.
L’Angelo sorrise e il suo viso coperto dalla barba, dalla polvere e dalla terra s’illuminò in un trionfo di compassione.
“Preghiamo insieme, vuoi? Preghiamo per te. Preghiamo per tutti loro. E’ solo amore che voglio portarvi... amore, pace e perdono. Tu li desideri?”
“Si… ma ti prego… non mi ammazzare..” L’uomo continuava a singhiozzare.
“Pater noster… qui es in caelis…”




Sarah era paralizzata dal terrore. Aveva le mani davanti alla bocca spalancata e guardava la scena dall’alto, attraverso l’ampia vetrata che dalla scrivania del suo ufficio dava sui corridoi del supermercato.
Quando pochi minuti prima aveva visto quello strano tipo entrare e guardarsi intorno con aria spaesata, aveva pensato al solito barbone in cerca di spiccioli ed era tornata alle sue carte. Ma quando l’aveva sentito urlare frasi senza senso aveva sollevato lo sguardo e l’aveva riconosciuto nello stesso istante in cui tirava fuori quel mitra e cominciava a sparare.
Nathan. Nathan O’ Brenn, l’addetto al reparto frutta e verdura che aveva licenziato un anno prima. Vestito con un sacco di tela legato in vita con una corda, i capelli lunghi e arruffati. Sporco, sporco come se non si lavasse da mesi e con una barba che gli arrivava fino al torace. Aveva ammazzato a sangue freddo almeno dieci persone, e adesso stava poggiando il mitra sulla fronte di un uomo in lacrime di fronte a lui. E stava urlando qualcosa… una preghiera… in latino.

…Sanctificetur Nomen Tuum.
Adveniat Regnum Tuum…


Schizzò sotto la scrivania e si rannicchiò in posizione fetale.
Era impazzito, completamente fottuto di cervello, e probabilmente era lì per lei. Per vendicarsi.
Tirò un pugno contro il muro alle sue spalle maledicendo di avere dimenticato il cellulare in macchina… lo portava sempre con sé, anche in bagno, ma quella mattina aveva pensato che sarebbe tornata a prenderlo appena avesse avuto tempo. E nel suo ufficio non aveva mai voluto un telefono fisso per non essere disturbata mentre lavorava… e adesso il telefono più vicino era accanto alla cassa, di sotto. Sperò che qualcuno avesse chiamato il 911. Si, cercò di rassicurarsi, sicuramente l’avevano già chiamato decine e decine di persone. Mentre Nathan sparava a quei poveri clienti vicino alle casse aveva visto molti correre a nascondersi in giro per il supermercato. Qualcuno di loro forse ci stava provando… se non loro, i passanti che da fuori avevano sentito gli spari. Entro un quarto d’ora sarebbero arrivati gli SWAT. Sì, l’avrebbero ammazzato come un cane.

…fiat voluntas Tua,
sicut in caelo, et in terra.


Si strinse il viso tra le mani singhiozzando per il terrore, in un lago di sudore freddo.
Pazzo. Pazzo assassino e bastardo.
Se avesse saputo che le cose sarebbero andate così, non l’avrebbe mai licenziato… ma aveva dovuto.
Quando era venuto a chiederle il lavoro le era sembrato garbato e cortese, con quella spilla a forma di croce al polsino della camicia ben inamidata e stirata. Sorridente, educato. Ma poi aveva cominciato a comportarsi in modo strano…

Panem nostrum
cotidianum da nobis hodie…


Nello sgabuzzino delle scope c’era un vecchio crocifisso, appeso di fronte a un lavandino che gocciolava da una vita. Più di una volta Sarah aveva trovato Nathan a saltare la pausa pranzo per pregare lì dentro. Inizialmente non vi aveva dato peso, anzi le era sembrata una cosa carina. Ma quelle piccole pause di preghiera erano diventate sempre più lunghe, e nell’arco di qualche settimana Nathan aveva cominciato a stare inginocchiato in quello sgabuzzino, di fronte a quel vecchio crocefisso sgangherato, anche ore dopo la chiusura.

…et dimítte nobis debita nostra,
sicut et nos
dimittimus debitoribus nostris…


Sarah aveva fatto finta di niente per un po’. Insomma, che male poteva fare? Aveva tollerato le stranezze di Nathan fino al giorno in cui una vecchia infuriata si era messa a strillare come un’aquila, che voleva parlare col direttore perché non c’era nessuno a imbustarle le lattughe. Sarah si era scusata, le aveva imbustato di persona le preziosissime verdure ed era andata a cercare Nathan nello sgabuzzino, trovandolo a fissare quel cazzo di lavandino di servizio che gocciolava, e a ripetere “ascoltami, o Signore” per ogni goccia d’acqua che cadeva giù, dondolando la testa avanti e indietro con le mani giunte.
A quel punto l’aveva trascinato nel suo ufficio e l’aveva licenziato. Il ragazzo era esploso in una serie di discorsi farfuglianti e senza senso. Diceva che quel crocefisso nello sgabuzzino era il Nuovo Messia. Che bisognava venerarlo ed edificare lì il Nuovo Tempio di Gerusalemme, buttare giù tutto quanto tranne lo sgabuzzino, che sarebbe divenuto il Tabernacolo della Nuova Era, e che bisognava farlo subito, prima che fosse troppo tardi e Dio decidesse di punirli tutti per il loro sacrilegio.
Sarah si morse le labbra e sentì il sapore amaro delle lacrime che le rigavano il viso. Avrebbe dovuto chiamare la polizia e farlo sbattere in manicomio invece di cacciarlo semplicemente fuori. E adesso era tornato per ammazzarla… ed era tutta colpa sua.

et ne nos inducas in tentationem;
sed líbera nos a Malo.



L’Angelo finì la sua preghiera e guardò compiaciuto il peccatore in attesa di perdono di fronte a lui.
L’uomo aveva capito, non scostava più la testa dalla Croce ma piangeva di gioia fissando il pavimento. Perché la Croce è solo veicolo di pace e di purezza: calda, santa luce di conforto e redenzione. Solo i peccatori devono averne paura, per il resto del genere umano essa è solo foriera di perdono.
Sorrise a quell’ anima impura e la liberò. L’uomo cercò di dire qualcosa ma il suo capo esplose in un tripudio di fumo, carni e cervella. L’Angelo gioì nel vedere la sua anima volare fuori dallo squarcio nel capo e ascendere verso l’alto, sorridendogli e bisbigliando una benedizione per averlo salvato. Proseguì verso il Tabernacolo mentre con aria scocciata cercava altri farisei con lo sguardo. Si erano nascosti, i vigliacchi. Ma avevano abbandonato il loro proposito, smesso di fare mercimonio della casa di Dio. Che andassero pure dove volevano, ci avrebbe pensato il Padre a loro.

Sarah guardò la sveglia a forma di Vergine di Ferro sul mobile accanto alla porta. Quando il suo ex marito era tornato dalla mostra sull’ inquisizione di Cincinnati con quell’orribile souvenir aveva pensato che nel suo supermercato non sarebbe entrato mai più nulla di più disturbante… ma si era sbagliata. Segnava le undici e cinquantadue. Quel folle era lì da almeno dieci minuti e ancora non si vedeva nessuno ad aiutarla.
Trasalì e soffocò un urlo nel sentire un'altra roboante raffica di mitra risuonare nel silenzio dei corridoio dei detersivi.
Quel disgraziato… L’aveva… l’aveva ammazzato? Non ebbe il coraggio di alzare la testa per guardare. Anche se sapeva che la vetrata a specchio del suo ufficio impediva a chi era fuori di vedere all’interno, non riuscì a muovere un muscolo. Si strinse facendosi più piccola che potè.


L’Angelo aprì la porta che dava adito al Tabernacolo e strabuzzò gli occhi nel trovare quello che anelava e sognava da mesi. Cadde in ginocchio, in pura estasi di fronte al Messia del Nuovo Tempio. Il Crocifisso lo guardava con occhio benevolo adesso che l’aveva liberato da quei pagani.
“Parlami, Signore.” Disse chinando il capo. Una lacrima solcò la sua guancia sporca di sangue.
“La meretrice” disse il Messia. “Colei che ti cacciò dal Tempio, che capeggia i mercanti che hai punito.” L’Angelo sollevò lo sguardo e si emozionò nel vedere la mano del Crocefisso liberarsi da anni di prigionia e schiodarsi dalla croce, mentre il piccolo chiodo imbrattato di sangue cadeva tintinnando vicino ai suoi piedi nudi. La piccola mano tremante indicò l’ufficio in alto, alle sue spalle.
“Liberami, Angelo. “Continuò “Purifica l’anima della meretrice e io sarò libero. Insieme… daremo inizio alla Nuova Era.”
L’Angelo si voltò e vide la piccola vetrata a specchio, proprio dove il Messia stava indicando. Si fece il segno della croce e si alzò, dirigendosi a passo deciso verso la scala in legno che portava all’ufficio. Salì e si trovò di fronte alla porta con l’altisonante targa, “Direttore”. Provò ad aprirla, ma la maniglia girò a vuoto.
L’Angelo sorrise. Nessuna opera dell’uomo poteva resistere alla Croce.
La poggiò sulla serratura.

La raffica di mitra sfondò la porta e Sarah urlò nel vederla esplodere in un inferno di fumo e schegge mentre Nathan entrava nell’ufficio.

L’Angelo si voltò e la vide, tremante e rannicchiata in un angolo. Colei che aveva imprigionato il Nuovo Tempio e il suo Messia in quel postribolo di mercanti. Colei che aveva cacciato lui, L’Angelo, di fronte alle risate e le beffe dei farisei, ignorando le sue parole di salvezza.

Sarah fissò Nathan in preda al terrore più feroce. Gli occhi del ragazzo erano completamente folli e abbacinati, e sangue e materia cerebrale erano incrostati sul sacco di tela di cui si era vestito. La ragazza piangeva e singhiozzava mentre lui si avvicinava a passo lento. Si schiacciò più che poté contro il muro e sentì uno strano calore scenderle lungo le cosce. Se l’era fatta addosso.
“Nathan… ti prego, perdonami! Io… io non volevo!”

L’Angelo le sorrise. Finalmente stava cercando di redimersi… la sua potenza e la sua magnificenza l’avevano dissuasa dai suoi propositi di servizio a Lucifero, e adesso il suo spirito anelava che lui le insegnasse la Via, la stessa che l’aveva portato a trascendere, da fallace mortale ad Angelo senza peccato. Decise che l’avrebbe aiutata.
Sarah sentì il cuore accelerare e picchiare sul torace come se volesse sfondarlo e schizzare fuori mentre Nathan sollevava il mitra e glielo puntava addosso. Si coprì il viso con le mani.

“Fermo! Polizia! Alza le mani immediatamente!”

Una voce metallica amplificata da un megafono rimbombò nella stanza, proveniente dalla grande finestra alle sue spalle.
“Sei sotto tiro! In ginocchio, ora! ”
L’Angelo si voltò e si diresse tranquillamente verso la vetrata. Tante piccole luci rosse si arrampicarono come ragni sul suo corpo fino a fermarsi sul suo viso e sulla sua fronte. Sorrise nel vedere, affacciati alle finestre del palazzo oltre la strada, una decina di uomini con dei lunghi fucili puntati su di lui.
“In ginocchio! Adesso! Butta il mitra!”
Gli uomini e le loro armi, pensò. Gli davano un fugace senso di potere e credevano di avere il diritto di amministrare la Giustizia uccidendo chi violava le loro regole pagane. Ma ormai i loro giocattoli non servivano più a nulla.
“Stolti!” Gridò in preda alla furia dei Giusti sollevando la Croce Tonante verso di loro.
Le pallottole sibilarono nell’aria come micidiali messaggere di morte e Sarah vide la testa di Nathan esplodere come un’anguria, mentre il corpo del ragazzo cadeva all’indietro, esanime e con una poltiglia rossastra al posto del viso. Le ci volle qualche secondo per realizzare che quei cecchini avevano appena ucciso quel pazzo… e che lei era salva.
Si abbandonò ad un isterico scatto di risa e corse verso la finestra per ringraziare quei poliziotti, quegli angeli che le avevano salvato la vita. Saltò la nauseante pozza di sangue e cervella sul pavimento come fosse stata una pozzanghera e stesse correndo verso il più soave degli arcobaleni dopo un lungo giorno di pioggia.
Quello di cui però non si rese conto era che dal cranio squarciato di Nathan non fuoriuscivano più sangue e materia cerebrale, ma piccole e vibranti gocce di luce accecante.
Sarah si affacciò alla finestra urlando “Grazie! Grazie!” e sbracciandosi in lacrime mentre alle sue spalle il corpo del ragazzo si sollevava dal pavimento e iniziava a fluttuare a un metro da terra. La luce colava dal suo cranio macellato come oro fuso, e ricoprì il suo corpo come chiudendolo in un bozzolo. Il piccolo ufficio si illuminò a giorno e Sarah si voltò sorpresa. Lo stupore si trasformò in panico quando quella luce liquida prese lentamente la forma di un uomo gigantesco. L’Angelo urlò per la gioia della Trasfigurazione e il bozzolo esplose come una supernova rivelando finalmente agli occhi della donna la sua vera forma. Il Liberatore aprì le braccia dispiegando le lunghe ali splendenti e si diresse verso la meretrice fissandola con i suoi occhi infuocati. Era alto quasi quanto il soffitto e il suo corpo era protetto da una lucente armatura riccamente intarsiata di simboli arcani.

“Pensavi che fossi pazzo, vero?”

La voce dell’Angelo era come dieci, cento, mille voci di uomini e donne insieme, un terrificante canto gregoriano di morte. Sarah rimase inebetita mentre lui la prendeva per il collo con una mano e la sollevava a due metri dal terreno. Gli occhi della donna fissarono le orbite fiammeggianti del Liberatore mentre suoni indistinti e strozzati provenivano dalla sua gola stritolata da quella morsa d’acciaio, e il suo volto andava facendosi sempre più violaceo.
L’Angelo spezzò il collo di Sarah come fosse stato un ramoscello e la scagliò con potenza disumana di fronte a sé. Il corpo della donna volò come una bambola di pezza sfondando quello che era rimasto della vetrata e precipitando giù. Dopodiché si affacciò sorrise all’indirizzo dei cecchini ancora in posizione di tiro a una cinquantina di metri di distanza.
“In ginocchio! In ginocchio! Ora!”
Il Liberatore percepì la paura nelle voci di quei peccatori, che continuavano a sparare con le loro inutili armi terrene. Adesso che il Tempio era stato liberato i suoi fratelli sarebbero arrivati a breve, pensò, sollevando lo sguardo verso il cielo azzurro che già andava solcandosi lentamente di centinaia di scie dorate che discendevano su tutta la città come nuove Stelle Comete dell’Avvento. Il suo viso marmoreo si illuminò di gioia e stupore… Uno dopo l’altro, i suoi fratelli precipitavano rabbiosi e splendenti su quella terra corrotta, e l’umanità avrebbe potuto ammirare la grandezza e la magnificenza di una pioggia di Angeli prima di venire cancellata per sempre.
Dispiegò ancora le sue ali fiammeggianti in tutta la loro lunghezza e aprì le braccia mostrando il possente torace ai cecchini che continuavano a sparargli addosso. Lasciò che il suo corpo s’illuminasse come il sole nella Grazia di Dio, mentre i proiettili rimbalzavano uno dopo l’altro sulla sua Armatura Eterna con secchi tintinnii metallici e il suo terrificante urlo di trionfo sfondava le pareti intorno a sé in un’esplosione di legno e cemento.

Ammirate! Ammirate la Gloria del Liberatore del Nuovo Tempio!
Non so scrivere, ma ho bisogno di farlo.

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Re: Semifinale gruppo Laura Platamone

Messaggio#4 » lunedì 14 novembre 2016, 23:28

Ecco i commenti di Laura Platamone:

CSI all'italiana

Come dice anche il titolo, un giallo all’italiana. Con tutti i vizi e le poche virtù che si nascondono nell’ideale della tipica famiglia “bene”. Scorrevole e piacevole alla lettura pur nella trama decisamente sopra le righe. Tutto risulta eccessivo, dai patetici tentativi di Miro di concupire la bella collega, alla love story tra il poliziotto e la vecchia nonna, fino alla scoperta del vizioso epilogo. Eppure, tutti questi eccessi sono coerenti al taglio generale del racconto che risulta sì, sopra le righe, ma coerente con se stesso.
Il testo si legge veloce ma presenta varie imperfezioni da correggere. Rivedrei anche la gestione degli spazi narrativi e l’alternanza di narrato e dialogo. Il primo risulta troppo frammentato con a capo insistiti e talvolta ingiustificati (non serve andare a capo ogni volta che si mette un punto!). Il secondo invece andrebbe isolato meglio dal narrato.
A seguire qualche piccola nota di editing.

«Alle volte non so se lo fai o ci sei?»
Questa dovrebbe essere un’affermazione sconsolata piuttosto che una domanda.

fu lesta ad evitare
“D” eufonica. Bleah

«Tranquillo, Giorgia ne avrà uno.» si disse.
Visto che è un pensiero andrebbe messo in maniera diversa dai dialoghi veri e propri, tipo in corsivo.

un piccolo mobiletto su cui c'era appoggiato un router.

ma un ombra gli si parò davanti
con ombra, femminile, l’articolo va apostrofato. un’ombra

«Ho quello dell'Iphon.»
Iphone

lì ne tiene uno di scorta
Sarebbe meglio mettere il “lì” alla fine.

Giorgia era convinto che lui fosse orfano
Convinta

Per la camera aveva usato quella portatile che usava come portachiavi
ripetizione usato/usava

Miro tornò ad osservare la stanza.
“D” eufonica.

la vecchia matriarca non che madre del defunto
nonché

La sua amica piangeva a in maniera convulsa.
c’è una a di troppo

A quel punto poteva essere stato chiunque alto.
Altro

Nonna Viani, richiamò il cane.
Viani?



Il liberatore del Nuovo Tempio

Un racconto che mi è piaciuto molto. Ricercato nella costruzione ma equilibrato. L’idea è originale e ben gestita. Il tono adeguato ai vari momenti. La caratterizzazione dei personaggi è precisa ed efficace. Il finale a sorpresa rende la trama originale. Fosse stato il semplice delirio di una mente malata non si sarebbe discostato molto da tante altre soluzioni simili. La rivelazione finale è il bonus che non ci si aspetta. E che colpisce nel segno.
Generalmente corretta la forma a parte qualche piccola imperfezione. Ho trovato qualche problema nell’uso di apostrofi e accenti. Sì affermazione scritti senza accento, e maiuscole accentate con l’apostrofo invece che con l’accento, potè invece di poté, e alcuni spazi dopo l’apostrofo dove invece non ci volevano. La parola crocifisso a volte diventa crocefisso. A seguire alcuni errori riscontrati:

olii profumati
il plurale con la doppia i e talmente arcaico e desueto che pure la Crusca l’ha sdoganato

nel silenzio dei corridoio dei detersivi. 
Del corridoio

più piccola che potè.
Poté, con l’accento acuto

schiodarsi dalla croce, mentre il piccolo chiodo
schiodarsi/chiodo

“Liberami, Angelo. “Continuò “Purifica
le virgolette sono messe male

Si abbandonò ad un isterico scatto di risa
ad--- d eufonica. Bleah


Nel complesso ho preferito il racconto Il liberatore del Nuovo Tempio, l’ho trovato più ricercato nel linguaggio e organizzato nella gestione della trama e dei personaggi. Molto realistica, per quanto delirante la prima parte e sorprendente nel finale a sorpresa.

Classifica:
1) Il liberatore del Nuovo Tempio
2) CSI all'italiana

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